N. 64 SENTENZA 19 marzo - 19 aprile 2024

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Patrocinio a spese dello Stato -  Vittoria  della  lite  della  parte
  ammessa al beneficio  -  Quantificazione  delle  spese  processuali
  dovute dal soccombente,  con  pagamento  a  favore  dello  Stato  -
  Utilizzo,  secondo  l'interpretazione  del  diritto  vivente  della
  novella introdotta con decreto legislativo, dei  criteri  ordinari,
  in misura  piena  e  non  dimidiata  -  Denunciata  violazione  dei
  principi  e  criteri  direttivi  dettati  dalla  legge  di  delega,
  disparita'  di  trattamento  nonche'  violazione  dei  principi  di
  capacita' contributiva e imparzialita' del giudice - Non fondatezza
  delle questioni. 
- Decreto legislativo 30 maggio 2002, n.  113,  art.  133,  comma  1,
  trasfuso nell'art. 133, comma 1, del decreto del  Presidente  della
  Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. 
- Costituzione, artt. 3, 23, 53, 76 e 111, secondo comma. 
(GU n.17 del 24-4-2024 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta da: 
Presidente:Augusto Antonio BARBERA; 
Giudici  :Franco  MODUGNO,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni   AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo  BUSCEMA,
  Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo  PATRONI
  GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella  SCIARRONE
  ALIBRANDI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 133,  comma
1, del decreto legislativo 30 maggio 2002,  n.  113,  recante  «Testo
unico  delle  disposizioni  legislative  in  materia  di   spese   di
giustizia. (Testo B)», trasfuso nell'art. 133, comma 1,  del  decreto
del Presidente della Repubblica  30  maggio  2002,  n.  115,  recante
«Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia di spese di giustizia. (Testo  A)»,  promosso  dal  Tribunale
ordinario di  Cagliari,  in  funzione  di  giudice  del  lavoro,  nel
procedimento  vertente  tra  M.M.  B.  e  l'Istituto  nazionale   per
l'assicurazione  contro  gli  infortuni  sul  lavoro   (INAIL),   con
ordinanza del 20  giugno  2023,  iscritta  al  n.  121  del  registro
ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2023. 
    Visti l'atto di costituzione dell'INAIL e  l'atto  di  intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 19 marzo 2024 il Giudice relatore
Luca Antonini; 
    uditi l'avvocato Giandomenico Catalano per l'INAIL  e  l'avvocato
dello Stato Pietro Garofoli  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 marzo 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 giugno 2023 (reg. ord. n. 121 del 2023),
il Tribunale ordinario  di  Cagliari,  in  funzione  di  giudice  del
lavoro, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 76 e 111,
secondo  comma,  della  Costituzione  -  questioni  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 133, comma 1,  del  decreto  legislativo  30
maggio  2002,  n.  113,  recante  «Testo  unico  delle   disposizioni
legislative in materia di spese di giustizia.  (Testo  B)»,  trasfuso
nell'art. 133, comma 1, del decreto del Presidente  della  Repubblica
30 maggio 2002, n.  115,  recante  «Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia.  (Testo
A)». 
    La suddetta disposizione stabilisce che «[i]l  provvedimento  che
pone a carico della parte soccombente non ammessa  al  patrocinio  [a
spese dello Stato] la rifusione  delle  spese  processuali  a  favore
della parte ammessa dispone che il pagamento sia  eseguito  a  favore
dello Stato». 
    Essa e' censurata nella parte in cui,  secondo  l'interpretazione
datane dal diritto vivente, prevede che, qualora  risulti  vittoriosa
la parte non abbiente ammessa al beneficio  del  patrocinio  a  spese
dello Stato, il  giudice  civile  quantifichi  le  spese  processuali
dovute a quest'ultimo dal soccombente «secondo i criteri ordinari, in
misura piena e quindi superiore rispetto a quella dei compensi dovuti
dallo Stato [stesso] al difensore del non abbiente». 
    2.-  Investito  del  ricorso  diretto  all'annullamento  di   una
cartella esattoriale emessa per la riscossione di un credito  vantato
dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni  sul
lavoro (INAIL), il  rimettente  riferisce  di  essere  chiamato,  nel
definire il giudizio, a regolare le spese  processuali,  ponendole  a
carico  dell'Istituto   resistente   secondo   il   principio   della
soccombenza e disponendone il pagamento a favore dello Stato, poiche'
la parte vittoriosa e' stata ammessa al suddetto beneficio. 
    2.1.- Il giudice a quo rileva che, in tal caso, la giurisprudenza
di legittimita' (sono  citate  Corte  di  cassazione,  sezione  sesta
civile, sottosezione seconda, ordinanze 19 settembre 2017, n.  21611,
e 16 settembre 2016, n.  18167;  sezione  sesta  penale,  sentenza  8
novembre-14 dicembre 2011, n. 46537) avrebbe  inizialmente  enunciato
il principio della necessaria coincidenza tra la somma che va  rifusa
allo Stato ai sensi dell'art. 133, comma 1, del  d.P.R.  n.  115  del
2002 e quella erogata dallo Stato stesso al difensore della parte non
abbiente e liquidata ai sensi degli artt. 82, comma 1, e  130,  comma
1, del medesimo d.P.R., in forza dei quali i compensi dovuti  a  tale
difensore debbono essere quantificati  in  misura  non  superiore  ai
valori medi  previsti  dai  parametri  recati  dall'apposito  decreto
ministeriale e poi ridotti della meta'. 
