IL TRIBUNALE
   Visti gli atti relativi al minore: S. G. nato a Ceva 6 marzo 1994.
                             O s s e r v a
   1. - Con ricorso depositato il 27 febbraio 1996 la signora Sciandra
 Cinzia, madre di un bambino di circa due anni, chiedeva al  tribunale
 per  i  minorenni  di Torino di essere ammessa, a norma dell'art. 274
 cod. civ.,  ad  esperire  l'azione  di  dichiarazione  giudiziale  di
 paternita'  sul  figlio  minore  nei  confronti  del  signor  Mafrici
 Francesco.
   La ricorrente sosteneva di essere rimasta incinta nel  corso  della
 relazione  sentimentale  con  il convenuto il quale, all'epoca, stava
 svolgendo  il  servizio  di  leva  a  Mondovi',  cittadina  ove  ella
 risiedeva,  e  di non aver avuto, in quel periodo, rapporti con altri
 uomini.  Dopo la nascita il Mafrici non aveva ritenuto di riconoscere
 il minore e, in seguito, si era trasferito a vivere  nella  localita'
 ove  prestava  servizio presso la Guardia di finanza, a Collesavetti,
 in  provincia  di  Livorno.    Alla  prima  udienza   si   costituiva
 ritualinente il Mafrici che, contestando la fondatezza della domanda,
 eccepiva   in   via   preliminare,   sulla  base  di  un  consolidato
 orientamento giurisprudenziale,  l'incompetenza  per  territorio  per
 essere  competente il tribunale del luogo di residenza del convenuto.
 La difesa della ricorrente replicava insistendo sulla  competenza  di
 questo  giudice e, in via di subordine, eccepiva il contrasto con gli
 artt. 3, 24, 25, 30 e 31 della Costituzione delle norme - artt.   274
 cod.  civ.,  38 disp. att. cod. civ. e 18 cod. cod. proc. civ.  - che
 portavano  alla  determinazione,  secondo   tali   modalita',   della
 competenza  per  territorio.  Il  curatore  speciale  si associava in
 merito alla questione di legittnita' costituzionale.
   2. - L'eccezione di incompetenza per  territorio  si  presenta,  in
 effetti, fondata.
   E'  noto  che  l'attribuzione  al  tribunale  per i minorenni della
 competenza a conoscere dell'azione per la dichiarazione giudiziale di
 paternita' (art. 269  cod.  civ.)  e,  conseguentemente,  della  c.d.
 "prima fase" di ammissibilita' dell'azione, e' avvenuta attraverso la
 modifica  all'art.  38  disp.  att.  cod.  civ.  ad opera della legge
 sull'adozione e l'affidamento dei minori 4 maggio 1983, n. 184  (art.
 68).  A seguito di tale mutamento normativo si e' aperto un dibattito
 in  sede  dottrinale  e giurisprudenziale, caratterizzato da pronunce
 contrastanti, per l'individuazione  del  tribunale  per  i  minorenni
 competente  territorialmente.  Infatti  appariva possibile giungere a
 conclusioni  differenti  a  seconda   del   criterio   interpretativo
 privilegiato.    Secondo  una  tesi,  seguita  in  via maggioritaria,
 l'entrata in campo del tribunale per i minorenni non esplicava  alcun
 effetto  sui  criteri di individuazione della competenza territoriale
 ed,  in particolare, sulla regola generale del luogo di residenza del
 convenuto (art.  18 cod. proc. civ.), tantopiu' in un giudizio avente
 chiara natura contenziosa (tale, quindi, da  escludere  un  possibile
 richiamo  alle  disposizioni  previste per la procedura di volontaria
 giurisdizione dagli artt. 737 seg. cod. proc. civ.).   Secondo  altre
 decisioni  (v.  Cass.  6  ottobre  1989,  n.  3999)  il richiamo alla
 competenza del tribunale per i minorenni non poteva non comportare la
 "parallela" individuazione del giudice nel cui territorio  il  minore
 aveva  la  propria  residenza:  solo  questo criterio, assicurando la
 "vicinanza" tra giudice e minore, si presentava come piu' rispondente
 alla realizzazione degli interessi di quest'ultimo  e  si  poneva  in
 armonia  con  i  principi  generali  in  materia  di  competenza  per
 territorio del giudice specializzato.  Il contrasto e' stato  risolto
 con la sentenza 7 febbraio 1992 n.  1373 (Foro It., 1992, I, 686) con
 la  quale  la  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite, ha convalidato
 l'interpretazione prevalente. Si e' affermato che non essendovi alcun
 dubbio che, prima della legge di modifica n. 184/1983, la  competenza
 andasse  determinata  sulla  base del foro generale dell'art. 18 cod.
