Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli  artt.  445,  comma
1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura  penale,  promosso
dal  Consiglio  nazionale  forense  nel   procedimento   disciplinare
relativo a G. D. con ordinanza del 4 novembre 2008,  iscritta        
al n. 64 del registro ordinanze  2009  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 10, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visti l'atto di costituzione di G. D., nonche' l'atto  di        
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza  pubblica  del  3  novembre  2009  il  giudice
relatore Paolo Grossi; 
    Uditi  l'avvocato  Giuseppe  Morbidelli  per  G. D.   e          
l'avvocato  dello  Stato  Giuseppe  Fiengo  per  il  Presidente   del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Consiglio nazionale forense, chiamato a pronunciarsi,  in
sede  giurisdizionale,  sul  ricorso  proposto  dall'avvocato  G.  D.
avverso la decisione con la  quale  il  Consiglio  dell'ordine  degli
avvocati di Trieste aveva  irrogato  al  predetto  professionista  la
sanzione  disciplinare   della   sospensione   dall'esercizio   della
professione per mesi dodici, ha sollevato, in riferimento agli  artt.
3, secondo comma, 24, secondo comma,  e  111,  secondo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita'  costituzionale  degli  artt.
445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale,
nella parte in cui, equiparata la sentenza ex art. 444, comma 2,  del
medesimo codice ad una sentenza di condanna, prevede che  essa  abbia
efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita'  disciplinare
davanti  alle  pubbliche  autorita',  quanto  all'accertamento  della
sussistenza del fatto, alla sua illiceita' penale ed all'affermazione
che l'imputato lo ha commesso. 
    Il Consiglio rimettente ha premesso, in fatto, che nei  confronti
dell'avvocato G. D.,  il  Consiglio  dell'ordine  degli  avvocati  di
Trieste, ha ritenuto di applicare la  sanzione  disciplinare  innanzi
indicata ponendo a base della stessa i medesimi fatti  oggetto  della
sentenza di «patteggiamento» divenuta irrevocabile, con la quale  nei
confronti del professionista era stata applicata la pena di anni  due
di reclusione  per  reati  fallimentari.  La  statuizione  era  stata
infatti adottata sul rilievo  che  la  sentenza  di  «patteggiamento»
esplica  efficacia  di  giudicato   in   sede   disciplinare   quanto
all'accertamento del fatto, della sua illiceita' e sulla  commissione
del fatto da parte dell'imputato, con  la  conseguenza,  dunque,  che
all'organo  disciplinare   non   residua   spazio   per   ricostruire
diversamente i  fatti  e  la  responsabilita',  come,  al  contrario,
pretendeva  l'incolpato,  il  quale  «invocava  la  possibilita'   di
dimostrare, con apposita istruttoria, la sua estraneita' ai  fatti  e
la non colpevolezza». A seguito di impugnativa dinanzi al Consiglio -
odierno rimettente - l'incolpato, oltre a  prospettare  una  «lettura
costituzionalmente orientata» degli artt. 445, comma  1-bis,  e  653,
comma 1-bis, cod. proc. pen. (nel senso di ritenere priva di  effetti
preclusivi  la  sentenza  di  «patteggiamento»  che  non  enunci  gli
accertamenti compiuti in ordine alla sussistenza del fatto, della sua
illiceita' e  della  responsabilita'  dell'imputato),  insisteva  per
essere ammesso a provare fatti e circostanze  atte  ad  escludere  la
propria responsabilita' disciplinare, sollevando, «strumentalmente  a
cio'», eccezione di illegittimita' costituzionale dei ricordati artt.
445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen., per  contrasto
con gli artt. 3, secondo comma, 24, secondo  comma,  e  111,  secondo
comma, Cost. 
    In punto di rilevanza, il Consiglio osserva che  -  tenuto  conto
della propria competenza a riesaminare anche nel merito la  decisione
impugnata e  della  possibilita'  di  disporre,  a  tal  fine,  anche
indagini istruttorie - le prove sollecitate  dall'incolpato  appaiono
«in linea astratta, ammissibili e rilevanti in  rapporto  allo  scopo
che si prefigge il ricorrente». Al loro esame e' pero' di ostacolo la
disciplina   censurata,   sicche'    «l'eventuale    rimozione    per
incostituzionalita'  dell'anzidetta  interferenza,   restituendo   al
giudice disciplinare l'autonomia di apprezzamento discrezionale della
fattispecie, permetterebbe di assumere  prove  rivolte  a  dimostrare
l'irrilevanza disciplinare della condotta». Ne' potrebbe farsi leva -
osserva il Consiglio - sulla  interpretazione  adeguatrice  suggerita
dal ricorrente, essendo  essa  contrastata,  sia  dalla  ratio  della
riforma operata con la legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto
tra procedimento penale e procedimento disciplinare  ed  effetti  del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche), introduttiva delle previsioni contestate - che «fu voluta
per esigenze di moralizzazione dei comportamenti dei dipendenti della
pubblica amministrazione» -, sia dalla  giurisprudenza  dello  stesso
Consiglio nazionale forense e della Corte di cassazione. 