    Il rimettente precisa che, tuttavia, la giurisprudenza civile  di
legittimita'  sarebbe  successivamente  pervenuta  alla   conclusione
opposta, affermando che «il giudice civile,  diversamente  da  quello
penale, non e' tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute
dal soccombente allo Stato [...] e quelle dovute dallo Stato [stesso]
al difensore del non abbiente [...], alla luce delle peculiarita' che
caratterizzano il sistema processualpenalistico di patrocinio a spese
dello Stato e del fatto che, in caso contrario, si verificherebbe una
disapplicazione del summenzionato art. 130. In tal modo, si evita che
la parte soccombente verso  quella  non  abbiente  sia  avvantaggiata
rispetto agli altri soccombenti e si  consente  allo  Stato,  tramite
l'eventuale incasso di somme maggiori rispetto a quelle liquidate  al
singolo difensore, di compensare le situazioni di mancato recupero di
quanto corrisposto e di  contribuire  al  funzionamento  del  sistema
nella sua globalita'» (e' citata Corte di cassazione, sezione seconda
civile, ordinanza 11 settembre 2018, n. 22017). 
    Tale orientamento avrebbe trovato, poi, conferma -  «e  non  piu'
solo sotto forma di obiter» - in numerose altre pronunce della  Corte
di cassazione (sono  citate  Corte  di  cassazione,  sezione  seconda
civile, sentenze 19 gennaio 2021, n. 777 e 3  gennaio  2020,  n.  19;
sezione lavoro, sentenza 26 marzo  2019,  n.  8387;  sezione  seconda
civile, ordinanza 8 gennaio  2020,  n.  136;  sezione  sesta  civile,
sottosezione  lavoro,   ordinanza   3   maggio   2019,   n.   11590),
consolidandosi al punto da divenire diritto vivente. 
    3.- Cosi' interpretato, l'art. 133, comma 1, del  d.P.R.  n.  115
del 2002  violerebbe,  a  parere  del  giudice  a  quo,  gli  evocati
parametri costituzionali. 
    3.1.-   Alla   prospettazione   dei   dubbi    di    legittimita'
costituzionale viene  premessa  una  ricostruzione  diacronica  della
disciplina legislativa dell'assistenza giudiziaria alle  persone  non
abbienti, per desumerne che, prima dell'adozione del  d.P.R.  n.  115
del 2002 - il quale ha accorpato le disposizioni legislative  di  cui
al d.lgs. n. 113 del 2002 e le disposizioni regolamentari di  cui  al
d.P.R.  30  maggio  2002,  n.  114,  recante   «Testo   unico   delle
disposizioni regolamentari in materia di spese di  giustizia.  (Testo
C)» -, lo Stato avrebbe potuto «recupera[re] dalla parte  soccombente
diversa da quella non abbiente gli importi dovuti al difensore  della
parte  beneficiaria  del  patrocinio  gratuito  e  non  anche   somme
maggiori». 
    Con la norma indubbiata, quindi,  sarebbe  stato  «per  la  prima
volta»  previsto  che  lo  Stato  possa   «recuperare   dalla   parte
soccombente il valore dei compensi di avvocato liquidabile [...] come
se la parte vincitrice non fosse ammessa al patrocinio», ovvero senza
«il limite della coincidenza di detto valore con quello dei  compensi
anticipati  dall'Erario  all'avvocato   della   parte   gratuitamente
difesa». 
    Di qui la dedotta violazione dell'art.  76  Cost.,  poiche'  tale
previsione contrasterebbe con l'art. 7 della legge 8 marzo  1999,  n.
50 (Delegificazione e testi unici di norme  concernenti  procedimenti
amministrativi - Legge di semplificazione 1998). 
    Questa disposizione, nel  delegare  il  Governo  all'adozione  di
testi  unici  finalizzati  al  riordino  delle  norme  legislative  e
regolamentari in un complesso di materie, tra cui quella delle  spese
di giustizia, detterebbe infatti, al comma 2, lettera d), il criterio
direttivo  del  mero   «coordinamento   formale   del   testo   delle
disposizioni vigenti», consentendo di superare tale  limite  solo  se
cio'  sia  funzionale  all'obiettivo   «della   coerenza   logica   e
sistematica della normativa riordinata» (sono citate le  sentenze  n.
53 e n. 52 del 2005 di questa Corte). 
    Il Governo, invece, con la disposizione denunciata non si sarebbe
limitato, alla luce  delle  considerazioni  dianzi  svolte,  al  mero
coordinamento formale, avendo invece introdotto una norma  del  tutto
innovativa. 