 proc.  civ.  (residenza  del  convenuto),  non  vi  era   motivo   di
 discostarsi  da  tale criterio in assenza di un'espressa disposizione
 di legge in senso contrario (vedi la riserva del  1  comma  dell'art.
 18).   Del   tutto   assiomatico  sarebbe  ritenere  che  il  giudice
 specializzato non  possa  assolvere  appieno  ai  propri  compiti  di
 salvaguardia  dell'interesse  del  minore  "se  non  nell'ipotesi  di
 coincidenza con il  giudice  di  residenza  del  minore  stesso".  La
 conclusione  secondo la motivazione appariva valida anche dopo che la
 Corte  costituzionale,  con  la  sentenza  n.  341  del  1990,  aveva
 dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 274 cod. civ.
 nella parte in cui non prevedeva che, nel giudizio di  ammissibilita'
 dell'azione,  venisse  posta  particolare attenzione alla rispondenza
 della pronuncia all'interesse del minore.
   3. - La disciplina risultante dall'interpretazione delle norme  che
 sono state richiamate si presta - ad avviso del collegio - a dubbi di
 illegittimita' costituzionale, sotto diversi profili.
   Premesso che la dedotta questione appare certamente rilevante nella
 causa  in  esame,  dovendosi, per l'appunto, individuare quale sia il
 giudice competente per territorio,  con  la  prospettiva  di  diverse
 conclusioni   a  seconda  della  ritenuta  conformita'  o  meno  alla
 Costituzione dell'insieme normativo sopra delineato, la non manifesta
 infondatezza si desume  da  una  riconsiderazione  di  tale  sistema,
 nell'interpretazione  che  ne e' data dalla giurisprudenza, alla luce
 dei principi sanciti dagli articoli 3 comma primo, 31 commi  primo  e
 secondo e 24 della Costituzione.
   4.  -  La  prima riflessione che si impone in tutta evidenza e' che
 l'applicazione della regola del foro del convenuto, per le  cause  di
 dichiarazione giudiziale di paternita' o maternita' naturale, viene a
 determinare  una  situazione  che  appare  in  contrasto,  nella  sua
 unicita', con i principi che regolano la generalita' delle  procedure
 devolute  al  tribunale  per  i  minorenni (ovviamente nei casi, come
 quello in esame, in cui non vi sia corrispondenza  tra  la  residenza
 del  convenuto  e  quella  del  minore).   Si tratta di organo che ha
 giurisdizione "su tutto il territorio della Corte d'appello  o  della
 sezione  di  Corte  d'appello  in  cui e' istituito" (art. 3 legge 20
 luglio  1934,  n.  1404),  nel  senso  che,  in  materia  civile,  e'
 competente   ad  emettere  provvedimenti  limitativi  della  potesta'
 relativi ai minori che risiedono nell'ambito della sua  giurisdizione
 (infatti  l'articolo  citato tratta della "Competenza territoriale").
 Significativa  conferma  viene  dall'importante  legge  n.   184/1983
 sull'adozione  e  affidamento  dei  minori che, in tutta una serie di
 disposizioni riguardanti tali istituti, ribadisce il  criterio  della
 competenza  del tribunale per i minorenni del luogo ove il minore "si
 trova" (cfr. artt. 3, 8, 29 e 56).