    In punto di non manifesta infondatezza,  il  Consiglio  nazionale
forense, dopo aver ripercorso le modifiche normative introdotte -  in
tema di  effetti  della  sentenza  di  «patteggiamento»  sui  giudizi
disciplinari - dalla legge n. 97 del 2001 e  dalla  legge  12  giugno
2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in  materia  di
applicazione della pena su richiesta delle parti) e rilevato  che  le
sentenze di questa Corte n. 394 del  2002  e  n.  186  del  2004  non
rilevano agli effetti della odierna questione, osserva che la  stessa
si  presenterebbe  non   manifestamente   infondata,   anzitutto   in
riferimento  al  principio  di  ragionevolezza.  Infatti  -   osserva
l'ordinanza - il sistema censurato finisce per equiparare, «sotto  il
profilo della efficacia probatoria  nel  giudizio  disciplinare,  due
tipi di pronunce strutturalmente ed ontologicamente difformi e  cioe'
la sentenza di  condanna  a  seguito  di  dibattimento  e  quella  di
applicazione della pena su richiesta delle parti». La prima, infatti,
si fonda su un accertamento positivo di responsabilita' a seguito  di
contraddittorio;  la   seconda,   invece,   si   fonda   solo   sulla
insussistenza di cause di non punibilita' a norma dell'art. 129  cod.
proc. pen., tanto che - puntualizza il provvedimento di rimessione  -
tale sentenza non giustifica la revoca della sospensione condizionale
della pena in precedenza accordata.  Del  resto,  osserva  ancora  il
Collegio  rimettente,  ad  ulteriore  testimonianza  della   profonda
diversita' che  caratterizza  le  due  pronunce  poste  a  raffronto,
starebbe   anche   la   tesi   della   giurisprudenza   che   esclude
l'applicabilita',  alla  sentenza  di  patteggiamento,  dell'istituto
della revisione. 
    Dal combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma
1-bis, cod. proc. pen., emergerebbe, poi,  un  ulteriore  profilo  di
irragionevolezza, giacche', mentre alla  sentenza  di  patteggiamento
viene assegnata efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare,
tale  effetto  viene  invece   escluso   nel   giudizio   civile   ed
amministrativo. Tale differenziazione - osserva l'organo rimettente -
sarebbe priva di base razionale, giacche'  le  sanzioni  disciplinari
sono in grado di incidere (in misura anche piu' ampia di quanto  puo'
derivare  da  un  procedimento  civile  o  amministrativo)  su   beni
costituzionalmente protetti, come il diritto alla  autodeterminazione
in materia di lavoro, con effetti non soltanto di  ordine  economico,
ma «anche di gratificazione personale e professionale». La scelta del
legislatore  di  riconoscere  al  soggetto  «patteggiante»  il  pieno
diritto alla prova in sede di giudizio  civile  ed  amministrativo  e
precluderlo - compromettendo il diritto di difesa - in  un  «contesto
processuale che assume rilevanza anche superiore perche' involge beni
fondamentali della persona», sarebbe, pertanto, in contrasto  con  il
canone della ragionevolezza di cui all'art. 3, secondo  comma,  Cost.
Da qui la violazione, anche, dell'art. 24 Cost. e del  principio  del
giusto processo  «declinabile  in  questo  caso  nella  garanzia  del
contraddittorio (art. 111, comma 2, Cost)». Cio', tenuto conto  della
natura  giurisdizionale  del  procedimento   davanti   al   Consiglio
nazionale  forense  e  delle  attribuzioni  anche  di  merito  che  a
quest'ultimo sono riconosciute e che  gli  consentono  le  iniziative
istruttorie  ritenute  necessarie.   Ne'   varrebbe   osservare,   in
contrario, che il contraddittorio e' rinunciabile e che l'imputato vi
rinuncia implicitamente  quando  sceglie  il  rito  premiale  di  cui
all'art. 444 cod. proc. pen. Infatti - conclude  il  Consiglio  -  la
«rinuncia ex art. 111, comma 5, Cost. non puo' che configurarsi  come
atto espresso e consapevole e riferito al contesto  (processuale)  in
cui detto atto viene compiuto; non vi puo' pertanto essere spazio per
un'abdicazione implicita maturata in un contesto autonomo e  separato
rispetto  al  procedimento  disciplinare   qual   e'   quello   della
giurisdizione penale». 