    Ne',  d'altro  canto,  una  siffatta   scelta   potrebbe   essere
giustificata in  quanto  preordinata  al  suddetto  obiettivo  e,  in
particolare, allo scopo di «allineare» la disciplina del beneficio de
quo a quella della condanna al pagamento delle spese di lite  di  cui
all'art.  91  del  codice  di  procedura  civile,  la  cui  «funzione
(indennitaria)» sarebbe stata, anzi, snaturata. 
    3.2.- Risulterebbero violati anche gli artt. 3,  23,  53  e  111,
secondo comma, Cost. 
    Ritiene in proposito il rimettente che l'obbligo del pagamento di
una  somma,  «corrispondente  al  valore  "pieno"   degli   onorari»,
superiore a quella dovuta dallo Stato al difensore  della  parte  non
abbiente costituisca,  per  la  differenza  tra  i  due  importi,  un
«prelievo coattivo»,  traducendosi  in  una  obbligazione  di  natura
tributaria. 
    Della fattispecie tributaria sussisterebbero, infatti, tutti  gli
elementi  caratteristici  definiti  dalla  giurisprudenza  di  questa
Corte, dal momento che, per la detta differenza: a)  la  condanna  al
pagamento delle  spese  processuali  determinerebbe  «senz'altro  una
definitiva e significativa decurtazione patrimoniale a carico»  della
parte soccombente; b) tale decurtazione non riguarderebbe un rapporto
sinallagmatico; c) le risorse cosi'  ottenute  si  giustificherebbero
«con  l'obiettivo  di  finanziare  in  generale   l'istituzione   del
patrocinio per i non abbienti». 
    L'obbligazione  tributaria   in   discorso,   tuttavia,   sarebbe
irragionevolmente  «sganciata  da  ogni  verifica   sulla   capacita'
contributiva»  e   foriera   di   un'ingiustificata   disparita'   di
trattamento tra i soccombenti, poiche' questi sarebbero «chiamat[i] a
contribuire alla spesa generale connessa» all'istituto de quo solo se
condannati al pagamento delle spese di lite e non anche nel  caso  in
cui il giudice disponga la compensazione delle spese stesse. 
    Inoltre - osserva ancora il rimettente -, dalla  suddetta  natura
tributaria deriverebbe altresi' che  la  disposizione  denunciata  si
risolverebbe  nell'attribuzione  all'autorita'  giudiziaria  di  «una
funzione impositiva». 
    Di qui  «una  inevitabile  confusione  tra  l'espletamento  della
funzione giurisdizionale, che esige garanzie di [...]  imparzialita'»
ai sensi dell'art. 111, secondo comma, Cost., «e l'espletamento di un
potere prettamente riferibile allo  Stato  Amministrazione»,  con  la
conseguente  «perdita  della  posizione  di  terzieta'  propria   del
giudice». 
    4.- Tanto chiarito in punto di  non  manifesta  infondatezza,  il
Tribunale  rimettente,  per  un  verso,  osserva  che   non   sarebbe
praticabile un'esegesi costituzionalmente orientata, giacche' questa,
alla  luce  del  consolidato  orientamento  della  giurisprudenza  di
legittimita', sarebbe «destinata ad essere cassata». 
    Per  altro  verso,  ribadisce  che,  per  definire  il   giudizio
sottoposto alla sua cognizione, deve pronunciarsi anche  sulle  spese
processuali, condannando la parte resistente  al  loro  pagamento  in
favore dello Stato, in applicazione della disposizione denunciata. 
    Donde la rilevanza delle questioni sollevate. 
    5.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  e,
in ogni caso, non fondate. 
    5.1.- L'eccepita inammissibilita' e' basata, in primo luogo,  sul
rilievo per cui le doglianze del giudice a quo non  avrebbero  dovuto
attingere la disposizione denunciata, ma il  suo  combinato  disposto
con l'art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella  parte  in
cui prevede che lo  Stato  recuperi  una  somma  maggiore  di  quella
liquidata dal giudice in favore del difensore della parte ammessa  al
beneficio in parola. 
    In secondo luogo, le questioni sollevate sarebbero  inammissibili
perche' il rimettente,  essendosi  «limita[to]  a  richiamare  alcuni
precedenti  della  giurisprudenza  di  legittimita'»,   non   avrebbe
specificamente motivato  in  ordine  alla  esistenza  del  contestato
diritto  vivente   e,   di   conseguenza,   all'impraticabilita'   di
un'interpretazione  costituzionalmente  conforme  della  disposizione
sospettata. 
    Risulterebbe, infine, in ogni  caso  inammissibile  la  questione
sollevata in riferimento all'art. 23 Cost., non avendo il  giudice  a
quo in alcun modo motivato il supposto contrasto con questo parametro
costituzionale. 
    5.2.- Nel merito, le questioni sarebbero comunque non fondate. 
    Osserva l'Avvocatura generale che l'art. 133, comma 1, del d.P.R.
n. 115 del 2002 non prevede espressamente se il giudice civile  debba
liquidare le spese processuali applicando, o meno, la riduzione della
meta'  prevista  dall'art.  130,  comma  1,  del   medesimo   d.P.R.,
limitandosi a stabilire che il loro pagamento sia disposto  a  favore
dello Stato. 
