ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  2-quater,
comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994,  n.  564  (Disposizioni
urgenti in materia fiscale),  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell'art. 19, comma 1, del  decreto
legislativo 31 dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul  processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta  nell'art.
30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso dalla  Commissione
tributaria provinciale di Chieti nel procedimento vertente tra C.  C.
e l'Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Chieti ed  altra,
con ordinanza del 1° luglio 2016, iscritta al  n.  240  del  registro
ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21  giugno  2017  il  Giudice
relatore Daria de Pretis. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 1° luglio 2016, la  Commissione  tributaria
provinciale  di  Chieti  ha  sollevato  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2-quater,  comma  1,  del  decreto-legge  30
settembre 1994, n. 564 (Disposizioni  urgenti  in  materia  fiscale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n.  656,
e dell'art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.
546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega
al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30  dicembre  1991,  n.
413). 
    La prima disposizione stabilisce che «[c]on decreti del  Ministro
delle  finanze  sono   indicati   gli   organi   dell'Amministrazione
finanziaria competenti per l'esercizio  del  potere  di  annullamento
d'ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilita', degli atti illegittimi o infondati [...]». La seconda
elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie. 
    Il giudice a quo riferisce che le questioni sono state  sollevate
nell'ambito di un processo instaurato da un  contribuente  contro  il
«silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di  autotutela»  (presentata
il 14 febbraio 2013) avente ad oggetto il  riesame  degli  avvisi  di
accertamento - non impugnati  in  sede  giudiziaria  -  con  cui,  in
relazione agli anni 2008 e 2009, erano stati rettificati in aumento i
redditi professionali da lui dichiarati. 
    Il rimettente afferma innanzitutto la propria giurisdizione sulla
controversia in questione, richiamando un orientamento della Corte di
cassazione  secondo  il  quale  apparterrebbero  alla   giurisdizione
tributaria  le  controversie  «nelle  quali  si  impugni  il  rifiuto
espresso o tacito dell'amministrazione a  procedere  ad  autotutela»,
alla luce dell'art. 12, comma 2, della legge  28  dicembre  2001,  n.
448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale  dello  Stato  (legge  finanziaria  2002)»,  che  avrebbe
attribuito  carattere  generale  alla  giurisdizione  tributaria.  Il
giudice a quo riferisce anche che  la  Cassazione  ha  precisato  che
«questione  altra  o  diversa  da  quella  di  giurisdizione,  e   di
competenza, appunto  del  giudice  tributario,  e'  stabilire  se  il
rifiuto di autotutela sia o meno impugnabile». 
    Su quest'ultimo punto la Cassazione avrebbe  statuito,  riferisce
il giudice a quo, che non esiste un obbligo  di  pronuncia  esplicita
dell'Amministrazione finanziaria sull'istanza  di  autotutela  e  che
l'omissione  di  pronuncia  sarebbe  inoppugnabile,  «non   potendosi
configurare un silenzio-rifiuto tacito  o  implicito  ricorribile  in
sede giurisdizionale». 
    Secondo il rimettente, tale lacuna di tutela  giurisdizionale  si
porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113  della
Costituzione. 
    Sulla rilevanza della questione, il giudice a  quo  osserva  che,
nel caso di specie, gli avvisi di  accertamento  «sono  scaturiti  da
presunzioni  legali  relative  ex  art.  32   del   D.P.R.   600/1973
concernenti l'esito delle indagini finanziarie  che  hanno  avuto  ad
oggetto esclusivamente i  prelevamenti  ed  i  versamenti  dai  conti
bancari», e che «il quantum presuntivamente  accertato  sulla  scorta
dei prelevamenti e' palesemente illegittimo e contra ius, per effetto
della sentenza n. 228/2014 della Corte  costituzionale»  con  cui  e'
stata   dichiarata   «l'illegittimita'   costituzionale    [parziale]
dell'art. 32, comma 1, numero 2),  secondo  periodo,  del  d.P.R.  29
settembre 1973, n. 602». Il rimettente precisa  poi  che,  «peraltro,
nella   fattispecie   in   esame   l'oggetto    del    sospetto    di
costituzionalita' e' limitato all'ammissibilita' del silenzio rifiuto
tacito o implicito - ovvero  alla  doverosa,  da  parte  della  p.a.,
adozione di un atto espresso - ed alla  sua  impugnabilita'  in  sede
giurisdizionale». 