   Non solo. Chiamata a pronunciarsi sulla questione della  competenza
 territoriale  per  l'emissione  dei  provvedimenti  limitativi  della
 potesta' genitoriale ai sensi  degli  artt.  330  e  seguenti  codice
 civile,   che   costituiscono   la  parte  preminente  dell'attivita'
 giudiziaria, civile, dell'organo specializzato, piu' volte la Suprema
 Corte ha affermato che deve aversi riguardo al luogo di residenza del
 minore e non a quello del genitore contro  il  quale  la  domanda  e'
 proposta,   dovendosi   privilegiare  le  esigenze  di  realizzazione
 dell'interesse  del  minore,  rispetto  alle  quali   l'organo   piu'
 funzionale,    in   termini   di   efficacia   e   di   tempestivita'
 dell'intervento (aspetti fondamentali in relazione  alla  delicatezza
 della  fase  evolutiva  della persona su cui "cade" l'esercizio della
 giurisdizione), e' quello del distretto  di  appartenenza  (Cass.  28
 settembre 1977 n. 4126, dir. fam., 1978, 158; Cass. 13 luglio 1979 n.
 4083,  mass.  foro It., 1979).   Per analogia, quanto a finalita', si
 possono richiamare  altresi'  le  regole  processuali  relative  alla
 competenza  del  giudice  tutelare  (art. 343 cod. civ.).  E' inoltre
 altamente significativo ricordare che la competenza territoriale  del
 tribunale  per i minorenni e' individuata con i criteri cui sopra (v.
 anche art. 38 disp. att. cod. civ.), che  definiscono  la  competenza
 "fisiologica"  del  tribunale,  anche in relazione a controversie che
 presentano molti punti di contatto con  quella  di  cui  si  discute,
 quali l'opposizione al riconoscimento da parte del (secondo) genitore
 di  un  figlio  naturale  ai sensi dell'art. 250 cod. civ., parimenti
 incentrata sulla problematica dell'interesse del minore.
   A questo punto sorge spontaneo il quesito su quali siano le ragioni
 tali da giustificare la singolarita' e diversita' di  disciplina  che
 si  riscontra  nell'individuazione  del  tribunale  per  i  minorenni
 territorialmente competente nelle cause ex  art.  274  cod.  civ.  e,
 francamente,  appare  difficile  scorgerle,  in presenza di stuazioni
 che, al pari di  tutte  quelle  che  occupano  il  giudice  minorile,
 presentano  gli  aspetti  di  delicatezza dell'intervento giudiziario
 rispetto alla personalita' in via di formazione, da cui  la  sospetta
 violazione  del  principio  di uguaglianza,nel senso del diritto a un
 medesimo trattamento, anche nelle modalita'  di  attuazione  in  sede
 giurisdizionale,  di  identiche  situazioni  e  aspettative sul piano
 sostanziale.
   Per  la  verita'   l'interpretazione   seguita   dalla   prevalente
 giurisprudenza  non  si  sottrae  a  qualche perplessita' anche nella
 "comparazione" degli effetti di tale disciplina tra la posizione  del
 minore  e  quella  del  (presunto) genitore chiamato in causa, ove si
 coglie un certo "sfavore" rispetto  a  questo  tipo  di  azioni  che,
 oltretutto,  non  appare  piu'  giustificato  alla luce dei progressi
 della  scienza  che  consentono,  attualmente,   di   accertare   con
 elevatissimo  grado  di certezza la discendenza biologica, attenuando
 di gran lunga i rischi di strumentalita' delle iniziative processuali
 (di regola da parte della madre).