    Non  sarebbe,  pertanto,  ravvisabile  la  lamentata   violazione
dell'art.  76  Cost.,  poiche'  il   legislatore   delegato   avrebbe
fedelmente «compilato il testo unico  nel  rispetto  dei  criteri  di
delega» e a essere mutata sarebbe solo  l'interpretazione  che  della
disposizione censurata  e'  stata  fornita  dalla  giurisprudenza  di
legittimita'. 
    Parimenti priva di fondamento risulterebbe la dedotta  violazione
degli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost. 
    L'ammissione al patrocinio a spese dello Stato - rileva la difesa
statale - darebbe luogo esclusivamente a un «rapporto  tra  la  parte
ammessa e il proprio difensore e  [...]  tra  costoro  e  lo  Stato»,
sicche' nessun riflesso potrebbe  avere  nei  confronti  della  parte
soccombente, rispetto alla quale rappresenterebbe una circostanza del
tutto neutra. 
    Sarebbe, quindi, del tutto ragionevole che il giudice quantifichi
le  spese  di  lite  senza  dimezzare  i  compensi  per   l'attivita'
difensiva: in tal modo,  infatti,  il  soccombente  resta  tenuto  al
pagamento del medesimo importo che avrebbe dovuto  rifondere  qualora
la  controparte  non  fosse  stata  ammessa  al  beneficio,  con   la
conseguenza che non subirebbe alcun pregiudizio e, per converso,  non
trarrebbe indebitamente profitto da un fatto estraneo alla sua  sfera
giuridica,  ovvero  dalle  condizioni  economiche  della  controparte
stessa. 
    In definitiva, al lume di tali rilievi, non  sarebbe  ravvisabile
«alcun prelievo  di  natura  anche  solo  latamente  tributaria»  nei
confronti del soccombente. 
    Dal  che,  conclude  l'Avvocatura  generale,  deriverebbe   anche
l'insussistenza  della  lamentata  compromissione  del  principio  di
terzieta' del giudice. 
    6.- Si e' costituito in giudizio l'INAIL,  parte  resistente  nel
processo principale, che, ricostruita la vicenda processuale  da  cui
trae origine l'ordinanza di  rimessione,  ha  chiesto  l'accoglimento
delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 23, 53 e  111,
secondo comma, Cost., «rimette[ndosi]  alla  valutazione»  di  questa
Corte in merito alla censura di violazione dell'art. 76 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 giugno 2023 (reg. ord. n. 121 del 2023),
il Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice del  lavoro,  dubita
della legittimita' costituzionale dell'art. 133, comma 1, del  d.lgs.
n. 113 del 2002, trasfuso nell'art. 133, comma 1, del d.P.R.  n.  115
del 2002, a mente del quale «[i]l provvedimento  che  pone  a  carico
della parte soccombente non ammessa  al  patrocinio  [a  spese  dello
Stato] la rifusione delle spese  processuali  a  favore  della  parte
ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato». 
    2.- Ad avviso del rimettente, questa disposizione violerebbe  gli
artt. 3, 23, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in  cui,
secondo l'interpretazione datane dal diritto vivente, prevede che, in
caso di vittoria della lite  della  parte  non  abbiente  ammessa  al
beneficio del patrocinio a  spese  dello  Stato,  il  giudice  civile
quantifichi  le  spese  processuali   dovute   a   quest'ultimo   dal
soccombente «secondo i criteri ordinari, in  misura  piena  e  quindi
superiore rispetto a quella dei compensi dovuti dallo Stato  [stesso]
al difensore del non abbiente». Compensi, questi, che, ai sensi degli
artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, devono
essere quantificati in  misura  non  superiore  ai  valori  medi  dei
parametri volti alla  determinazione  dei  compensi  per  l'attivita'
difensiva e poi ridotti della meta'. 
    3.- Osserva in limine il giudice  a  quo  che  la  giurisprudenza
civile di legittimita', dopo avere inizialmente espresso  un  diverso
orientamento, si sarebbe  ormai  assestata  -  assurgendo  a  diritto
vivente - nel senso di escludere che il giudice debba quantificare le
spese  dovute  allo  Stato  dalla  parte  soccombente  nella  misura,
dimidiata, che lo Stato stesso e' tenuto a versare al difensore della
parte non abbiente vittoriosa. 
    Questo esito ermeneutico, che impone  quindi  la  quantificazione
nella misura normale, lo induce tuttavia  a  ritenere  che  la  norma
denunciata leda, innanzitutto, l'art. 76 Cost. 