    2.  -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  si   e'   costituito
l'avvocato G.D.,  depositando  comparsa,  nella  quale  si  e'  nella
sostanza riportato agli  argomenti  svolti  dal  Consiglio  nazionale
forense, chiedendo l'accoglimento della  questione,  con  riserva  di
ulteriori deduzioni. 
    3. - Ha inoltre spiegato atto di  intervento  il  Presidente  del
Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura
generale dello Stato, la quale ha chiesto dichiararsi  infondate  «le
questioni» sollevate dal Consiglio nazionale forense. Ad avviso della
difesa  erariale,  nel  «patteggiamento»  l'imputato  accetta,   come
elementi   probatori,   quelli   acquisiti   durante   le   indagini,
«rinunciando al suo diritto di ''difendersi provando'' ed allo stesso
principio di non colpevolezza; in tal modo -  deduce  l'Avvocatura  -
ammettendo  sostanzialmente  la  sua  responsabilita'».   L'imputato,
quindi, conosce le conseguenze delle sue scelte, tra le quali  vi  e'
anche «la impossibilita' di contestare l'accusa disciplinare  fondata
sui medesimi fatti oggetto dell'imputazione  penale  ''patteggiata''.
E' ben vero, poi, che  dibattimento  e  «patteggiamento»  sono  assai
diversi fra loro; ma per il giudice resta sempre la  possibilita'  di
pronunciare il proscioglimento ex art. 129  cod.  proc.  pen.,  cosi'
come uguale e' la conoscenza dell'imputato circa le  conseguenze  che
scaturiscono dai due diversi riti. Non sarebbe infine  conferente  il
paragone con i giudizi civili e amministrativi, «poiche' in essi  non
riverberano  profili  di  colpevolezza  e  poiche'  in  essi   rileva
l'accertamento dei fatti commessi che ovviamente manca nelle sentenze
c.d. di patteggiamento». 
    4. - In prossimita' della udienza, ha depositato memoria la parte
privata G.D., nella quale ha diffusamente articolato le  ragioni  che
militerebbero a sostegno della  illegittimita'  costituzionale  della
disposizione censurata, ripercorrendo  i  temi  gia'  sviluppati  nel
provvedimento di rimessione. Si rileva, anzitutto,  che  risulterebbe
del  tutto  irragionevole  la  differenziazione  di  trattamento  che
scaturisce dalla sentenza di  applicazione  della  pena  tra  giudizi
civili e amministrativi, rispetto ai quali  la  sentenza  stessa  non
dispiega efficacia vincolante, e il  giudizio  disciplinare,  per  il
quale, invece, la sentenza  spiega  piena  efficacia,  posto  che  in
quest'ultimo giudizio vengono in considerazione pregiudizi  economici
e morali che coinvolgono direttamente il valore della dignita' umana.
Sarebbe, poi, vulnerato il pieno diritto alla prova nel  procedimento
disciplinare, a differenza di cio' che accade per il giudizio  civile
o amministrativo, e conseguentemente compromesso anche il diritto  al
contraddittorio,   di   cui   all'art.    111    Cost.    Dubbi    di
costituzionalita', quelli prospettati, che sarebbero emersi anche nel
corso dei lavori preparatori della legge n. 97 del 2001. Si  lamenta,
poi, - evocandosi la violazione dell'art. 97 Cost. - che la normativa
censurata comporterebbe una sostanziale restaurazione dei  meccanismi
di  automatismo  sanzionatorio,  che,   invece,   la   giurisprudenza
costituzionale ha da tempo  censurato,  compromettendo  i  canoni  di
adeguatezza   e   proporzionalita'   che   devono   presiedere   alla
applicazione della sanzione. «Adeguatezza - si puntualizza - che  non
puo' raggiungersi senza la valutazione degli specifici  comportamenti
messi in atto commettendo l'illecito che solo un procedimento ad  hoc
di  delibazione   disciplinare   puo'   assicurare».   Viene   infine
prospettata  la  illegittimita'  costituzionale  della   disposizione
oggetto di impugnativa, anche in riferimento agli artt.  2,  4  e  33
Cost., in quanto il prospettato automatismo «impinge  su  ordinamenti
professionali autonomi, che costituiscono formazioni sociali, cui  si
accede tramite esami di Stato (ex art. 33, quinto comma,  Cost.)»,  e
non su appartenenti alla pubblica amministrazione, «per  i  quali  il
potere conformativo della legge e' senz'altro  piu'  intenso»;  senza
tener conto del coinvolgimento del diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e
del  diritto  allo  svolgimento  della  propria  personalita'   nelle
formazioni sociali (art. 2 Cost). «Diritti - conclude  la  memoria  -
che non sono certo cedevoli, tanto piu' in assenza di una sentenza di
condanna, cosi' come presupposta dall'art. 27, secondo comma, Cost.». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Consiglio nazionale  forense,  in  sede  giurisdizionale,
solleva  questione  di  legittimita'  costituzionale  del   combinato
disposto degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice
di procedura penale, nella parte in cui, equiparata  la  sentenza  di
cui all'art. 444 dello stesso codice ad  una  sentenza  di  condanna,
prevede che essa  abbia  efficacia  di  giudicato  nel  giudizio  per
responsabilita' disciplinare davanti alle pubbliche autorita'  quanto
all'accertamento della sussistenza del  fatto,  alla  sua  illiceita'
penale ed alla affermazione che l'imputato lo ha commesso.  A  parere
del Consiglio rimettente,  la  disciplina  censurata  contrasterebbe,
anzitutto, con l'art. 3 della Costituzione, sotto un duplice profilo.