   Si  puo'  aggiungere  che  la  motivazione  della citata sentenza 7
 febbraio 1992 della Corte di cassazione  e'  tutta  imperniata  sugli
 aspetti  tecnici  e  interpretativi della questione, in rapporto alla
 successione di leggi, ma, a questo riguardo, non puo  sottacersi  che
 l'argomento del foro del convenuto inteso come regola generale per le
 cause aventi natura contenziosa sembra entrare in crisi al pari della
 distinzione   (giudizio   ordinario   di   cognizione   -  volontaria
 giurisdizione) che lo sostiene, sempre piu' evanescente dal punto  di
 vista  dogmatico.    Si  rinvia,  al riguardo, alla recente pronuncia
 della Corte di cassazione  secondo  cui  il  giudizio  relativo  alla
 dichiarazione  giudiziale della paternita' o maternita' naturale deve
 svolgersi - persino nella fase di  merito  -  secondo  le  forme  del
 procedimento  camerale (sezioni unite, 19 aprile 1996, n. 7170, guida
 al diritto, 1996, n. 38, p. 30), con possibili riflessi  proprio  sul
 tema della competenza territoriale.
   5. - La normativa in esame, rendendo piu' onerosa l'azione da parte
 del   genitore   ricorrente   (che   con   il   minore   convive)  e,
 conseguentemente,   affievolendo   le   probabilita'   di   una   sua
 instaurazione,  sembra  inoltre  porsi  in contrasto con il principio
 costituzionale  dell'accesso  alla  tutela  giurisdizionale  per   la
 salvaguardia dei propri diritti (art 24, comma 1) e, piu' ancora, con
 quello  (art.  31,  comma  1) della tutela della famiglia e della sua
 "formazione" (che puo' attuarsi anche attraverso l'acquisizione,  per
 via  legale,  del  secondo  genitore).    A  questo proposito occorre
 rifarsi  alla  complessa  evoluzione  giurisprudenziale  che  si   e'
 delineata successivamente alla declaratoria di parziale illegittinta'
 costituzionale  dell'art.  274  cod. civ. (citata sent.   341/1990) e
 alla conseguente esigenza di definire il concetto  di  interesse  del
 minore.
   Si e' infatti progressivamente affermato l'orientamento secondo cui
 deve  essere  considerato  favorevolmente,  in linea di principio, il
 perseguimento di una  "genitorialita'  completa",  per  gli  "effetti
 positivi  che normalmente si producono sullo sviluppo della prole per
 la contemporanea presenza di entrambe le figure genitoriali e  per  i
 diritti  relativi  all'educazione,  alla istruzione e al mantenimento
 che da tale duplice presenza conseguono" (Cass., sez. I,  25  gennaio
 1994,  n.  6216).    La  prospettiva  potrebbe essere diversa solo in
 presenza di un concreto pregiudizio per il  minore,  ad  esempio  per
 "l'accertata  condotta  del presunto padre gravemente pregiudizievole
 al figlio e tale  da  motivare  la  decadenza  dalla  potesta'  sullo
 stesso,  ovvero dalla provata esistenza di gravi e fondati rischi per
 l'equilibrio  affettivo  e  psicologico  del  minore,  per   la   sua
 educazione  e  per  il  suo  inserimento  nel  contesto  lavorativo e
 sociale" (Cass. 23 febbraio  1996  n.  1444,  CED  496002).    E'  il
 genitore  ricorrente che agisce per lo piu' nell'interesse del figlio
 minore (art. 273 cod. civ.) e ogni ostacolo che egli incontra,  anche
 a prescindere dalle situazioni limite, peraltro non trascurabili, del
 convenuto  che  cerchi di sottrarsi alla causa trasferendosi in luogo
 lontano o  ignoto,  si  riflette,  inevitabilmente,  sul  suo  status
 personale.
   6.  - Infine l'applicazione del criterio del foro del convenuto per
 la determinazione del giudice territorialmente competente  sembra  al
 collegio  contrastante  con il principio costituzionale di protezione
 dell'infanzia e della gioventu' (art. 31, comma 2).