    Alla stregua del criterio direttivo dettato dall'art. 7, comma 2,
lettera d), della legge n. 50 del 1999, il  testo  unico  di  cui  al
d.P.R. n. 115 del 2002 - nel quale, come e' noto, sono  confluite  le
disposizioni  legislative  del  d.lgs.  n.  113  del  2002  e  quelle
regolamentari del d.P.R. n. 114 del 2002 - avrebbe  dovuto,  infatti,
provvedere al  mero  coordinamento  formale  del  previgente  assetto
legislativo; la disposizione sospettata, invece, recherebbe una norma
innovativa, nemmeno giustificabile in forza di esigenze  di  coerenza
sistematica. La «funzione (indennitaria)» della condanna al pagamento
delle spese di lite di cui all'art. 91 cod. proc. civ. sarebbe stata,
anzi, snaturata. 
    Secondo il rimettente, l'art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del
2002 violerebbe anche gli artt. 3, 23, 53 e 111, secondo comma, Cost. 
    A  suo  avviso,  l'obbligo,  in  capo  alla   parte   soccombente
condannata alle spese, di corrispondere allo Stato una somma maggiore
rispetto all'ammontare dei compensi da  questo  dovuti  al  difensore
della  parte  non  abbiente  vittoriosa  avrebbe,   infatti,   natura
tributaria, per la differenza tra i due importi. 
    Tale  obbligazione,  tuttavia,   risulterebbe   irragionevolmente
disancorata  da  un  concreto  indice  di   capacita'   contributiva,
generando,  peraltro,  un'ingiustificata  disparita'  di  trattamento
tributario tra i soccombenti, poiche' graverebbe su di essi  solo  se
condannati al pagamento delle spese di lite e non anche nel  caso  in
cui il giudice disponga la compensazione delle spese stesse. 
    Dalla suddetta natura discenderebbe, inoltre, che la disposizione
sospettata   si    risolverebbe    nell'attribuzione    all'autorita'
giudiziaria di «una funzione impositiva», cosi' minando la  terzieta'
del giudice, giacche' darebbe luogo a una «inevitabile confusione tra
l'espletamento della funzione giurisdizionale [...] e  l'espletamento
di un potere [quello impositivo] prettamente  riferibile  allo  Stato
Amministrazione». 
    4.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso   dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,   ha    eccepito
l'inammissibilita' delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate,  anzitutto,   perche'   il   rimettente   avrebbe   errato
nell'indirizzare le proprie censure nei confronti della  disposizione
denunciata anziche' verso il suo combinato disposto con  l'art.  130,
comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002. 
    L'eccezione non coglie nel segno. 
    Il giudice a quo, infatti, non  si  duole  in  alcun  modo  della
disciplina recata dal citato art. 130, comma 1 -  che  stabilisce  la
decurtazione della meta' del compenso spettante  al  difensore  della
parte che fruisce del beneficio -, ma esclusivamente del fatto che il
successivo art. 133, comma 1, come interpretato dalla  giurisprudenza
civile di legittimita', escluda che il giudice debba tenere conto  di
detta decurtazione in sede di  condanna  al  pagamento  delle  spese:
pertanto, esso assume correttamente a bersaglio delle proprie censure
quest'ultima disposizione, che tale condanna disciplina. 
    4.1.- E' priva di pregio anche l'eccezione d'inammissibilita' con
cui l'Avvocatura generale  lamenta  che  il  rimettente  non  avrebbe
sufficientemente  motivato  sulle  ragioni  per  cui  si  sarebbe  al
cospetto di un  diritto  vivente  e,  di  conseguenza,  sull'asserita
impraticabilita' di un'interpretazione adeguatrice. 
    Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa  statale,  infatti,
il Tribunale di Cagliari non si e' «limita[to]  a  richiamare  alcuni
precedenti della giurisprudenza di legittimita'»: al contrario,  esso
si e' soffermato sul mutamento di orientamento che si  e'  registrato
in seno alla Corte di cassazione civile, a partire da  una  pronuncia
del 2018 (Cass., n. 22017 del 2018)  e  poi  confermato  in  numerose
altre decisioni;  l'adozione  di  una  differente  opzione  esegetica
verrebbe quindi a confliggere con quella fatta propria dal giudice di
ultimo grado. 
    Nella giurisprudenza civile di legittimita', in  effetti,  si  e'
radicata  l'interpretazione   volta   a   escludere   la   necessaria
coincidenza tra i due importi che vengono in  rilievo  (ex  plurimis,
Corte di cassazione, sezione seconda  civile,  sentenza  16  novembre
2023, n. 31928, e sezione  lavoro,  sentenze  20  dicembre  2019,  n.
34190, e n. 8387 del 2019; sezione prima civile, ordinanza 2  gennaio
2024, n. 64; sezione seconda civile,  ordinanza  5  maggio  2023,  n.
11804; sezione  sesta  civile,  sottosezione  seconda,  ordinanza  14
novembre 2019, n. 29688, e sottosezione lavoro, n. 11590 del 2019). 
    Quindi, il giudice a quo ha correttamente  assunto  tale  approdo
interpretativo in termini di diritto vivente e ne  ha  richiesto,  su
tale presupposto, il controllo  di  compatibilita'  con  i  parametri
costituzionali evocati (ex plurimis, sentenze n. 38 del 2024, n. 243,
n. 178 e n. 20 del 2022). 