Si ritiene, infatti, irrazionale, la scelta operata con la  legge  27
marzo 2001, n. 97 (Norme  sul  rapporto  tra  procedimento  penale  e
procedimento  disciplinare  ed  effetti  del  giudicato  penale   nei
confronti  dei  dipendenti  delle   amministrazioni   pubbliche)   di
attribuire alla sentenza di «patteggiamento» «la stessa efficacia del
giudicato in senso stretto (scaturente, cioe', dalla celebrazione del
dibattimento)  con  riguardo  al  (solo)  procedimento  disciplinare,
finendo,  in  pratica,  per  assegnare  il  medesimo  valore  ad  una
pronuncia che contiene un pieno accertamento positivo e ad una che si
alimenta di una  mera  verifica  negativa;  in  tal  modo  operandosi
un'ingiustificata  ed   irrazionale   parificazione   effettuale   di
situazioni ontologicamente diverse». Sotto altro profilo,  si  reputa
parimenti irrazionale la scelta del  legislatore  di  assegnare  alla
sentenza  di  patteggiamento  efficacia  nel  giudizio  disciplinare,
escludendola,  invece,  per  i  giudici  civili  ed   amministrativi.
Considerato,  infatti,  che  il  procedimento  disciplinare  «produce
conseguenze economiche e mortificazioni esistenziali, questi  effetti
possono senz'altro essere posti sullo stesso piano (se non superiore)
di quello su cui si apprezzano gli effetti di un procedimento  civile
o amministrativo», coinvolgendo,  comunque  beni  fondamentali  della
persona. 
    Risulterebbe inoltre  violato  l'art.  24  Cost.,  in  quanto  il
combinato disposto delle disposizioni censurate determinerebbe, nella
specie, una violazione del diritto costituzionale di difesa,  essendo
precluso «al giudice  disciplinare  di  neutralizzare  l'interferenza
prodotta dalla sentenza irrevocabile di  cd.  patteggiamento  che  lo
obbliga a conferire a quel fatto ed alla responsabilita'  dell'agente
i tratti morfologici che ne risultano disegnati in sede penale, senza
possibilita' di scostamento». 
    Si configurerebbe, infine, un contrasto  anche  con  l'art.  111,
secondo  comma,  Cost.  sotto  il  profilo   del   giusto   processo,
«declinabile come garanzia del contradditorio», rispetto al quale non
puo' venire in discorso una  rinuncia,  ai  sensi  del  quinto  comma
dell'art.  111  Cost.,  in  quanto  tale  rinuncia  «non   puo'   che
configurarsi come atto espresso e consapevole e riferito al  contesto
(processuale) in cui detto atto viene compiuto», mentre non  potrebbe
esservi «spazio per un'abdicazione implicita maturata in un  contesto
autonomo e separato rispetto al procedimento disciplinare,  quale  e'
quello della giurisdizione penale». 
    2. - La questione non e' fondata. 
    Il nucleo delle  censure  che  il  Collegio  rimettente  propone,
ruota, infatti, attorno a due premesse argomentative  e  sistematiche
che non  possono  essere  condivise.  Da  un  lato,  si  denuncia  la
irragionevolezza intrinseca che caratterizzerebbe la scelta normativa
di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare,  la  «efficacia
probatoria»  che  scaturisce  da  due  tipi  di  pronunce  fra   loro
divergenti quanto a natura ed a  caratteristiche  strutturali,  quali
sono, appunto, la pronuncia di «condanna a seguito di dibattimento  e
quella  di  applicazione  della  pena  su  richiesta  delle   parti».