   Non  pare  azzardato  affermare,  nel  quadro  di  una  progressiva
 evoluzione del diritto che tenga conto dei valori della  persona  che
 vengono  via  via  in  considerazione,  che la tutela dei minori, per
 essere in sintonia  con  il  principio  costituzionale,  deve  essere
 attuata,  a  livello  di  giurisdizione,  mettendo  a punto strumenti
 processuali   specifici   e   adeguati   alle   loro    problematiche
 psicoaffettive.
   Cosi'  l'ordinamento  ha  previsto un organo specializzato quale il
 tribunale per i minorenni, il ricorso a procedure che privilegiano la
 speditezza e la  realizzazione  concreta  degli  interessi  in  gioco
 (procedura  di  adottabilita'  e  di  volontaria  giurisdizione),  un
 processo penale con regole proprie.
   Di recente sono state introdotte rilevanti  modifiche  al  processo
 penale  nei  casi in cui la vittima di reati di violenza sessuale sia
 un minore (legge  15  febbraio  1996,  n.  66),  stabilendosi  regole
 particolari  per la sua audizione come testimone in modo da contenere
 il piu' possibile il turbamento emotivo connesso al contatto  con  la
 realta'  del  processo.   Il principio costituzionale viene quindi ad
 atteggiarsi, avuto riguardo ai casi in cui la giurisdizione coinvolge
 la persona di minore eta', come diritto a non subire, nei limiti  del
 possibile,   e   nel   ragionevole   equilibrio   con  altri  diritti
 fondamentali, conseguenze negative, a livello morale  o  psicologico,
 per  effetto di tale esperienza.  Orbene, la normativa attuale per le
 cause di  dichiarazione  giudiziale  della  paternita'  o  maternita'
 naturale non appare rispondente a tali principi e cio' e' ancora piu'
 vero  se  si  pone  mente  al  concreto  operare  del tribunale per i
 minorenni e  al  ruolo  fondamentale  che  esplicano  nelle  relative
 procedure gli organi per la tutela dell'infanzia e dell'adolescenza a
 livello sociale e amministrativo.
   Nelle  procedure  di  cui  si  discute puo' rendersi indispensabile
 l'ascolto del minore (tra l'altro suggerito per i fanciulli capaci di
 discernimento, dall'art. 12 della Convenzione  di  New  York  del  20
 novembre  1989,  ratificata  e resa esecutiva in Italia dalla legge 7
 maggio 1991, n. 176) che risulterebbe assai penalizzante  se  la  sua
 attuazione dovesse accompagnarsi a lunghi spostamenti sul territorio.
   Di  regola  il  tribunale  deve  disporre un'indagine psicologica e
 sociale per valutare la rispondenza all'interesse  del  minore  degli
 effetti dell'eventuale accoglimento della domanda, ricorrendo proprio
 agli  organi  preposti  dei  servizi  territoriali,  indagine  la cui
 efficacia e tempestivita' e'  messa  in  crisi  se  vengono  meno  la
 corrispondenza  tra  luogo in cui vive il minore, luogo ove operano i
 servizi, sede del tribunale per i minorenni.
   Puo' accadere ed accade che la domanda riguardi un  minore  la  cui
 situazione  personale  e familiare sia seguita per la problematicita'
 del suo nucleo di appartenenza, cio'  che  determina,  in  base  alla
 normativa   di   cui  si  discute,  un'incongrua  sovrapposizione  di
 procedure   ad   opera   di   organi   giudiziari   omogenei    nella
 specializzazione per materia, ma diversi per territorio.
   Esistono,  conclusivamente,  le condizioni per investire il giudice
 delle leggi, anche perche' una scelta interpretativa di segno diverso
 da parte di questo tribunale apparirebbe piuttosto discutibile  e  di
 esito incerto alla luce dei principi stabiliti con la citata sentenza
 7 febbraio 1992 della Corte di cassazione a sezioni unite.