    4.2.-    Merita,    invece,    accoglimento    l'eccezione     di
inammissibilita' della censura formulata in riferimento  all'art.  23
Cost.,  per  omessa  motivazione  in  ordine   alla   non   manifesta
infondatezza del prospettato dubbio di legittimita' costituzionale. 
    L'ordinanza di rimessione, infatti,  e'  tutta  incentrata  sulla
considerazione per cui si sarebbe in presenza di  un'obbligazione  di
natura tributaria, mentre omette qualsiasi specifica argomentazione a
sostegno del denunciato contrasto con il parametro  in  discorso,  il
quale, pertanto, risulta evocato in maniera generica e assertiva  (ex
plurimis, sentenza n. 161 del 2023). 
    5.-  Con  la  prima  questione  di  legittimita'   costituzionale
sollevata, il rimettente deduce la  violazione  dell'art.  76  Cost.,
perche', come si e' detto, introducendo una norma, a  suo  dire,  del
tutto innovativa, non giustificata da  alcuna  esigenza  di  coerenza
sistematica e anzi contraria alla  «funzione  (indennitaria)  propria
della condanna al rimborso delle spese processuali», il Governo,  con
l'art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, avrebbe  violato  il
criterio direttivo di cui all'art. 7,  comma  2,  lettera  d),  della
legge n. 50 del 1999. 
    Nell'emanazione del testo unico in  discussione,  il  legislatore
delegato,  infatti,  avrebbe  dovuto  attenersi   al   criterio   del
coordinamento formale del testo delle disposizioni  vigenti,  potendo
apportare le sole «modifiche necessarie  per  garantire  la  coerenza
logica e sistematica» della normativa riordinata. 
    5.1.- In effetti, il testo unico in cui si  colloca  il  suddetto
art. 133, comma 1, e' stato emanato  sulla  base  dell'art.  7  della
legge n. 50 del 1999, come modificato  dall'art.  1  della  legge  24
novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e
per la semplificazione di  procedimenti  amministrativi  -  Legge  di
semplificazione 1999), che aveva demandato al Governo la redazione di
testi  unici  finalizzati  al  riordino  delle  norme  legislative  e
regolamentari in un  complesso  di  materie,  tra  cui  le  spese  di
giustizia. 
    Si tratta quindi di una tipologia di delega diretta al riordino o
al riassetto di settori normativi,  per  la  quale  questa  Corte  ha
inquadrato in limiti rigorosi l'esercizio, da parte  del  legislatore
delegato,  di  poteri  innovativi  della  normazione   vigente,   «da
intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle
finalita' esplicitate dalla legge di  delega»  (sentenza  n.  84  del
2017). 
    In tale cornice,  questa  Corte  si  e'  peraltro  specificamente
occupata, in piu' occasioni, della delega prevista dall'art. 7  della
legge n. 50 del 1999 e, proprio in riferimento al testo  unico  sulle
spese di giustizia,  ha  affermato  che  il  criterio  direttivo  del
coordinamento puo' anche «essere non solo formale», e dunque tradursi
in un testo non meramente compilativo,  purche',  pero',  l'obiettivo
rimanga «quello della coerenza logica e sistematica  della  normativa
riordinata» (sentenza n. 174 del 2005). 
    5.2.- Cio' premesso, va infine  precisato  che  la  questione  di
legittimita' costituzionale per l'eccesso  di  delega  sollevata  dal
rimettente non investe la disposizione  in  se'  considerata,  ma  la
norma che  il  diritto  vivente  vi  avrebbe  tratto,  attraverso  un
mutamento di orientamento a  partire  dal  2018,  stabilendo  che  il
giudice civile condanna la parte soccombente senza «il  limite  della
coincidenza» con  i  «compensi  anticipati  dall'Erario  all'avvocato
della parte gratuitamente difesa». 
    5.3.- La questione non e' fondata. 
    Va innanzitutto chiarito che, in ipotesi, la violazione dell'art.
76 Cost. ben potrebbe manifestarsi anche in riferimento a  una  norma
ricavata dal  diritto  vivente,  dal  momento  che  sarebbe  comunque
addebitabile al legislatore delegato l'emanazione di una disposizione
che, per il suo tenore, legittima un'interpretazione in contrasto con
i principi e i criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante. 
    Tale ipotesi, tuttavia, non  si  verifica  nel  caso  di  specie,
perche' la norma censurata non determina il suddetto contrasto. 
    5.3.1.-  Come  si  e'  chiarito,  secondo  la  giurisprudenza  di
legittimita' che si e' consolidata dopo il 2018,  il  giudice  civile
non deve quantificare in misura uguale  le  somme  dovute,  ai  sensi
dell'art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002,  dal  soccombente
allo Stato e quelle dovute, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e  130,
comma 1, del medesimo d.P.R., dallo Stato stesso al difensore del non
abbiente. 
    A  tale  interpretazione  la  Corte  di  cassazione   civile   e'
pervenuta, superando il precedente orientamento, per  un  triplice  e
convincente ordine di ragioni. 