Dall'altro lato, si lamenta l'ulteriore incoerenza rappresentata  dal
fatto che, a fronte della medesima  sentenza  di  patteggiamento,  si
assegni  alla  stessa  una  efficacia  di  giudicato   nel   giudizio
disciplinare, mentre  identici  effetti  sono  esclusi  nel  giudizio
civile ed in quello amministrativo. 
    Quanto  al  primo  profilo,  la  riscontrata  aporia  di  sistema
risiederebbe,  in  particolare,  nella  circostanza  che,  mentre  la
sentenza di condanna pronunciata all'esito del dibattimento si  fonda
su un accertamento  positivo  di  responsabilita',  alimentato  dalla
esaustiva  delibazione  del   materiale   di   prova   raccolto   nel
contraddittorio fra le parti, la sentenza  che  applica  la  pena  su
richiesta si radica, invece, soltanto sulla  riscontrata  assenza  di
cause di non punibilita', a norma dell'art. 129 del codice di rito. A
conferma di tale assunto, il Consiglio rimettente evoca due  elementi
che univocamente contrassegnerebbero la richiamata  differenziazione,
qualificata come «ontologica», tra i due «tipi» di sentenze  poste  a
raffronto.  Proprio  a  dimostrare,  infatti,  la  minor  «pregnanza»
probatoria  che  caratterizzerebbe  l'in   se   della   sentenza   di
patteggiamento - osserva l'ordinanza di rimessione - viene richiamata
la tesi, affermata dalla giurisprudenza di legittimita' (si cita,  al
riguardo, la sentenza «Cass. pen. Sez. unite 26 febbraio 2007 [recte:
1997], n. 3600»), secondo la quale la sentenza di patteggiamento  non
giustificherebbe la revoca della sospensione condizionale della  pena
in precedenza accordata. Cosi' come - rileva ancora l'ordinanza -,  e
ancora  una  volta  proprio  in   considerazione   della   diversita'
«ontologica» che presenta la sentenza di patteggiamento rispetto alla
sentenza di  condanna  pronunciata  all'esito  del  dibattimento,  si
giustifica l'opinione giurisprudenziale che esclude,  per  la  prima,
l'istituto della revisione. 
    Ne' l'uno ne' l'altro degli  accennati  rilievi  puo'  ritenersi,
pero',  condivisibile.  A  proposito  del  problema   relativo   alla
revocabilita' della sospensione  condizionale  della  pena  ad  opera
della sentenza di  patteggiamento,  la  piu'  recente  giurisprudenza
delle  Sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione,  ribaltando   il
precedente orientamento, citato dal Consiglio rimettente,  alla  luce
delle profonde modifiche subite nel corso del tempo dall'istituto del
patteggiamento, e' infatti pervenuta alla affermazione del  principio
di diritto secondo il  quale  «la  sentenza  emessa  all'esito  della
procedura di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. poiche' e',  ai  sensi
dell'art. 445, comma 1-bis, equiparata ''salvo  diverse  disposizioni
di legge a una pronuncia di condanna'' costituisce titolo idoneo  per
la revoca, a norma dell'art. 168, primo  comma,  n.  1,  c.p.,  della
sospensione condizionale della pena precedentemente concessa» (Cass.,
Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781/06). 
    Quanto, invece, alla revisione, e'  direttamente  intervenuto  il
legislatore, il quale, modificando l'art. 629 del codice di procedura
penale, attraverso l'art. 3  della  legge  12  giugno  2003,  n.  134
(Modifiche al codice di procedura penale in materia  di  applicazione
della pena  su  richiesta  delle  parti),  ha  appunto  stabilito  la
possibilita' di proporre richiesta di revisione, consentita «in  ogni
tempo a favore dei condannati», anche  per  le  sentenze  «emesse  ai
sensi dell'art. 444, comma 2»; cosi' ponendo i «condannati» a seguito
di patteggiamento sullo stesso piano dei «condannati»  a  seguito  di
procedimento  ordinario,  in  riferimento  a  tutte  le  ipotesi   di
revisione,  ivi  compresa,  evidentemente,  anche   quella   prevista
dall'art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che si  realizza
nei casi in cui «dopo la condanna sono  sopravvenute  o  si  scoprono
nuove prove che sole o unite a quelle gia' valutate,  dimostrano  che
il condannato deve essere prosciolto a norma dell'articolo 631». 
    Cio', dunque, spiega la ragione per la  quale  le  Sezioni  unite
della  Corte  di  cassazione,  nella  pronuncia  che  si  e'   dianzi
richiamata, all'esito di una diffusa analisi delle  mutazioni  subite
dall'istituto del patteggiamento, siano pervenute alla conclusione di
ritenere che, pur non potendosi affermare che quei mutamenti  abbiano
condotto ad un «processo di vera e propria identificazione tra i  due
tipi di  pronuncia»,  gli  stessi  stanno  comunque  «univocamente  a
significare che il regime della equiparazione,  ora  codificato  alla
stregua della normativa  complementare  piu'  volte  menzionata,  non
consente di  rifuggire  dall'applicazione  di  tutte  le  conseguenze
penali della sentenza  di  condanna  che  non  siano  categoricamente
escluse».  Spetta  dunque  al  legislatore,  in  questa  prospettiva,
prescegliere, nei confini che contraddistinguono il normale esercizio
della discrezionalita' legislativa, quali siano gli effetti che -  in
deroga al principio «di sistema»  che  parifica  le  due  sentenze  -
diversificano,  fra  loro,  la  sentenza  di   condanna   pronunciata
all'esito  del  patteggiamento  rispetto  alla  condanna  pronunciata
all'esito del giudizio  ordinario.  Una  logica,  dunque,  del  tutto
antitetica rispetto a quella presupposta dal Collegio rimettente,  il
quale, invece, muove dalla erronea tesi di ritenere che  gli  effetti
del patteggiamento debbano «ontologicamente» differenziarsi da quelli
della sentenza ordinaria, salvo le deroghe - espressamente previste -
che «assimilino» le conseguenze derivanti dai due tipi di pronunce. 
    3. - In tale quadro di riferimento, pertanto, le scelte  adottate
dal legislatore sul versante  dei  rapporti  fra  giurisdizioni,  non
possono affatto reputarsi, per cio' che  qui  rileva,  manifestamente
irragionevoli o prive di una qualsiasi causa giustificatrice.  Se  da
un  lato,  infatti,  con  l'avvento  del  nuovo  codice  di  rito  e'
tramontato il principio della prevalenza della giurisdizione  penale,
a  tutto  vantaggio  della  autonomia  dei   procedimenti   e   delle
giurisdizioni  e   della   rigorosa   limitazione   delle   questioni
pregiudiziali,  e'  altrettanto  vero  che  una  «ricomposizione»  di
sistema doveva essere prefigurata proprio sul versante  dei  rapporti
tra il giudicato penale e  le  diverse  (ma  interferenti)  sfere  di
giurisdizione civile,  amministrativa  o  disciplinare  davanti  alle
pubbliche autorita'. Cio' ad  evitare,  evidentemente,  da  un  lato,
conflitti e contrasti tra giudicati; e,  dall'altro,  la  perdita  di
acquisizioni processuali,  che  avrebbe  negativamente  inciso  sulla
economia dei giudizi. 
    In questa prospettiva, vanno dunque colte le ragioni per le quali
le modifiche apportate, in parte qua, all'art. 653 cod.  proc.  pen.,
lungi dal discostarsi da quel quadro d'assieme, ne  rappresentano,  a
ben   guardare,   il   naturale   sviluppo.   Mutata,   infatti,   la
configurazione originaria del patteggiamento come  rito  circoscritto
alle vicende di criminalita' «minore», ed assunta una dimensione piu'
«matura», anche per cio' che attiene allo spazio delibativo riservato
al giudice e, conseguentemente, alla relativa «base fattuale» - basti
pensare ai nuovi e piu' ampi poteri in tema di confisca ed  a  quelli
previsti in tema di cosiddetto «patteggiamento allargato» -,  ben  si
potevano prefigurare corrispondenti ampliamenti  anche  sul  versante
degli effetti «esterni» del giudicato scaturente dal  rito  speciale,
se  riferiti  al  giudizio  disciplinare   davanti   alle   pubbliche
autorita', per lo specifico risalto degli interessi coinvolti. 
    D'altra parte, la ratio posta a fondamento della legge n. 97  del
2001,  e'  nota  ed  e'  stata  rimarcata  anche  da  questa   Corte.
Nell'osservare, infatti, che «con le novita' introdotte  dalla  legge
n. 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna,  sia
la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad
esplicare effetti nel giudizio disciplinare», si e' rilevato che,  in
tal  modo,  il  legislatore  ha  inteso  assicurare  «non  solo   una
sostanziale coerenza tra sentenza penale ed  esito  del  procedimento
amministrativo, ma, soprattutto, una linea  di  maggiore  rigore  per
garantire il corretto  svolgimento  dell'azione  amministrativa»  (v.
sentenza n. 186  del  2004).  Un  rigore,  d'altronde,  espressamente
evocato nei lavori preparatori della citata legge n. 97 del 2001,  al
punto che lo stesso relatore della iniziativa legislativa non  manco'
di  sottolineare  come   la   opzione   prescelta,   «pur   incidendo
negativamente  sulla  portata  deflattiva  del   contenzioso   penale
dell'istituto  del  patteggiamento,  (aveva)  il  sicuro  e  positivo
effetto di impedire  che  soggetti  la  cui  credibilita'  e'  minata
dall'applicazione della pena patteggiata,  (potessero)  continuare  a
rivestire responsabilita' nelle amministrazioni pubbliche». 
    A fronte di tali obiettivi,  destinati  a  preservare  valori  di
indiscutibile risalto, la disciplina impugnata si presenta del  tutto
coerente, giacche', da un lato, eliminando qualsiasi riferimento alla
sentenza «pronunciata in seguito a dibattimento» - che compariva  nel
testo originario dell'art. 653 cod. proc. pen. -, ha  parificato  fra
loro  tutti  i  giudicati  penali  derivanti  da  qualsiasi  tipo  di
sentenza: sia essa pronunciata  a  seguito  di  patteggiamento,  o  a
seguito di giudizio abbreviato, sia essa  pronunciata  all'esito  del
dibattimento; dall'altro, ha accomunato, agli  stessi  fini,  i  vari
giudicati, vuoi di condanna, vuoi di assoluzione. In sostanza,  tanto
nella  ipotesi  in  cui  il  diritto  al  contraddittorio  sia  stato
integralmente  esercitato  -  attraverso  la  scelta   del   giudizio
ordinario -, quanto nella eventualita' in cui l'imputato abbia invece
liberamente  scelto  di  rinunciarvi  (secondo  quanto  espressamente
prevede l'art. 111, quinto comma, Cost.), attraverso la  opzione  per
il giudizio abbreviato o il patteggiamento,  le  conseguenze  che  si
producono, rispetto al  giudizio  disciplinare,  saranno  le  stesse,
proprio  perche'  la  «fonte  pregiudicante»  e'  stata   del   tutto
ragionevolmente configurata in termini simmetrici, sia per  cio'  che
attiene  al  «tipo»  (sentenza  pronunciata  in  sede   di   giudizio
dibattimentale   ovvero   all'esito   dei   ricordati    procedimenti
alternativi),  sia  per  quanto  concerne  il  relativo  epilogo  (di
assoluzione o di condanna). 
    Va infatti sottolineato, a quest'ultimo  riguardo,  che,  ove  il
giudice, chiamato a delibare la richiesta di patteggiamento, pronunci
sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 cod. proc.  pen.,  tale
statuizione - a differenza di quanto scaturiva  dal  «vecchio»  testo
dell'art. 653 cod. proc. pen. -  ha  effetto  di  giudicato  in  sede
disciplinare, «quanto all'accertamento che il fatto  non  sussiste  o
non costituisce illecito penale o che l'imputato non lo ha commesso».
Il  che,  evidentemente,  vale  comunque  a  «controbilanciare»,  sul
versante degli «interessi» del patteggiante,  la  tesi  della  palese
irragionevolezza denunciata nella ordinanza di rimessione. 
    4. - Non puo' ritenersi fondato neppure  il  secondo  profilo  di
irragionevolezza denunciato nella ordinanza di rimessione. 
    E' ben vero, infatti,  che  il  legislatore,  nell'introdurre  la
previsione  attraverso  la   quale   e'   stato   sancito   l'effetto
«pregiudicante»  che  la  sentenza  di  patteggiamento  dispiega   in
riferimento  al  giudizio   disciplinare   davanti   alle   pubbliche
autorita', ha mantenuto invece ferma  la  previgente  disciplina  con
riferimento al giudizio civile o  amministrativo  di  danno,  essendo
rimasto a tal proposito inalterato l'art. 651 cod. proc.  pen.,  che,
appunto, riserva quell'effetto alle sentenze irrevocabili di condanna
pronunciate in seguito  a  dibattimento.  Ma  tale  scelta  non  puo'
affatto ritenersi indice di una incoerenza  normativa,  giacche'  nel
giudizio civile o  amministrativo  di  danno  si  versa  in  tema  di
giudizio contenzioso tra parti pariteticamente contrapposte,  per  le
quali gli  effetti  extrapenali  del  giudicato  di  condanna  devono
ovviamente tenere conto della  possibilita'  che  entrambe  le  parti
abbiano avuto di «misurarsi» in contraddittorio in sede penale. 
    Se cosi' non fosse, infatti, la sentenza di condanna che  avesse,
ad esempio, accertato  un  concorso  di  colpa  e  quindi  condannato
l'imputato ad una pena diminuita e ad un corrispondente  minor  danno
da risarcire, produrrebbe effetti pregiudicanti in sede civile  senza
alcuna garanzia di contraddittorio per il danneggiato, ove questi non
fosse stato posto in condizione di esercitare  le  proprie  facolta',
costituendosi  parte  civile,  come  appunto  avviene  nel  caso  del
patteggiamento. Prova ne sia, d'altra parte, che  il  comma  2  dello
stesso art. 651, espressamente subordina l'efficacia di giudicato, in
sede di giudizio di danno, della sentenza pronunciata  all'esito  del
giudizio abbreviato, alla non opposizione  della  parte  civile,  ove
questa non abbia accettato il rito prescelto. 
    Tutto  cio',  ovviamente,   non   vale   per   i   rapporti   tra
patteggiamento e giudizio disciplinare, avuto riguardo alla natura di
tale giudizio ed alla identita' soggettiva della «parte»  chiamata  a
partecipare ai rispettivi procedimenti: nell'uno  quale  imputato  e,
nell'altro, quale incolpato in sede disciplinare. 
    5. - La questione deve ritenersi non fondata anche in riferimento
agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.  La  scelta
del patteggiamento, infatti, rappresenta un diritto per l'imputato  -
espressivo, esso stesso del piu' generale diritto di difesa  (v.,  al
riguardo, l'excursus contenuto nella ordinanza n. 309 del 2005) -, al
quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli  effetti  -
evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli - che il legislatore ha
tassativamente  tracciato  come  elementi  coessenziali   all'accordo
intervenuto tra l'imputato ed  il  pubblico  ministero  ed  assentito
dalla positiva valutazione del giudice. Effetti tra  i  quali  -  per
quel che si e' detto,  non  irragionevolmente  -  il  legislatore  ha
ritenuto di annoverare anche il valore di giudicato sul fatto,  sulla
relativa illiceita' e sulla responsabilita',  ai  fini  del  giudizio
disciplinare  davanti  alle  pubbliche  autorita'.  La   circostanza,
invero, che l'imputato, nello stipulare  l'accordo  sul  rito  e  sul
merito della regiudicanda, «accetti» una determinata condanna penale,
chiedendone o consentendone l'applicazione, sta infatti  univocamente
a significare che l'imputato medesimo ha ritenuto, a  quei  fini,  di
non contestare «il fatto» e la propria «responsabilita'»: con l'ovvia
conseguenza  di  rendere  per  cio'  stesso  coerente,  rispetto   ai
parametri di cui  si  assume  la  violazione,  la  possibilita'  che,
intervenuto  il  giudicato  su  quel   «fatto»   e   sulla   relativa
attribuibilita' allo stesso imputato, simili componenti del  giudizio
si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare. 
    Non sembrano neppure conducenti, infine, i rilievi  svolti  dalla
parte privata, laddove ha teso a rimarcare la circostanza che,  nella
specie, mancando un rapporto di  pubblico  impiego,  la  ratio  della
norma, di cui  qui  si  discute,  verrebbe  meno.  Cio'  che  rileva,
infatti, e' la  qualita'  pubblica  dell'organo  e  del  procedimento
disciplinare e non lo specifico status di chi e' assoggettato a  quel
procedimento, giacche' e' solo in ragione del primo  aspetto  che  si
giustifica il  rapporto  tra  i  «giudicati»  e  le  «giurisdizioni».
D'altra parte, se ha natura pubblica l'organo  chiamato  a  procedere
disciplinarmente, e  se  -  nel  caso  in  questione  -  il  relativo
procedimento ha i connotati della «giurisdizionalita'», al punto  che
il collegio disciplinare e'  legittimato  a  sollevare  questione  di
costituzionalita', cio' e' segno evidente della rilevanza pubblica di
quel procedimento e delle sanzioni  che  da  esso  vengono  irrogate,
rendendo, quindi, del tutto inconferente l'esistenza, a monte, di  un
rapporto di pubblico impiego. Ne' cio', per  altro  verso,  fa  venir
meno  la  ratio  della  norma  censurata,  giacche',  se  l'obiettivo
perseguito  e'  stato  quello  di  impedire  il  «disdoro»  che   per
l'immagine pubblica deriverebbe dalla presenza di funzionari infedeli
che, malgrado  il  patteggiamento,  continuassero  «indisturbati»  ad
esercitare le stesse attribuzioni, il  medesimo  «disdoro»  ben  puo'
riguardare  anche  ordini  e  collegi  professionali,  a  fronte   di
patteggiamenti  per  fatti  che  si  riflettano  -   quali   illeciti
disciplinari - sulle stesse categorie professionali.