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  giudice  a   quo
denuncia, in primo luogo, «[i]l contrasto con gli articoli  53  e  23
della   Costituzione,   anche   in   relazione   all'art.   3   della
Costituzione», ossia la  «[l]esione  del  principio  della  capacita'
contributiva  e  del  principio  di  ragionevolezza».  La   capacita'
contributiva    rappresenterebbe    un    «principio     fondamentale
dell'ordinamento  costituzionale»,  da  bilanciare  con   l'interesse
fiscale dello Stato  in  base  al  criterio  di  ragionevolezza.  Non
sarebbe «concepibile un interesse egoistico del  Fisco  a  conservare
atti   impositivi,   ancorche'   divenuti   definitivi,   palesemente
illegittimi  al  fine   di   trarne   un   profitto   sostanzialmente
ingiustificato e del tutto svincolato  dalla  capacita'  contributiva
del contribuente».  L'«assoggettamento  del  contribuente,  privo  di
mezzi di tutela, ad  una  ingiusta  ed  illegittima  imposizione»  si
tradurrebbe dunque nella violazione degli articoli 53, 23 e 3 Cost. 
    Il giudice a quo lamenta poi la violazione «del diritto di azione
in giudizio e del principio della tutela giurisdizionale dei  diritti
e  degli  interessi  legittimi».  Ribadisce  che  la  Cassazione  «ha
ritenuto insussistente l'obbligo  di  pronuncia  esplicita  dell'A.F.
sull'istanza   di   autotutela   proposta   dal   contribuente,    ed
inoppugnabile la  medesima  omissione  di  pronuncia,  non  potendosi
configurare un silenzio-rifiuto tacito  o  implicito  ricorribile  in
sede giurisdizionale». Sarebbe dunque  «palese  il  vuoto  di  tutela
giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un'imposizione fiscale
ingiustificata e lesiva della capacita' contributiva  del  medesimo»,
con conseguente violazione degli articoli 24 e 113 Cost., dato che il
citato art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 attribuirebbe
al  contribuente   «una   posizione   giuridica   soggettiva   avente
consistenza  di  diritto  soggettivo  o  quanto  meno  di   interesse
legittimo». 
    In terzo luogo, il rimettente denuncia la «[l]esione dei principi
di imparzialita' e di buon andamento della pubblica  amministrazione»
(art. 97 Cost.). Tali principi rappresenterebbero «il vero fondamento
dei  poteri  di  autoannullamento  dell'amministrazione  finanziaria,
specie su atti divenuti definitivi per mancata impugnazione»,  e  non
sarebbe  conforme  a  essi  «un   quadro   normativo   che   consenta
all'Amministrazione  Finanziaria  di  rimanere  inerte   sull'istanza
sollecitatoria dell'esercizio dell'autotutela». 
    Il  giudice  a  quo  osserva  anche  che  non  e'  preclusiva  la
circostanza che gli avvisi di accertamento (oggetto  dell'istanza  di
autotutela)  concretino  "rapporti  esauriti"   in   relazione   alla
dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale   contenuta   nella
sentenza n. 228  del  2014,  in  quanto  l'esercizio  dell'autotutela
tributaria «concerne, e puo' ovviamente avere ad  oggetto,  anche  un
atto impositivo inoppugnabile - per non essere stato gravato in  sede
giurisdizionale - palesemente illegittimo». Anzi, per  il  rimettente
sarebbe «da tenersi in debita considerazione, ai fini dell'autotutela
tributaria», l'annullamento delle norme in applicazione  delle  quali
siano state riscosse somme a titolo d'imposta. 
    Il giudice a quo individua le norme sospettate di  illegittimita'
costituzionale nell'art. 2-quater, del d.l.  n.  564  del  1994,  che
regola l'autotutela tributaria, e nell'art. 19 del d.lgs. n. 546  del
1992, che  indica  gli  atti  impugnabili  davanti  alle  commissioni
tributarie, menzionando, fra  gli  altri,  il  rifiuto  tacito  della
restituzione di tributi ma non il rifiuto  tacito  di  autotutela,  e
precisando che «[g]li  atti  diversi  da  quelli  indicati  non  sono
impugnabili autonomamente». 
    In  conclusione,   la   Commissione   tributaria   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 2-quater, comma 1, del d.l.  n.
564  del  1994,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  ne'  l'obbligo
dell'Amministrazione  finanziaria  di   adottare   un   provvedimento
amministrativo  espresso  sull'istanza  di  autotutela  proposta  dal
contribuente ne' l'impugnabilita' - da parte di questi - del silenzio
tacito su tale istanza», e dell'art. 19, comma 1, del d.lgs.  n.  546
del 1992, «nella parte in cui non prevede l'impugnabilita', da  parte
del contribuente, del rifiuto tacito dell'Amministrazione finanziaria
sull'istanza di autotutela proposta dal medesimo».  Vengono  invocati
tutti i parametri sopra menzionati ma la questione relativa  all'art.
97 Cost. riguarda solo l'art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564  del
1994. 
    2.- Nel giudizio di legittimita' costituzionale e' intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri,  con  atto  depositato  il  20
dicembre 2016. 
    L'interveniente osserva  che  il  giudice  contesta  in  sostanza
«proprio il fatto che l'Amministrazione  abbia  la  facolta',  e  non
l'obbligo, di eliminare in tutto o in parte propri provvedimenti  che
siano  palesemente  illegittimi»,  facolta'  risultante  dalle  norme
disciplinanti l'autotutela, cioe' dall'art. 2-quater del d.l. n.  564
del 1994 e dagli artt. 2 e 3 del  decreto  ministeriale  11  febbraio
1997, n. 37 (Regolamento recante  norme  relative  all'esercizio  del
potere di  autotutela  da  parte  degli  organi  dell'Amministrazione
finanziaria). Tale scelta legislativa deriverebbe  dalla  «necessita'
di contemperare diversi interessi»: quello «pubblico all'acquisizione
delle entrate», quello alla «stabilita'  dei  rapporti  giuridici»  e
quello «dei contribuenti a non dover corrispondere imposte in  misura
superiore  alla  loro   capacita'   contributiva».   Se   l'esercizio
dell'autotutela costituisse un obbligo anche  in  relazione  ad  atti
impositivi divenuti definitivi, «verrebbe ad  essere  compromesso  il
principio della certezza  del  diritto,  che  esige  l'osservanza  di
termini di decadenza sia per l'esercizio  del  potere  impositivo  da
parte  degli  uffici  finanziari,  sia  per  l'accesso  alla   tutela
giurisdizionale da parte del contribuente». 
    La difesa statale sottolinea che, nel caso di specie, a fronte di
atti impositivi notificati il 31 luglio 2012, il contribuente non  ha
intrapreso alcuna azione giurisdizionale e ha presentato  istanza  di
autotutela solo il 14 luglio 2013,  per  poi  dolersi  della  mancata
risposta dell'amministrazione con ricorso promosso il 19 giugno 2015.
Sarebbe dunque «irragionevole, oltre che contrario ai principi  della
certezza  del  diritto,  riconoscere  al  contribuente   un   diritto
all'annullamento  di  pretese  fiscali,  a  fronte  di   atti   ormai
consolidati e inoppugnabili». 
    Le disposizioni censurate, come  interpretate  dalla  Cassazione,
coniugherebbero dunque ragionevolmente «diverse  esigenze,  quali  la
certezza e stabilita' dei rapporti giuridici, il  diritto  di  difesa
del contribuente, la pronta riscossione dei debiti fiscali,  il  buon
andamento  della  pubblica  Amministrazione  e  la   deflazione   del
contenzioso». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Commissione tributaria provinciale di Chieti dubita  della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  2-quater,   comma   1,   del
decreto-legge 30 settembre 1994,  n.  564  (Disposizioni  urgenti  in
materia fiscale),  convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  30
novembre  1994,  n.  656,  e  dell'art.  19,  comma  1,  del  decreto
legislativo 31 dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul  processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta  nell'art.
30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413). 
    La prima disposizione stabilisce che «[c]on decreti del  Ministro
delle  finanze  sono   indicati   gli   organi   dell'Amministrazione
finanziaria competenti per l'esercizio  del  potere  di  annullamento
d'ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilita', degli atti illegittimi o infondati  [...]».  Essa  e'
censurata  «nella  parte   in   cui   non   prevede   ne'   l'obbligo
dell'Amministrazione  finanziaria  di   adottare   un   provvedimento
amministrativo  espresso  sull'istanza  di  autotutela  proposta  dal
contribuente ne' l'impugnabilita' - da parte di questi - del silenzio
tacito su tale istanza». 
    L'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, elenca  gli  atti
impugnabili davanti alle commissioni tributarie ed  e'  a  sua  volta
censurato «nella parte in cui non prevede l'impugnabilita', da  parte
del contribuente, del rifiuto tacito dell'Amministrazione finanziaria
sull'istanza di autotutela proposta dal medesimo». 
    Ad  avviso  della  rimettente,  tali  lacune  si  porrebbero   in
contrasto  con  gli  articoli  3,  23,  24,  53,  97  e   113   della
Costituzione. Sarebbero infatti violati i  principi  della  capacita'
contributiva e di ragionevolezza (artt. 3 e 53 Cost.), in quanto  non
sarebbe «concepibile un interesse egoistico del  Fisco  a  conservare
atti   impositivi,   ancorche'   divenuti   definitivi,   palesemente
illegittimi  al  fine   di   trarne   un   profitto   sostanzialmente
ingiustificato e del tutto svincolato  dalla  capacita'  contributiva
del contribuente». Nessun argomento e' svolto in  relazione  all'art.
23 Cost. Sarebbero poi violati gli artt. 24 e  113  Cost.  in  quanto
sarebbe «palese il vuoto di tutela giurisdizionale  del  contribuente
sottoposto ad un'imposizione fiscale ingiustificata  e  lesiva  della
capacita contributiva del  medesimo».  Infine,  sarebbero  violati  i
principi  di  imparzialita'  e  di  buon  andamento  della   pubblica
amministrazione (art. 97 Cost.), perche' non sarebbe conforme ad essi
«un quadro normativo che consenta all'Amministrazione Finanziaria  di
rimanere   inerte    sull'istanza    sollecitatoria    dell'esercizio
dell'autotutela». 
    2.- Prima di esaminare le questioni sollevate dal giudice a  quo,
e' opportuno  soffermarsi  brevemente  sull'istituto  dell'autotutela
tributaria, oggetto del presente giudizio. 
    L'annullamento   d'ufficio   degli   atti    dell'amministrazione
finanziaria ha trovato il suo primo fondamento  legislativo  generale
espresso nell'art. 68, comma 1,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 27 marzo 1992, n. 287  (Regolamento  degli  uffici  e  del
personale del Ministero delle finanze). A questa  disposizione  hanno
fatto seguito il censurato art. 2-quater del d.l. n.  564  del  1994,
che detta, fra le  altre,  regole  sull'individuazione  degli  organi
competenti all'autotutela, sulla definizione dei criteri per  il  suo
esercizio (commi 1, 1-bis e 1-ter) e sulle ipotesi di annullamento  o
revoca parziali (commi 1-sexies, 1-septies e 1-octies), e il  decreto
ministeriale 11 febbraio  1997,  n.  37  (Regolamento  recante  norme
relative all'esercizio del potere di autotutela da parte degli organi
dell'Amministrazione finanziaria). Ulteriori disposizioni concernenti
l'autotutela sono dettate dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, recante
«Disposizioni in materia di statuto  dei  diritti  del  contribuente»
(d'ora in avanti: statuto del contribuente), che, all'art.  7,  comma
2,  lettera  b),  prescrive  che,  negli  atti   dell'amministrazione
finanziaria, sia indicata l'autorita' presso la  quale  e'  possibile
promuovere la loro revisione in sede di autotutela, e  che,  all'art.
13, comma 6,  affida  al  Garante  del  contribuente  il  compito  di
attivare le procedure di  autotutela  nei  confronti  degli  atti  di
accertamento e di riscossione notificati al contribuente. 
    Nella  disciplina  legislativa  e  regolamentare  dell'autotutela
tributaria  e'  previsto,  in  particolare,   che   l'amministrazione
finanziaria puo' annullare d'ufficio  i  propri  atti  illegittimi  o
infondati anche in pendenza di giudizio e anche se si tratta di  atti
non impugnabili (art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994), e
che, in caso di «grave inerzia» dell'ufficio che ha  adottato  l'atto
illegittimo, puo' intervenire  «in  via  sostitutiva  [la]  Direzione
regionale o compartimentale dalla  quale  l'ufficio  stesso  dipende»
(art. 1 del d.m. n. 37 del 1997).  Il  citato  regolamento  del  1997
individua inoltre espressamente alcuni casi in cui  l'amministrazione
finanziaria  puo'   procedere   all'annullamento   d'ufficio   «senza
necessita' di istanza di parte» (art. 2) e dispone che nell'esercizio
dell'autotutela «e' data  priorita'  alle  fattispecie  di  rilevante
interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in
atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso» (art. 3). 
    L'autotutela tributaria conosce dunque una disciplina  articolata
e  specifica,  distinta  da  quella  dell'autotutela   amministrativa
generale, la quale, si puo' ricordare, benche' oggetto di una lunga e
risalente  elaborazione  dottrinale  e  giurisprudenziale,  e'  stata
prevista legislativamente solo nel 2005  (ad  opera  della  legge  11
febbraio 2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7
agosto  1990,  n.  241,  concernenti   norme   generali   sull'azione
amministrativa»), con l'introduzione dell'art. 21-nonies nella  legge
7 agosto 1990,  n.  241  (Nuove  norme  in  materia  di  procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). 
    In  ogni  caso,  secondo  la  giurisprudenza   della   Corte   di
cassazione, l'autotutela tributaria - che non si discosta, in  questo
essenziale  aspetto,  dall'autotutela  nel   diritto   amministrativo
generale - costituisce un  potere  esercitabile  d'ufficio  da  parte
delle  Agenzie  fiscali  sulla   base   di   valutazioni   largamente
discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente (ex
multis, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza  15  aprile
2016, n. 7511; Corte di cassazione, sezione tributaria,  sentenza  20
novembre 2015, n. 23765; Corte  di  cassazione,  sezione  tributaria,
sentenza 12 novembre 2014, n. 24058;  Corte  di  cassazione,  sezione
tributaria, sentenza 30 giugno 2010, n. 15451; Corte  di  cassazione,
sezione tributaria, sentenza 12  maggio  2010,  n.  11457;  Corte  di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009,  n.  16097;
Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n.
7388; Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 5 febbraio
2002, n. 1547; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza  4
ottobre 1996, n. 8685). Il  privato  puo'  naturalmente  sollecitarne
l'esercizio, segnalando l'illegittimita' degli atti impositivi, ma la
segnalazione non trasforma il procedimento officioso e  discrezionale
in  un  procedimento  ad  istanza  di  parte  da  concludere  con  un
provvedimento espresso. 
    Sul  carattere  non  doveroso  dell'autotutela   tributaria,   la
ricostruzione  della  giurisprudenza  della  Cassazione  fornita  dal
rimettente   e'   dunque   corretta:    non    esiste    un    dovere
dell'amministrazione di pronunciarsi sull'istanza  di  autotutela  e,
mancando tale  dovere,  il  silenzio  su  di  essa  non  equivale  ad
inadempimento, ne', d'altro canto, il  silenzio  stesso  puo'  essere
considerato un diniego, in assenza di una norma specifica  che  cosi'
lo qualifichi giuridicamente  (Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di cassazione, sezione
quinta civile, sentenza 9 ottobre 2000, n. 13412), con la conseguenza
che il  silenzio  dell'amministrazione  finanziaria  sull'istanza  di
autotutela non e' contestabile davanti ad alcun giudice. 
    Si tratta allora di verificare se tale  situazione  determini  un
«vuoto di tutela» costituzionalmente illegittimo, come lamentato  dal
giudice a quo. 
    3.- Come visto, il rimettente censura l'art. 2-quater,  comma  1,
del d.l. n. 564 del 1994 e l'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546  del
1992, perche' consentono all'amministrazione  di  mantenere  in  vita
atti impositivi «palesemente illegittimi», che  portano  a  essa  «un
profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato  dalla
capacita' contributiva  del  contribuente»,  e  di  «rimanere  inerte
sull'istanza» di autotutela in ipotesi  presentata  dal  destinatario
interessato, con la conseguenza che per quest'ultimo  e'  impossibile
contestare il silenzio. 
    Le censure si fondano sull'idea che l'autotutela  costituisca  un
rimedio di carattere  sostanzialmente  giustiziale,  in  quanto  tale
idoneo  a  formare  oggetto  di  una  pretesa  azionabile   in   sede
giurisdizionale,  e  hanno  l'obiettivo  di  renderne  la  disciplina
coerente  con  tale  funzione,  operando  una  "mutazione   genetica"
dell'annullamento d'ufficio, da strumento di rivalutazione  da  parte
dell'amministrazione  delle  proprie  decisioni,   a   strumento   di
protezione delle aspettative del privato, in modo  non  dissimile  da
quanto avviene nel caso dell'annullamento su ricorso. 
    A differenza di quest'ultimo, tuttavia, l'annullamento  d'ufficio
non   ha   funzione   giustiziale,   costituisce    espressione    di
amministrazione   attiva   e   comporta   di    regola    valutazioni
discrezionali, non esaurendosi il potere dell'autorita' che lo adotta
unicamente nella verifica della  legittimita'  dell'atto  e  nel  suo
doveroso annullamento se ne riscontra l'illegittimita'. 
    Certamente, l'apprezzamento  discrezionale  operato  in  sede  di
autotutela tributaria presenta tratti particolari per  la  forza  che
assume, nel suo contesto, l'interesse pubblico alla corretta esazione
dei tributi. L'annullamento d'ufficio di atti inoppugnabili per  vizi
"sostanziali", cioe' che hanno condotto l'amministrazione a percepire
somme non dovute, tende infatti a soddisfare  ipso  jure  l'interesse
pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si puo'  considerare
una sintesi  tra  l'interesse  fiscale  dello  Stato-comunita'  e  il
principio della capacita' contributiva, tutelati dall'art. 53,  primo
comma, Cost. Queste  peculiarita'  contribuiscono  a  spiegare  anche
taluni aspetti della disciplina positiva dell'autotutela  tributaria,
come ad esempio il compito assegnato al Garante del  contribuente  di
attivare le procedure di  autotutela  nei  confronti  degli  atti  di
accertamento e di riscossione notificati al  contribuente  (art.  13,
comma 6,  dello  Statuto  del  contribuente)  o  la  possibilita'  di
intervento  in  via   sostitutiva   della   Direzione   regionale   o
compartimentale in  caso  di  «grave  inerzia»  dell'ufficio  che  ha
adottato l'atto illegittimo (art. 1 del d.m. n. 37 del 1997). 
    Anche in un contesto cosi' caratterizzato,  tuttavia,  nel  quale
l'interesse pubblico  alla  rimozione  dell'atto  acquista  specifica
valenza e tende in una certa  misura  a  convergere  con  quello  del
contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi  possono
e devono concorrere nella  valutazione  amministrativa,  e  fra  essi
certamente quello alla stabilita' dei rapporti giuridici  di  diritto
pubblico, inevitabilmente compromessa dall'annullamento  di  un  atto
inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato  con  gli
interessi descritti -  e  con  altri  eventualmente  emergenti  nella
vicenda concreta sulla quale l'amministrazione tributaria e' chiamata
a provvedere  -  secondo  il  meccanismo  proprio  della  valutazione
comparativa. Sicche' si  conferma  in  ogni  caso,  anche  in  ambito
tributario,  la  natura  pienamente  discrezionale  dell'annullamento
d'ufficio. 
    Questa configurazione dell'autotutela tributaria emerge del resto
chiaramente dalla  giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione,  che
afferma il carattere discrezionale  dell'autoannullamento  tributario
e, come visto, sottolinea che  esso  «non  costituisce  un  mezzo  di
tutela del contribuente» (Corte di  cassazione,  sezione  tributaria,
sentenza 20 febbraio 2015, n.  3442,  Corte  di  cassazione,  sezione
quinta  civile,  sentenza  24  maggio  2013,  n.  12930,   Corte   di
cassazione, sezione quinta civile,  sentenza  29  dicembre  2010,  n.
26313; Corte di cassazione, sezione tributaria,  sentenza  30  giugno
2010, n. 15451, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza  12
maggio 2010, n. 11457, Corte di  cassazione,  sezioni  unite  civili,
sentenza 9 luglio 2009, n. 16097). 
    4.- Passando all'esame dei parametri invocati dal rimettente,  la
questione relativa agli artt. 3, 23 e 53 Cost. non e' fondata. 
    Il giudice a quo censura la possibilita' per l'amministrazione di
respingere  "silenziosamente"  l'istanza  di  autotutela  e   afferma
l'irragionevolezza del bilanciamento - realizzato dal  legislatore  -
tra interesse fiscale dello Stato e capacita' contributiva. 
    Prescindendo dalla questione dei  limiti  di  applicabilita',  in
questa  sede,  del  principio  di  capacita'  contributiva,   occorre
osservare  che,  nel  valutare  la  ragionevolezza  della  disciplina
legislativa dell'autotutela tributaria, il rimettente  non  considera
l'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici. Se  questa
Corte  affermasse  il  dovere  dell'amministrazione   tributaria   di
pronunciarsi  sull'istanza  di   autotutela,   aprirebbe   la   porta
(ammettendo l'esperibilita' dell'azione contro il  silenzio,  con  la
conseguente   affermazione   del   dovere   dell'amministrazione   di
provvedere e l'eventuale impugnabilita' dell'esito  del  procedimento
che ne deriva)  alla  possibile  messa  in  discussione  dell'obbligo
tributario consolidato a  seguito  dell'atto  impositivo  definitivo.
L'autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata  "seconda
possibilita'" di tutela, dopo la scadenza dei termini per il  ricorso
contro lo stesso atto impositivo. 
    Affermare   il   dovere   dell'amministrazione   di    rispondere
all'istanza di autotutela significherebbe, in altri  termini,  creare
una nuova situazione giuridicamente protetta  del  contribuente,  per
giunta  azionabile  sine  die  dall'interessato,  il  quale  potrebbe
riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando  il
principio della  definitivita'  del  provvedimento  amministrativo  e
della correlata stabilita' della  regolazione  del  rapporto  che  ne
costituisce oggetto. 
    Sulla  scia  della  tradizionale  configurazione  dell'autotutela
amministrativa, le norme censurate - e piu' in generale la disciplina
legislativa dell'annullamento d'ufficio tributario -  operano  dunque
un bilanciamento non  irragionevole  tra  l'interesse  pubblico  alla
corretta esazione dei  tributi  e  l'interesse  alla  stabilita'  dei
rapporti giuridici di diritto pubblico (su cui recentemente  sentenza
n. 94 del 2017),  che  sarebbe  inevitabilmente  sacrificato  da  una
scelta legislativa che imponesse all'amministrazione di  pronunciarsi
sull'istanza di autotutela del contribuente. Di  fronte  a  una  tale
istanza, alle agenzie fiscali e' invece  consentito  di  valutare  se
attivarsi  o  meno,  senza  che  la  loro  eventuale  scelta  di  non
provvedere possa essere oggetto di contestazione  giurisdizionale  da
parte dell'istante, non essendo  in  tale  caso  il  loro  potere  di
provvedere in autotutela diverso da quello  esercitabile  in  ipotesi
spontaneamente. 
    La non irragionevolezza della disciplina esaminata  non  comporta
che siano precluse al  legislatore  altre  possibili  scelte.  Questa
Corte ha gia'  osservato  che,  «in  via  di  principio,  il  momento
discrezionale del potere della pubblica amministrazione di  annullare
i  propri  provvedimenti  non  gode   in   se'   di   una   copertura
costituzionale» (sentenza n. 75 del 2000). La previsione  legislativa
di casi di autotutela obbligatoria e' dunque  possibile,  cosi'  come
l'introduzione   di    limiti    all'esercizio    del    potere    di
autoannullamento,  ma  non  puo'   certo   dirsi   costituzionalmente
illegittima, per le ragioni sopra viste, una disciplina generale  che
escluda il dovere dell'amministrazione e, per quanto  qui  interessa,
delle Agenzie fiscali di pronunciarsi sulle istanze di autotutela. 
    4.1.- Ugualmente non fondata e' la censura relativa  all'art.  97
Cost. 
    Dalla giusta considerazione che  la  disciplina  legislativa  del
potere di annullamento d'ufficio degli atti divenuti inoppugnabili si
fonda (anche) sull'art. 97, secondo comma,  Cost.,  non  e'  corretto
inferire la necessita' costituzionale della previsione legislativa di
un  dovere  dell'amministrazione  di  pronunciarsi  sull'istanza   di
autotutela, come prospetta il giudice a quo.  Al  contrario,  proprio
nel principio di buon andamento espresso nella  norma  costituzionale
citata si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella
disciplina dell'annullamento d'ufficio, anche dell'interesse pubblico
alla   stabilita'    dei    rapporti    giuridici    gia'    definiti
dall'amministrazione, con la conseguenza che non irragionevolmente il
legislatore stesso ha ritenuto di  non  prevedere  che  su  eventuali
istanze  di  autotutela   l'amministrazione   debba   necessariamente
pronunciarsi. 
    4.2.- La  questione  relativa  agli  artt.  24  e  113  Cost.  e'
strettamente collegata a quelle appena  esaminate.  Dal  momento  che
l'assenza del  dovere  di  provvedere  non  e'  sotto  altri  profili
costituzionalmente illegittima, e non sussiste  dunque  un  interesse
giuridicamente  protetto  a  ottenere  una  decisione  amministrativa
espressa sull'istanza di autotutela, e' escluso che vi sia un  «vuoto
di tutela». Fermo restando,  infatti,  che  contro  il  provvedimento
dell'amministrazione   finanziaria   oggetto   della   richiesta   di
annullamento d'ufficio l'interessato dispone degli ordinari rimedi di
protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi, la
disciplina legislativa del potere  di  autotutela  tributaria,  nella
parte  in  cui  non  prevede  un  obbligo   dell'amministrazione   di
pronunciarsi   sulle   istanze   di   annullamento   presentate   dal
contribuente, non lede la  garanzia  costituzionale  del  diritto  al
giudice.