    Innanzitutto, in quanto «[n]on si vede [...] perche' nel processo
civile la parte che risulti soccombente nei confronti della parte non
abbiente debba essere  avvantaggiata  (con  evidente  violazione  del
principio di uguaglianza)  rispetto  alle  altre  parti  soccombenti»
(Cass., n. 22017 del 2018; nello stesso senso, Cass.,  n.  29688  del
2019). 
    Inoltre, perche' «il soccombente  è  tenuto  per  definizione  a
corrispondere l'importo liquidato dal giudice  secondo  tariffa,  non
l'importo che  il  vincitore  deve  al  proprio  difensore,  che  non
costituisce,  infatti,  parametro  per  la  liquidazione  giudiziale»
(Corte di cassazione, sezione  sesta  civile,  sottosezione  seconda,
ordinanze 5 marzo 2020, n. 6120, e ancora n. 29688 del 2019). 
    Infine,   perche'    «la    valutazione    d'eventuale    effetto
d'arricchimento dell'Erario non va effettuata in modo atomistico  con
riguardo alla singola lite, bensi' va considerato come la questione -
alla luce del parametro costituzionale portato [dall']art. 81 Cost. -
sia da esaminare avendo [...] riguardo al pubblico servizio -  difesa
assicurata ai non abbienti - reso dallo Stato» (Corte di  cassazione,
sezione seconda civile, ordinanza 19 agosto 2019, n. 21484). 
    5.3.2.- Ricostruite in questi  termini  la  ratio  e  la  portata
dell'art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve escludere
che, a differenza di quanto ritenuto dal  giudice  rimettente,  nella
norma  sia  ravvisabile   una   deviazione   dalla   natura   propria
dell'istituto  del  rimborso  delle  spese  nel  giudizio  civile  e,
soprattutto,  si  deve  parimenti  escludere  che  tale  norma  abbia
carattere  realmente  innovativo   rispetto   al   quadro   normativo
previgente all'esercizio della delega. 
    L'art. 15-sexies, comma 2, lettera  a),  della  legge  30  luglio
1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello  Stato  per  i
non abbienti) - come novellata dalla legge  29  marzo  2001,  n.  134
(Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del
patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che ha esteso  il
patrocinio a spese dello Stato a tutti i giudizi  civili,  nonche'  a
quelli amministrativi e agli affari  di  volontaria  giurisdizione  -
disponeva, infatti, che l'ammissione a  tale  istituto  facesse,  tra
l'altro, sorgere in capo allo Stato il diritto di «ripetizione  degli
onorari dalla parte contraria, condannata nelle spese». 
    Anche se il  termine  «ripetizione»  poteva  far  ipotizzare  che
questa dovesse essere limitata a quanto in  concreto  sborsato  dallo
Stato,  la  disposizione  in  esame,  tuttavia,  non  imponeva   tale
conclusione, poiche' non prevedeva espressamente che il giudice fosse
tenuto a quantificare tali onorari nella misura ridotta  della  meta'
dal successivo art. 15-quaterdecies, comma 1, della medesima legge n.
217 del 1990. Nemmeno l'art. 15-sexiesdecies, comma  1,  obbligava  a
tale coincidenza tra la quantificazione  in  sede  di  condanna  alle
spese e la liquidazione a favore del difensore della parte ammessa al
beneficio. 
    In   assenza    di    una    previsione    letterale    ostativa,
l'interpretazione  oggi  seguita  dal  diritto  vivente,  e   fondata
prevalentemente su argomenti di tipo sistematico, che  il  rimettente
evidentemente non condivide, ben avrebbe potuto svilupparsi anche  in
riferimento al quadro normativo precedente all'esercizio della delega
(sul quale peraltro un diritto vivente non e' maturato, data la breve
vigenza delle suddette disposizioni). 
    Non erra il rimettente nel sostenere che «mai era stato  previsto
dalla legge che lo Stato potesse recuperare dalla  parte  soccombente
importi  maggiori  rispetto  a   quelli   anticipati   per   compensi
all'avvocato  del  non  abbiente»;  l'argomento,  tuttavia,  non   e'
dirimente: da  un  lato,  infatti,  non  era  espressamente  previsto
neppure il  contrario  e,  dall'altro,  nemmeno  era  necessaria  una
previsione espressa per  giungere  all'interpretazione  negletta  dal
giudice a quo,  potendo  questa,  nel  silenzio  delle  disposizioni,
essere ricavata anche allora in  via  sistematica,  per  mezzo  della
normale attivita' ermeneutica. 
    5.3.3.-  In  conclusione,  sebbene   la   possibilita'   per   il
legislatore delegato di introdurre norme innovative della  disciplina
vigente fosse delimitata entro confini rigorosi, una  volta  escluso,
in radice, il carattere effettivamente tale dell'art. 133,  comma  1,
del d.P.R. n. 115 del 2002, la censura del rimettente deve  ritenersi
non fondata. 
    6.- Le  ulteriori  questioni  sollevate  dal  giudice  a  quo  in
riferimento agli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost. sono  basate
sulla comune premessa di un'asserita natura tributaria del  «prelievo
coattivo» che subirebbe il soccombente nel caso in cui la controparte
vittoriosa sia stata ammessa al patrocinio gratuito. 
    Tale assunto non puo' essere condiviso. 
    La regolamentazione delle spese processuali nel  giudizio  civile
attiene alla regola generale victus victori stabilita  dall'art.  91,
primo comma, cod. proc. civ.,  secondo  cui  «[i]l  giudice,  con  la
sentenza che chiude il processo davanti  a  lui,  condanna  la  parte
soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra  parte  e  ne
liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa»  (sentenza  n.
77 del 2018). L'istituto risponde quindi alla logica per  cui  l'alea
del processo «grava sulla parte soccombente perche' e' quella che  ha
dato causa alla lite non riconoscendo,  o  contrastando,  il  diritto
della  parte  vittoriosa  ovvero  azionando  una  pretesa  rivelatasi
insussistente» (ancora sentenza n. 77 del 2018); le  spese  di  lite,
dunque,  devono  essere  sopportate  da  chi   ha   reso   necessaria
l'attivita' del giudice. 
    Nel caso particolare in cui la parte vittoriosa e' stata  ammessa
al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di
lite attiene  quindi  a  un  «rapport[o]  distinto[o]  e  autonom[o]»
(sentenza  n.  109  del  2022)  da  quello  che  sorge  per   effetto
dell'ammissione stessa; quest'ultimo, a cui  le  parti  del  giudizio
rimangono  totalmente  estranee,  si  instaura  direttamente  tra  il
difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo
si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice
che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle  spese,  senza
che il medesimo soccombente subisca, a differenza di quanto  sostiene
il rimettente, alcuna ulteriore effettiva decurtazione. 
    L'istituto   della   rifusione   delle   spese   e',    pertanto,
concettualmente  estraneo  alla  logica   propria   dell'obbligazione
tributaria,  che  implica,  invece,   una   «effettiva   decurtazione
patrimoniale»  attraverso  un  «prelievo  coattivo,  finalizzato   al
concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo
in base ad  uno  specifico  indice  di  capacita'  contributiva»  (ex
plurimus, sentenza n. 128 del 2022). 
    6.1.- La tesi del rimettente si fonda, pertanto, su un errore  di
prospettiva che, peraltro, condurrebbe a garantire un  ingiustificato
vantaggio  patrimoniale  alla  parte  soccombente  solo  perche'   la
controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico,  anche
attraverso la fiscalita' generale, dell'onere  del  loro  patrocinio,
attuando cosi' gli artt. 3, secondo comma, e 24, terzo  comma,  Cost.
(ex plurimis, sentenze n. 10 del 2022 e n. 157 del 2021), secondo  un
criterio di sostenibilita' (sentenza n. 35 del 2019) che prevede,  al
fine di contenere la spesa pubblica, un abbattimento dei compensi per
le relative prestazioni professionali. 
    Infine, va anche considerato che questa Corte  ha  gia'  escluso,
anche  con  riguardo  al  rapporto  che  lo  Stato  instaura  con  il
difensore, che le «manovre legislative» che prevedono  l'abbattimento
del  compenso  professionale  abbiano  attinenza  con  gli   obblighi
tributari,  trattandosi  piu'   semplicemente   di   una   modalita',
parzialmente diversa, di determinazione  dei  compensi  medesimi,  in
funzione di prestazioni di facere (sentenza n. 192 del 2015). 
    Sicche', a seguire  la  indebita  commistione  dei  rapporti  che
vengono in rilievo, insita nella prospettazione  del  rimettente,  si
giungerebbe al paradosso che, mentre l'abbattimento della  meta'  del
compenso prevista dall'art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del  2002
non costituisce un prelievo tributario nei  confronti  del  difensore
della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe invece  tale  per
la controparte soccombente che viene, invece, condannata secondo  gli
ordinari criteri di liquidazione delle spese  e  non  subisce  alcuna
reale decurtazione. 
    6.1.1.- Dalla confutazione del presupposto su cui  si  basano  le
questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 53  e  111,  secondo
comma, Cost. discende la non fondatezza delle stesse. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 133, comma 1,  del  decreto  legislativo  30
maggio  2002,  n.  113,  recante  «Testo  unico  delle   disposizioni
legislative in materia di spese di giustizia.  (Testo  B)»,  trasfuso
nell'art. 133, comma 1, del decreto del Presidente  della  Repubblica
30 maggio 2002, n.  115,  recante  «Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia.  (Testo
A)», sollevata, in riferimento all'art. 23  della  Costituzione,  dal
Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice  del  lavoro,
con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 133, comma 1, del d.lgs. n.  113  del  2002,
trasfuso nell'art.  133,  comma  1,  del  d.P.R.  n.  115  del  2002,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53, 76 e 111, secondo  comma,
Cost., dal Tribunale ordinario di Cagliari, in  funzione  di  giudice
del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2024. 
 
                                F.to: 
                 Augusto Antonio BARBERA, Presidente 
                      Luca ANTONINI, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2024 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA