ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 63, comma
7, 68, comma 1, e 95, commi 2, 4  e  5,  della  legge  della  Regione
Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla  legge  di  stabilita'
regionale 2017), promosso dal Presidente del Consiglio  dei  ministri
con ricorso notificato il 28 febbraio - 2 marzo 2017,  depositato  in
cancelleria il 7 marzo 2017 e iscritto al n. 28 del registro  ricorsi
2017. 
    Visto l'atto di costituzione della Regione Veneto; 
    udito nella udienza pubblica del  20  febbraio  2018  il  Giudice
relatore Augusto Antonio Barbera; 
    uditi l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello  per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e  Andrea  Manzi
per la Regione Veneto. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con ricorso spedito  per
la notifica il 28 febbraio 2017 e depositato il successivo  7  marzo,
ha promosso questioni di legittimita' costituzionale, tra gli  altri,
degli artt. 63, comma 7, 68, comma 1, e 95, commi 2,  4  e  5,  della
legge della Regione Veneto del 30 dicembre  2016,  n.  30  (Collegato
alla legge di stabilita' regionale 2017). 
    2.- L'impugnato art.  63,  comma  7,  inserendo  il  comma  1-bis
all'art. 45-ter della legge della Regione Veneto 23 aprile  2004,  n.
11 (Norme per il governo del territorio e in materia  di  paesaggio),
dispone che «[l]a Giunta regionale, in attuazione all'accordo con  il
Ministero dei Beni e delle Attivita' Culturali e del Turismo (MiBACT)
di cui agli articoli 135, comma 1 e 143, comma 2, del  Codice,  nelle
more dell'approvazione del piano paesaggistico di  cui  al  comma  1,
procede alla ricognizione degli immobili e delle aree  dichiarate  di
notevole interesse pubblico e delle aree tutelate per legge  di  cui,
rispettivamente, agli articoli 136 e 142, comma 1, del Codice». 
    2.1.- Ad avviso del ricorrente, la disposizione regionale prevede
un procedimento differente e incompatibile rispetto a quanto previsto
dagli artt. 135 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42,
recante  «Codice  dei  beni  culturali  e  del  paesaggio,  ai  sensi
dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n.  137»,  relativi  alla
pianificazione paesaggistica congiunta tra lo Stato e la Regione,  in
violazione  dell'art.  117,  secondo   comma,   lettera   s),   della
Costituzione. 
    L'art.  143,  comma  1,  cod.   beni   culturali,   dispone   che
l'elaborazione del piano paesaggistico  comprende,  tra  l'altro,  la
ricognizione delle aree  e  degli  immobili  dichiarati  di  notevole
interesse pubblico e di interesse paesaggistico, ai  sensi  dell'art.
136 e all'art. 142, cod. beni culturali; l'art. 135,  comma  1,  cod.
beni culturali, a sua volta,  prevede  che  lo  Stato  e  le  Regioni
assicurano  che   il   territorio   sia   adeguatamente   conosciuto,
salvaguardato, pianificato e gestito e che  a  tal  fine  le  Regioni
sottopongono a  specifica  normativa  d'uso  il  territorio  mediante
«piani paesaggistici». L'elaborazione dei detti «piani paesaggistici»
avviene congiuntamente tra Ministero e Regioni «limitatamente ai beni
paesaggistici di cui all'articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d)»,
tra cui sono compresi anche «[gli] immobili e [le] aree dichiarati di
notevole interesse pubblico». 
    La disposizione regionale, nel prevedere  la  ricognizione  degli
immobili  e  delle  aree  ad  opera  della  sola  Giunta   regionale,
violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia
di tutela  del  paesaggio.  Le  aree  richiamate  dalla  legislazione
regionale, infatti, coincidono con i beni contemplati dall'art.  143,
comma 1, lettere b) e c), cod. beni culturali,  come  oggetto  minimo
necessario del piano paesaggistico, per le quali  il  riportato  art.
135, comma 1, cod. beni culturali, prevede  inderogabilmente  che  la
pianificazione avvenga in modo congiunto tra Ministero e Regioni. 
    Questa previsione, prosegue il ricorrente, inibisce alla Regione,
seppure in via temporanea, di operare unilateralmente la ricognizione
dei beni e delle aree in questione. 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri  ricorda  che  il  piano
paesaggistico congiunto deve essere approvato in  tempi  certi,  come
statuito  dall'art.  143,  comma  2,  cod.   beni   culturali.   Tale
disposizione prescrive che l'accordo tra Ministero e Regione  indichi
il termine  entro  il  quale  il  piano  dovra'  essere  elaborato  e
approvato e che, decorso  inutilmente  tale  termine,  il  piano  sia
approvato dal Ministro in via sostitutiva. 
    Il ricorrente precisa, inoltre, che la competenza  a  dettare  le
norme di legge che disciplinano la materia della tutela del paesaggio
spetta in via esclusiva allo Stato; l'intervento regionale in materia
di      paesaggio      e'       di       livello       esclusivamente
pianificatorio-amministrativo. 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri fa presente altresi' che
la disposizione impugnata non e'  in  linea  con  gli  obiettivi  del
Protocollo  di  intesa  del  15  luglio  2009,  sottoscritto  tra  il
Ministero per i beni e le attivita' culturali e la Regione Veneto,  e
con il successivo disciplinare, nonostante  il  richiamo  all'accordo
contenuto nella disposizione regionale impugnata. 
    Il  richiamato  Protocollo   non   prevedeva,   infatti,   alcuna
competenza  legislativa  regionale  in  proposito,   e   all'art.   6
specificava  che  le  parti  si  sarebbero  impegnate  a   completare
l'elaborazione congiunta del piano «entro il 31 dicembre 2010». 
    Il Protocollo del 15 luglio 2009 stabiliva  anche  che  il  piano
avrebbe formato oggetto di accordo tra il Ministero e la Regione,  ai
sensi dell'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme  in
materia di procedimento amministrativo e di  diritto  di  accesso  ai
documenti  amministrativi).  L'art.  10,  comma  3,  del   Protocollo
prevede, inoltre, l'impegno delle parti a «completare la ricognizione
indicata all'art. 143, comma 1, lettere b) e c), cod. beni culturali,
ivi compresa la determinazione delle  specifiche  prescrizioni  d'uso
intese ad assicurare, rispettivamente, la  conservazione  dei  valori
espressi e la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e,
compatibilmente con essi, la valorizzazione,  entro  il  31  dicembre
2009». 
    L'intesa,   pertanto,   non    contemplava    alcun    intervento
«"sostitutivo" o "interinale"» della Regione,  neanche  relativamente
ai beni di cui all'art. 143, comma  1,  lettere  b)  e  c),  oggetto,
invece, della disposizione impugnata. 
    3.- L'impugnato art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto  n.  30
del 2016, rubricato «Norme semplificative per la realizzazione  degli
interventi di sicurezza idraulica», dispone che «[g]li interventi  di
manutenzione degli alvei, delle  opere  idrauliche  in  alveo,  delle
sponde e degli argini dei  corsi  d'acqua,  compresi  gli  interventi
sulla  vegetazione  ripariale  arborea  e  arbustiva,  finalizzati  a
garantire il libero deflusso  delle  acque  possono  essere  eseguiti
senza  necessita'   di   autorizzazione   paesaggistica,   ai   sensi
dell'articolo 149 del decreto legislativo  22  gennaio  2004,  n.  42
[...] e della valutazione di  incidenza  ai  sensi  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 8 settembre  1997,  n.  357  "Regolamento
recante  attuazione   della   direttiva   92/43/CEE   relativa   alla
conservazione degli habitat naturali e  seminaturali,  nonche'  della
flora e della fauna selvatiche" previa verifica della sussistenza  di
tali presupposti ai sensi delle disposizioni statali e regionali». 
    3.1.-  Secondo  il   ricorrente,   la   disposizione   regionale,
sottraendo alcuni interventi all'autorizzazione paesaggistica, appare
costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 117, secondo
comma, lettere s) e m), Cost., in quanto compete solo al  legislatore
statale  individuare  le  tipologie  di  interventi   per   i   quali
l'autorizzazione paesaggistica non e' richiesta. 
    Sono richiamate le sentenze n. 207 del 2012 e n.  238  del  2013.
Secondo le citate decisioni, «chiare ed inequivocabili sono [...]  le
esigenze di uniformita' della disciplina in  tema  di  autorizzazione
paesaggistica su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare
- grazie al citato parametro (art. 117,  secondo  comma,  lettera  m,
Cost.) - che  si  impongano  anche  all'autonomia  legislativa  delle
Regioni»; non sarebbe, pertanto, consentito alle Regioni «individuare
altre  tipologie   di   interventi   realizzabili   in   assenza   di
autorizzazione paesaggistica, al di fuori  di  quelli  tassativamente
individuati dall'art. 149, lettera a), del decreto legislativo n.  42
del 2004». 
    Il  ricorrente  sottolinea  che   l'art.   12,   comma   2,   del
decreto-legge 31 maggio 2014, n.  83  (Disposizioni  urgenti  per  la
tutela del patrimonio culturale,  lo  sviluppo  della  cultura  e  il
rilancio del turismo), convertito, con modificazioni, nella legge  29
luglio 2014, n. 106, come  modificato  dall'art.  25,  comma  2,  del
decreto-legge  12  settembre  2014,  n.  133  (Misure   urgenti   per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere  pubbliche,  la
digitalizzazione   del   Paese,   la   semplificazione   burocratica,
l'emergenza  del  dissesto  idrogeologico  e  per  la  ripresa  delle
attivita' produttive), convertito con modificazioni  nella  legge  11
novembre 2014, n. 164, ha previsto che, con regolamento da emanare ai
sensi dell'art. 17, comma 2, della  legge  23  agosto  1988,  n.  400
(Disciplina dell'attivita' di Governo e ordinamento della  Presidenza
del Consiglio dei ministri), su proposta  del  Ministro  dei  beni  e
delle attivita' culturali e del turismo, d'intesa con  la  Conferenza
unificata, sono individuate le tipologie di interventi  per  i  quali
l'autorizzazione   paesaggistica   non   e'   richiesta,   ai   sensi
dell'articolo  149,  cod.  beni  culturali,  sia  nell'ambito   degli
interventi di lieve entita' (gia' compresi nell'Allegato 1 al decreto
del Presidente della Repubblica 9 luglio  2010,  n.  139,  intitolato
«Regolamento  recante  procedimento  semplificato  di  autorizzazione
paesaggistica  per  gli  interventi  di  lieve   entita',   a   norma
dell'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio  2004,
n. 42 e  successive  modificazioni»),  sia  mediante  definizione  di
ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica. 
    La disposizione regionale impugnata si porrebbe in contrasto  con
questi   principi   perche'   creerebbe   «un'area   di    franchigia
dall'autorizzazione  paesaggistica  per  gli   interventi   in   essa
contemplati». Inoltre, la disposizione non specifica  quali  siano  i
«presupposti»,  la  cui  verifica   renderebbe   operante   l'esonero
dall'autorizzazione  prevista  dalle   norme   statali.   Appare   al
ricorrente inconsistente la formula secondo  cui  gli  interventi  in
questione  dovrebbero  essere  «finalizzati  a  garantire  il  libero
deflusso   delle   acque»,   posto   che   l'innovazione    normativa
trascurerebbe  comunque  le  caratteristiche  tecniche  e   l'entita'
materiale delle conseguenze. 
    Ad  avviso  del  ricorrente,  le   norme   statali   di   esonero
dall'autorizzazione   paesaggistica   costituiscono   eccezioni    al
principio di cui all'art. 146, cod. beni culturali, che devono essere
tassativamente  formulate   e   restrittivamente   interpretate.   La
disposizione impugnata presenta, al contrario, una «formula  ampia  e
indeterminata»  che  si   traduce   «nell'abrogazione   in   concreto
dell'autorizzazione per una intera classe di interventi, identificati
soltanto in base al loro presunto fine». 
    Si realizzerebbe, dunque, una sovrapposizione della  legislazione
regionale alla competenza statale esclusiva esercitata con gli  artt.
146 e 149, cod. beni culturali. 
    4.- Viene censurato altresi' l'art. 95 della legge reg. Veneto n.
30  del  2016,  rubricato   «Prime   disposizioni   in   materia   di
pianificazione regionale delle attivita' di cava»,  con  riguardo  ai
commi 2, 4 e 5. 
    4.1.- L'impugnato comma  2  dell'art.  95  stabilisce  che  «[e']
consentito,   previa   autorizzazione   della   struttura   regionale
competente in materia di attivita' estrattive,  lo  stoccaggio  e  la
lavorazione, nelle cave non estinte, di materiali da scavo costituiti
da sabbie e  ghiaie,  provenienti  dalla  realizzazione  delle  opere
[pubbliche] di cui al comma 1,  con  almeno  500.000  metri  cubi  di
materiale di risulta, ove sussistano le  seguenti  condizioni:  a)  i
materiali  sono  qualificabili  come  sottoprodotti  ai  sensi  della
vigente normativa; b) i materiali  conferiti  sono  equiparabili  per
tipologia al materiale  costituente  il  giacimento  coltivato  nella
cava». 
    4.1.1.-  Secondo  il  ricorrente,   la   disposizione   regionale
inciderebbe  sulla  disciplina  del  trattamento  dei  sottoprodotti,
prevista dall'art. 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006,  n.
152 (Norme in materia ambientale),  sovrapponendosi  alla  disciplina
statale esclusiva in tema di stoccaggio dei sottoprodotti da scavo. 
    La disciplina delle procedure per lo smaltimento  delle  rocce  e
terre da scavo atterrebbe  infatti  al  trattamento  dei  residui  di
produzione   e   sarebbe   percio'   da   ascrivere   alla    «tutela
dell'ambiente», affidata dall'art. 117, secondo  comma,  lettera  s),
Cost.,  alla  competenza  legislativa  esclusiva  dello  Stato  (sono
richiamate le sentenze n. 232 e n. 70 del 2014 e n. 300 del 2013). 
    La disposizione impugnata violerebbe questi  principi,  basandosi
sul presupposto che i materiali di scarto, equiparabili al giacimento
coltivato nella cava e provenienti da cantieri  di  opere  pubbliche,
siano classificabili  come  «sottoprodotti»  e  non  come  rifiuti  e
possano essere stoccati  e  lavorati  in  cava.  La  norma  regionale
contrasterebbe con la disciplina statale, di competenza esclusiva  ex
art.  117,  secondo  comma,  lettera  s),  Cost.,   in   materia   di
sottoprodotti da scavo, contenuta negli artt. 183, comma  1,  lettera
qq), e 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 e nel decreto del  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio  e  del  mare  10  agosto
2012, n. 161 (Regolamento recante  la  disciplina  dell'utilizzazione
delle terre e rocce da scavo). 
    Secondo il ricorrente, tale decreto  stabilisce,  «come  principi
fondamentali», che i materiali e le rocce  da  scavo  debbano  essere
estratti, utilizzati, riutilizzati esclusivamente in attuazione di un
apposito «Piano di Utilizzo» (di cui all'art. 5 del  citato  d.m.  n.
161), e che ne sia sempre garantita la caratterizzazione  ambientale,
cioe' l'«attivita' svolta per accertare la sussistenza dei  requisiti
di qualita' ambientale dei materiali da scavo in conformita' a quanto
stabilito dagli Allegati 1 e 2» (art. 1, lettera g, del citato d.m.). 
    Ad avviso del ricorrente,  queste  regole  valgono  anche  per  i
materiali da scavo costituenti sottoprodotti. L'art. 4  del  d.m.  n.
161 del 2012, infatti, ai commi 1 e  2,  definisce  sottoprodotto  il
materiale da  scavo  «che  risponde  ai  seguenti  requisiti:  a)  il
materiale da scavo e' generato durante la realizzazione di  un'opera,
di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario  non  e'
la produzione  di  tale  materiale;  b)  il  materiale  da  scavo  e'
utilizzato, in  conformita'  al  Piano  di  Utilizzo:  1)  nel  corso
dell'esecuzione della stessa opera [...] o di un'opera diversa [...];
2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di  cava;  c)
il materiale da scavo e' idoneo ad  essere  utilizzato  direttamente,
ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica
industriale [...]; d) il materiale da  scavo,  per  le  modalita'  di
utilizzo [...], soddisfa i requisiti di qualita' ambientale,  di  cui
all'Allegato 4». 
    La disposizione impugnata, prosegue  il  ricorrente,  consentendo
«indiscriminatamente» la destinazione dei sottoprodotti di scavo allo
stoccaggio in cava, sulla sola base del generico accertamento  che  i
materiali siano «equiparabili» a quelli coltivati nella cava  stessa,
vanifica la previsione del piano di utilizzo  e  la  garanzia  che  i
sottoprodotti    in    questione,     attraverso     la     opportuna
caratterizzazione, presentino i requisiti di qualita' ambientale,  di
cui all'Allegato 4 del citato decreto ministeriale. 
    Lo  stoccaggio  a  tempo  indeterminato  in  cave  «equiparabili»
vanificherebbe poi la previsione del medesimo decreto,  secondo  cui,
decorso il termine di utilizzo previsto dal piano,  il  materiale  di
scavo perde la qualifica di sottoprodotto e  viene  qualificato  come
rifiuto, con applicazione della  pertinente  legislazione  di  tutela
ambientale (art. 5, commi 6, 7, 8 e 9, del d.m. n. 161 del 2012). 
    4.2.- L'impugnato art. 95, comma 4, della legge reg. Veneto n. 30
del 2016, vieta per un periodo di nove anni l'autorizzazione di nuove
cave di sabbia e ghiaia. 
    4.2.1.- Secondo il ricorrente, la norma dispone  «un'aprioristica
ed indiscriminata» sospensione del rilascio dei titoli  minerari  che
impedisce per un lasso di tempo  non  trascurabile,  sia  l'avvio  di
nuove   iniziative   nello   specifico   settore   estrattivo,    sia
l'esperimento  delle  procedure  di  valutazione  di   compatibilita'
correlate a progetti futuri, previste dall'art. 7 del d.lgs.  n.  152
del 2006. Essa determina un  «effetto  sostanzialmente  interdittivo»
rispetto alle attivita' di coltivazione  di  nuove  cave  di  inerti,
eludendo l'obbligo di ponderazione di ciascuna proposta  progettuale,
anche in relazione alle rispettive alternative  praticabili,  imposto
dalla  normativa  in  tema  di  VIA,  riconducibile   alla   potesta'
legislativa esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost. 
    Il ricorrente richiama la sentenza n. 199 del  2014  della  Corte
costituzionale, secondo cui le discipline relative  alla  valutazione
di impatto ambientale «debbono essere  ascritte  alla  materia  della
"tutela dell'ambiente" in ordine alla quale lo  Stato  ha  competenza
legislativa esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera
s), Cost.». 
    La difesa statale evidenzia anche che questa  Corte  ha  ritenuto
l'illegittimita' costituzionale di norme  regionali  che  disponevano
dell'efficacia  di  titoli  minerari  in  assenza  di  procedure   di
valutazione di impatto ambientale, in base all'assunto che  una  tale
disciplina   potrebbe   «mantenere   inalterato   lo   status    quo,
sostanzialmente   sine   die,   superando   qualsiasi   esigenza   di
"rimodulare"  i  provvedimenti  autorizzatori   in   funzione   delle
modifiche  subite,  nel  tempo,  dal  territorio   e   dall'ambiente»
(sentenza n. 67 del  2010),  e  sarebbe,  quindi,  «atta  ad  eludere
l'osservanza nell'esercizio dell'attivita' di cava della normativa di
VIA» (sentenza n. 246 del 2013). 
    Secondo il ricorrente, l'impugnato art. 95,  comma  4,  contrasta
anche con il combinato disposto degli artt.  3,  primo  comma,  e  41
Cost.,  in  quanto  il  generalizzato   divieto   di   rilascio   dei
provvedimenti, sebbene astrattamente volto «ad un  fine  di  utilita'
sociale, quali gli scopi di tutela dell'ambiente» (enumerati al comma
1,  dello  stesso  art.  95),   non   puo'   ritenersi   conforme   a
ragionevolezza e proporzionalita', poiche'  impedisce  l'esame  delle
ricadute ambientali e delle specifiche  soluzioni  tecniche  relative
alle singole proposte progettuali, precludendo l'assunzione di misure
proporzionate rispetto al concreto contenuto di ciascuna  istanza  di
coltivazione mineraria (sono richiamate le sentenze n. 167 del 2009 e
n. 152 del 2010). 
    Nella  specie,  prosegue  il  ricorrente,  la  norma   regionale,
vietando  nuove  iniziative  economiche  nel  settore   delle   cave,
renderebbe  dominante  la  posizione  degli   attuali   titolari   di
autorizzazione alla coltivazione di cave, arrecando loro un beneficio
sproporzionato e irragionevole, anche rispetto alla stessa  enunciata
finalita' di protezione  dell'ambiente:  lo  sfruttamento  esasperato
delle cave esistenti, non piu' bilanciabile  dall'apertura  di  nuove
cave e dalla chiusura e ricomposizione di  quelle  preesistenti,  non
potrebbe  che  tradursi  in  un   maggior   pregiudizio   complessivo
all'ambiente stesso, di cui non e' piu' programmabile un  equilibrato
utilizzo. 
    4.3.- Il comma 5 dell'art. 95 della legge reg. Veneto n.  30  del
2016 e' impugnato in quanto, pur consentendo l'ampliamento delle cave
di sabbia e ghiaia non estinte, lo condiziona alla presenza di taluni
requisiti essenziali, ivi compresi un limite massimo,  determinato  a
priori, dei volumi complessivamente assentiti  ai  singoli  operatori
richiedenti  (comma  5,  lettera  a),  nonche'  una  soglia   massima
prestabilita (di validita' almeno triennale) dei volumi estraibili in
ampliamento per ciascuna Provincia (comma 5, lettera d).  Secondo  il
ricorrente, le previste limitazioni  all'esercizio  delle  iniziative
imprenditoriali, concernenti l'ampliamento di  preesistenti  cave  di
inerti, derivanti dall'applicazione dell'art.  95  della  legge  reg.
Veneto n. 30 del 2016, collidono con la competenza esclusiva  statale
ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in materia  di  tutela
della concorrenza; e comunque con la competenza statale esclusiva  in
materia di tutela dell'ambiente ex art. 117, secondo  comma,  lettera
s), Cost. 
    Il  ricorrente  ricorda  che  la  giurisprudenza   costituzionale
ricomprende nella tutela della concorrenza sia le misure  legislative
«che contrastano gli  atti  ed  i  comportamenti  delle  imprese  che
incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e  che
ne disciplinano le modalita' di  controllo,  eventualmente  anche  di
sanzione», sia le misure legislative «di promozione,  che  mirano  ad
aprire un mercato o a consolidarne  l'apertura,  eliminando  barriere
all'entrata, riducendo o  eliminando  vincoli  al  libero  esplicarsi
della capacita' imprenditoriale e  della  competizione  tra  imprese,
rimuovendo cioe', in generale, i vincoli alle modalita' di  esercizio
delle attivita' economiche» (sono citate le sentenze n. 270 e  n.  45
del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007). 
    Anche in questo caso si assiste, secondo la  difesa  statale,  ad
una irragionevole limitazione quantitativa e temporale dell'attivita'
economica di cava che non corrisponde ad una effettiva  finalita'  di
tutela dell'ambiente, poiche' tale tutela, nel sistema delineato  dal
d.lgs. n. 152 del 2006, puo' attuarsi solo  attraverso  una  gestione
pianificata  delle  risorse  ambientali,  e  non  attraverso  «rigide
predeterminazioni legislative delle modalita' di tale gestione»  che,
in quanto non precedute da specifica istruttoria e  non  modificabili
se non attraverso un nuovo  iter  legislativo,  in  caso  di  impatto
negativo delle misure sono suscettibili di recare danni irreversibili
all'ambiente. 
    5.- Si e' costituita in giudizio  la  Regione  Veneto,  deducendo
l'inammissibilita' e l'infondatezza delle questioni. 
    5.1.-  Riguardo   all'impugnato   art.   63,   comma   7,   sulla
ricognizione, da parte della Giunta regionale, degli immobili e delle
aree dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree  tutelate
per legge di cui, rispettivamente, agli artt. 136  e  142,  comma  l,
cod. beni culturali, la censura di violazione dell'art. 117,  secondo
comma, lettera s), Cost., in riferimento  alla  competenza  esclusiva
dello Stato in materia di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei
beni culturali, appare alla resistente  «manifestamente  infondata  e
inammissibile». La legge  regionale,  infatti,  non  si  porrebbe  in
antitesi  rispetto  alle  previsioni   della   legge   statale,   ne'
interferirebbe in alcun modo rispetto  al  procedimento  formativo  e
agli effetti del piano paesaggistico. 
    Secondo  la  resistente,  l'art.  135,   cod.   beni   culturali,
attribuisce  ai  piani   paesaggistici   il   compito   di   definire
prescrizioni e previsioni (relative alla conservazione degli elementi
costitutivi e delle morfologie dei beni  paesaggistici  sottoposti  a
tutela; alla riqualificazione delle  aree  compromesse  o  degradate;
alla salvaguardia delle caratteristiche  paesaggistiche  degli  altri
ambiti territoriali, per assicurare il minor consumo del  territorio;
all'individuazione delle linee di sviluppo urbanistico  ed  edilizio,
in  funzione  della  loro  compatibilita'  con   i   diversi   valori
paesaggistici riconosciuti e  tutelati,  con  particolare  attenzione
alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista
del  patrimonio  mondiale  dell'UNESCO),  che  non  formano   oggetto
dell'art. 63, comma 7, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016. 
    Tale disposizione, prosegue la resistente, si limita a  prevedere
un'attivita' preliminare di natura meramente  ricognitiva  in  ordine
agli immobili e alle  aree  gia'  dichiarate  di  notevole  interesse
pubblico  e  alle   aree   gia'   tutelate   per   legge,   di   cui,
rispettivamente, agli artt. 136 e 142, comma l, cod. beni  culturali.
Attivita',  quella  indicata  dalla  norma  regionale,  che  e'  solo
accessoria   al   procedimento   formativo   del   piano    regionale
paesaggistico,  nonche'  cedevole  nei  confronti  della   successiva
attivita' ricognitiva che venisse ad essere  inglobata  nel  medesimo
piano. 
    La  legge  regionale  e  quella  statale  evocata   quale   norma
interposta opererebbero, sotto il profilo degli effetti,  «in  ambiti
paralleli,  ma  separati,  senza  che  sia  possibile  una  reciproca
interferenza». 
    Ad avviso della  resistente  le  censure  di  incostituzionalita'
devono ritenersi inammissibili, in quanto  nessuna  concreta  lesione
della competenza legislativa esclusiva  dello  Stato  in  materia  di
tutela  del  paesaggio  sussiste  per  effetto   della   disposizione
impugnata. 
    Oggetto  della  stessa,  infatti,   e'   un'attivita'   meramente
ricognitiva di  vincoli  gia'  esistenti  e  accertati;  pertanto  la
disposizione impugnata  non  produrrebbe  nessun  effetto  di  natura
costitutiva e, conseguentemente, nessuna lesione "sostanziale"  della
competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela del  paesaggio,
ne'  alcun  effetto  preclusivo   rispetto   all'applicazione   della
disciplina statale. L'attivita' ricognitiva costituirebbe  attuazione
dello specifico  accordo  intercorso  tra  la  Regione  Veneto  e  il
Ministero per i beni e le attivita' culturali  (MiBAC),  in  data  15
luglio 2009, a norma dell'art. 143, comma 2, cod. beni culturali. 
    Sottolinea la resistente che l'accordo prevede che «le  parti  si
impegnano sin d'ora a completare la ricognizione  indicata,  all'art.
143, comma l, lettere b) e  c),  del  Codice».  A  tal  riguardo,  la
Regione  ricorda  che  e'  stata  sottoscritta  un'intesa,  ai  sensi
dell'art. 143, comma 2, «tra il Ministero dei Beni e delle  Attivita'
Culturali (ora Ministero dei Beni e delle Attivita' Culturali  e  del
Turismo - MiBACT) e la Regione del Veneto, in forza  della  quale  e'
stata disposta  la  partecipazione  da  parte  della  Region[e],  con
delibera n. 1503/2009 [...], ad un  Comitato  Tecnico  del  Paesaggio
(CTP), a composizione paritetica ministeriale e  regionale»,  che  ha
avviato l'attivita' di ricognizione dei beni paesaggistici e a cui e'
stata affidata  la  «definizione  dei  contenuti  del  piano»  e  «il
coordinamento delle azioni necessarie alla sua definizione». 
    Una delle  principali  attivita'  svolte  dal  CTP,  prosegue  la
resistente, consiste nella ricognizione  e  nella  validazione  degli
immobili e delle aree dichiarati  di  notevole  interesse.  La  norma
regionale, dunque, non fa che confermare un'attivita' gia'  in  corso
di svolgimento sulla base della comune volonta' statale e  regionale,
consentendo peraltro, mediante la pubblicazione  della  ricognizione,
di soddisfare l'interesse generale a conoscere lo stato paesaggistico
del territorio, come emerso in sede di CTP, ove e' stata  piu'  volte
discussa l'opportunita' di pubblicare,  in  attesa  dell'approvazione
del piano  paesaggistico  regionale,  a  soli  fini  informativi,  le
ricognizioni dei beni paesaggistici ex art. 136, cod. beni culturali,
validate dallo stesso CTP. 
    5.2.- Riguardo all'impugnato art. 68, della legge reg. Veneto  n.
30 del 2016, concernente gli interventi di manutenzione degli  alvei,
delle opere idrauliche in alveo, delle  sponde  e  degli  argini  dei
corsi d'acqua, in assenza di autorizzazione paesaggistica, le censure
di violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere m) e  s),  Cost.,
sono ritenute dalla resistente manifestamente  infondate,  in  quanto
omettono  di  considerare  il  tenore  letterale  della  disposizione
regionale. 
    Essa, infatti, si pone «in una posizione servente  rispetto  alla
disciplina statale» che definisce il confine entro  cui  il  precetto
normativo regionale opera. Gli interventi di sicurezza  idraulica  da
questo contemplati sarebbero esonerati dall'obbligo di sottoposizione
all'autorizzazione   paesaggistica   solo   «laddove   la    relativa
fattispecie sia sussumibile nell'ambito  delle  fattispecie  previste
dalla legislazione statale» e sempre che «siano previamente accertati
i presupposti  applicativi  dell'esonero»,  cosi'  come  disciplinati
dalle leggi statali. 
    La legge regionale avrebbe quindi una «finalita' "dichiarativa" e
"politica"», essendo diretta a sottolineare la rilevanza  teleologica
di alcune tipologie di interventi da compiere sul territorio al  fine
di soddisfare l'interesse pubblico alla sicurezza idraulica.  La  sua
natura «servente», inoltre, le impedirebbe «di innovare l'ordinamento
giuridico». 
    A tale proposito, la difesa regionale  richiama  il  decreto  del
Presidente della Repubblica 13  febbraio  2017,  n.  31  (Regolamento
recante individuazione degli interventi  esclusi  dall'autorizzazione
paesaggistica o sottoposti a procedura  autorizzatoria  semplificata)
che,  nell'Allegato  A,  sui  casi  di  esclusione  dall'obbligo   di
autorizzazione paesaggistica,  prevede  una  fattispecie  identica  a
quella della legge regionale. 
    La  disposizione  regionale  impugnata  troverebbe,  quindi,  «un
addentellamento precettivo» in quella regolamentare statale, «che  ne
suffraga  la  legittimita'»  e  ne  veicola  la  portata   precettiva
subordinata alla disciplina statale. 
    5.3.- Con riferimento all'art. 95,  comma  2,  della  legge  reg.
Veneto n. 30 del 2016, censurato nella parte in cui consente,  previa
autorizzazione della struttura regionale  competente  in  materia  di
attivita' estrattive, lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave  non
estinte, di  materiali  da  scavo  costituiti  da  sabbie  e  ghiaie,
provenienti  dalla  realizzazione  di  opere  pubbliche,  la   difesa
regionale sostiene che la disciplina statale non viene derogata dalla
normativa regionale, la quale presuppone che siano soddisfatti  tutti
i requisiti previsti dalla normativa statale, in  assenza  dei  quali
non sara' possibile accedere al regime in parola. 
    5.4.- In relazione alla censura riferita all'art.  95,  comma  4,
della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, la resistente ravvisa in essa
un'incongruenza logica. La norma regionale, che dispone il divieto di
nuove aperture di cave di sabbia e ghiaia, postula  l'assenza  di  un
procedimento amministrativo. Non sarebbe dunque possibile  ipotizzare
una lesione  sotto  forma  di  mancata  attivazione  di  un  segmento
procedimentale decisorio qual e' quello della valutazione di  impatto
ambientale (VIA). 
    L'art. 95, comma 4, e' inserito tra  le  «prime  disposizioni  in
materia di pianificazione regionale delle  attivita'  di  cava»,  per
«concorrere alla valorizzazione delle  risorse  non  rinnovabili  del
territorio  regionale  mediante  un  loro  utilizzo  razionale  anche
attraverso il massimo sfruttamento dei giacimenti ed in coerenza  con
le politiche regionali di riduzione del consumo  di  suolo  sotto  il
profilo del contenimento della estrazione  di  sabbie  e  ghiaie  nel
territorio, nonche' ai fini della tutela del lavoro e  delle  imprese
del settore estrattivo e della migliore gestione dei materiali inerti
estratti nel corso  della  realizzazione  di  opere  pubbliche  e  di
pubblica utilita'» (comma  1  dello  stesso  art.  95).  La  relativa
disciplina andrebbe, dunque, contestualizzata  nell'ambito  dell'art.
5, della legge reg. Veneto 7 settembre 1982,  n.  44  (Norme  per  la
disciplina dell'attivita' di cava), ove  e'  prevista  l'adozione  da
parte della Regione di un piano regionale dell'attivita' di cava,  il
cui  scopo  e  la  cui  funzione  e'  regolamentare  lo   svolgimento
dell'attivita' di cava sul territorio regionale. 
    L'impugnato art. 95, comma  4,  avrebbe,  percio',  lo  scopo  di
regolamentare, anche  sotto  il  profilo  temporale,  lo  svolgimento
dell'attivita' di cava secondo le finalita' indicate. 
    Secondo  la  resistente,  cio'  implica  che  la  Regione  possa,
«secondo  insindacabile  valutazione  discrezionale»,   decidere   di
regolare l'attivita' di cava per un  determinato  periodo  di  tempo,
consentendo, come nel caso di specie, solo  un  limitato  ampliamento
delle cave gia'  esistenti  e  vietando  l'apertura  di  nuove  cave.
Nessuna irragionevolezza sarebbe  percio'  ravvisabile,  ma  solo  la
naturale esplicazione del potere pianificatorio riconosciuto in  capo
alla  Regione,  attuato  sulla  base  di  una  complessiva  attivita'
istruttoria (sono richiamati gli allegati alla delibera della  Giunta
regionale n. 1647 del 21 ottobre 2016). 
    Tali  considerazioni  consentirebbero  di  superare,  secondo  la
difesa regionale, anche le doglianze prospettate  in  relazione  alla
presunta lesione della  liberta'  di  iniziativa  economica.  Non  vi
sarebbe, infatti, alcuna «arbitrarieta'» nella previsione  di  misure
limitative della liberta' stessa da  parte  dell'impugnato  art.  95,
comma 4 (e' richiamata la sentenza n. 152 del 2010). 
    L'attivita' di cava potrebbe essere limitata  rispetto  a  valori
prioritari, quali quelli indicati al comma 1 dello stesso art. 95. La
previsione di un limite temporale all'apertura di nuove cave sarebbe,
inoltre,  frutto  di  una  ponderazione   dello   status   estrattivo
regionale, come  emerge  dall'iter  legislativo  e  sarebbe  comunque
espressione della discrezionalita' valutativa affidata alla Regione. 
    5.5.- Ad avviso della Regione,  l'impugnato  art.  95,  comma  5,
della legge reg. Veneto n. 30 del  2016,  prevederebbe  specifiche  e
mirate limitazioni all'ampliamento delle  cave  di  sabbia  e  ghiaia
esistenti e  non  consentirebbe  un'indiscriminata  espansione  delle
stesse, ragion per cui il prospettato pregiudizio  ambientale  appare
«un'illazione infondata» alla luce di quanto emerge dall'iter che  ha
preceduto l'adozione della disposizione regionale. 
    Ad avviso della difesa  regionale  sarebbero  contraddittorie  le
affermazioni del ricorrente che, da un  lato,  ritiene  l'ampliamento
delle cave esistenti alla stregua  di  uno  sfruttamento  esasperato,
idoneo  a  ledere  il  bene  ambiente,  e,  dall'altro,  critica   le
previsioni di limiti e vincoli  a  tale  ampliamento  per  violazione
delle regole della concorrenza. 
    Prima ancora che infondata,  la  censura  sarebbe  inammissibile,
risultando la sua esposizione a tal punto confusa  e  contraddittoria
da non far comprendere quali siano  le  ragioni  poste  a  fondamento
della stessa, negandosi le une con  le  altre.  A  riprova  di  cio',
l'asserita lesione della  concorrenza  sarebbe  prospettata  in  modo
«assertivo, senza  che  sia  evocato  alcun  concreto  parametro  che
evidenzi una tale lesione». 
    Le doglianze avverso i commi 4 e 5 dell'art. 95, della legge reg.
Veneto n. 30 del 2016, sarebbero  inoltre  ispirate  dall'intento  di
privare la Regione di ogni potere pianificatorio in materia di  cave,
il  che  comporterebbe  una  grave  lesione  delle   sue   competenze
costituzionalmente e legislativamente  garantite,  anche  in  spregio
dell'interesse  al  buon   andamento   dell'agire   pubblico   e   al
soddisfacimento degli interessi  collettivi  sottesi  alla  correlata
attivita' amministrativa. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Riservate a  separate  pronunce  le  questioni  promosse  dal
Presidente del Consiglio dei ministri  su  altre  disposizioni  della
legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n.  30  (Collegato  alla
legge di stabilita' regionale 2017), lo  scrutinio  deve  essere  qui
limitato a quelle aventi ad oggetto gli artt. 63, comma 7, 68,  comma
1, 95, commi 2, 4 e 5, di detta legge regionale, in riferimento  agli
artt. 3, 41, e 117,  secondo  comma,  lettere  e),  m)  e  s),  della
Costituzione. 
    2.- L'impugnato art. 63, comma 7, della legge reg. Veneto  n.  30
del 2016, ha inserito i  commi  1-bis,  1-ter  e  1-quater  nell'art.
45-ter, della legge reg. Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme  per  il
governo  del  territorio  e  in  materia  di  paesaggio),  il   quale
disciplina i compiti della Regione funzionali alla realizzazione  del
piano paesaggistico. 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri  si  duole  della  prima
parte della disposizione, che ha inserito nel richiamato art.  45-ter
il comma 1-bis, il quale cosi'  dispone:  «La  Giunta  regionale,  in
attuazione all'accordo con il Ministero dei Beni  e  delle  Attivita'
Culturali e del Turismo (MiBACT) di cui agli articoli 135, comma 1  e
143, comma 2, del Codice,  nelle  more  dell'approvazione  del  piano
paesaggistico di cui al comma  1,  procede  alla  ricognizione  degli
immobili e delle aree dichiarate di  notevole  interesse  pubblico  e
delle aree tutelate per legge di cui, rispettivamente, agli  articoli
136 e 142, comma 1, del Codice». 
    2.1.- Ad avviso del  ricorrente,  detta  norma  attribuirebbe  un
potere unilaterale di tipo «sostitutivo» o «interinale» alla Regione,
in contrasto con l'art. 135 del decreto legislativo 22 gennaio  2004,
n. 42, recante «Codice dei beni culturali e del paesaggio,  ai  sensi
dell'articolo 10 della  legge  6  luglio  2002,  n.  137»,  il  quale
richiede la pianificazione congiunta tra Ministero e Regioni  e,  nel
caso di mancata approvazione del piano, un potere sostitutivo in capo
al Ministro. Dalla deroga al meccanismo disegnato dal Codice dei beni
culturali deriverebbe la violazione  dell'art.  117,  secondo  comma,
lettera s), Cost. 
    2.2.- La questione e' fondata. 
    La  disposizione  impugnata   interseca   la   disciplina   sulla
protezione del paesaggio, normativa che, a sua volta, «rispecchia  la
natura  unitaria  del  valore  primario  e  assoluto   dell'ambiente»
(sentenza n. 246 del 2017), di esclusiva spettanza statale  ai  sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Il  bene  ambientale,
infatti, ha una morfologia complessa,  capace  di  ricomprendere  non
solo la tutela di interessi fisico-naturalistici,  ma  anche  i  beni
culturali  e  del  paesaggio  idonei  a  contraddistinguere  in  modo
originale, peculiare e irripetibile  un  certo  ambito  geografico  e
territoriale. 
    2.3.- L'ambiente, come piu' volte affermato da questa Corte, «non
sembra configurabile come sfera di competenza  statale  rigorosamente
circoscritta e delimitata, giacche', al contrario, essa investe e  si
intreccia inestricabilmente con altri interessi e  competenze».  Esso
«delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale  si
manifestano competenze diverse, che  ben  possono  essere  regionali,
spettando allo Stato le determinazioni  che  rispondono  ad  esigenze
meritevoli di disciplina uniforme sull'intero  territorio  nazionale»
(sentenza n. 407 del 2002; nello  stesso  senso,  piu'  recentemente,
sentenze n. 212 del 2017, n. 210 del 2016 e n. 171 del 2012). 
    La  disciplina  statale  volta  a  proteggere  l'ambiente  e   il
paesaggio viene quindi «"a funzionare come un limite alla  disciplina
che le Regioni e le Province autonome dettano  in  altre  materie  di
loro competenza", salva la facolta'  di  queste  ultime  di  adottare
norme di tutela ambientale piu' elevata nell'esercizio di competenze,
previste dalla Costituzione, che concorrano con quella dell'ambiente»
(sentenza n. 199 del 2014; nello stesso senso, sentenze n. 246  e  n.
145 del 2013, n. 67 del 2010, n. 104 del 2008, n. 378 del 2007). Essa
richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio, che si  esplica
in  un'attivita'   pianificatoria   estesa   sull'intero   territorio
nazionale. In tal senso, l'attribuzione allo Stato  della  competenza
esclusiva di tale "materia-obiettivo"  non  implica  una  preclusione
assoluta  all'intervento  regionale,   purche'   questo   sia   volto
all'implementazione del valore ambientale e all'innalzamento dei suoi
livelli di tutela. 
    2.4.- In coerenza con  tali  orientamenti,  il  Codice  dei  beni
culturali  detta  le  coordinate  fondamentali  della  pianificazione
paesaggistica, affidata congiuntamente allo Stato e alle Regioni. 
    In particolare, l'art. 135 del menzionato Codice  stabilisce  che
lo Stato e le Regioni sottopongono a  specifica  normativa  d'uso  il
territorio   mediante    «piani    paesaggistici»,    ovvero    piani
urbanistico-territoriali con considerazione dei valori  paesaggistici
implicati. L'elaborazione di detti piani avviene  congiuntamente  tra
Ministero e Regioni, «limitatamente  ai  beni  paesaggistici  di  cui
all'articolo 143, comma 1, lettere b),  c)  e  d)  [...]».  In  altri
termini, l'elaborazione del piano deve  avvenire  congiuntamente  con
riferimento  agli  immobili  e  alle  aree  dichiarati  di   notevole
interesse  pubblico  ai  sensi  dell'art.  136  (le  c.d.   "bellezze
naturali"), alle aree tutelate  direttamente  dalla  legge  ai  sensi
dell'art. 142 (le  c.d.  "zone  Galasso",  come  territori  costieri,
fiumi, torrenti, parchi) e, infine, agli ulteriori immobili  ed  aree
di notevole interesse pubblico (art. 143, lettera d). 
    2.5.-  La  legislazione  statale  pone  dunque  un   obbligo   di
elaborazione congiunta del piano  paesaggistico;  tale  obbligo,  con
riferimento ai beni vincolati indicati  direttamente  dall'art.  135,
cod.  beni  culturali,  assurge  a   principio   inderogabile   della
legislazione statale, a sua volta riflesso della  «impronta  unitaria
della pianificazione paesaggistica  [...],  tes[a]  a  stabilire  una
metodologia uniforme nel rispetto della legislazione  di  tutela  dei
beni culturali  e  paesaggistici  sull'intero  territorio  nazionale»
(sentenza n. 64 del 2015; nello stesso senso,  sentenze  n.  210  del
2016, n. 197 del 2014, n. 211 del 2013). Come questa  Corte  ha  gia'
affermato, non e' ammissibile la «generale esclusione o la previsione
di una mera partecipazione degli organi ministeriali» in procedimenti
che richiedono la cooperazione congiunta: in tali ipotesi  la  tutela
paesaggistica verrebbe degradata, «da valore unitario prevalente e  a
concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica»
(sentenza n. 64 del 2015). 
    2.6.- Alla luce di tali premesse, deve  ritenersi  che  anche  la
ricognizione dei beni da sottoporre  a  vincoli  paesaggistici  debba
essere realizzata congiuntamente con lo Stato e,  per  esso,  con  il
Ministero per i beni e le  attivita'  culturali,  come  emerge  dalla
lettera del menzionato art. 143, cod. beni culturali, che annovera la
ricognizione dei beni di rilevanza  paesaggistica  tra  le  attivita'
ricomprese nella «elaborazione» del piano. Posto  che  l'elaborazione
deve avvenire, ai sensi dell'art. 136, comma 1, cod. beni  culturali,
«congiuntamente tra Ministero  e  regioni»,  ne  discende  che  anche
l'attivita' ricognitiva deve essere frutto di un percorso  condiviso,
in ogni suo passaggio e in ogni sua fase, da Stato e Regioni. 
    2.7.-  In  tale  direzione  si  muove,  peraltro,  il  Protocollo
d'Intesa del 15 luglio 2009,  finalizzato,  in  attuazione  dell'art.
143,  comma  2,  cod.  beni  culturali,  ad   attribuire   al   piano
territoriale regionale di coordinamento (PTRC) «la qualita' di  piano
urbanistico-territoriale  con  specifica  considerazione  dei  valori
paesaggistici» (art. 1 del Protocollo sottoscritto tra Ministero  per
i beni  e  le  attivita'  culturali  e  la  Regione  del  Veneto,  in
attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 135,  comma  1,  e
143 comma 2, del decreto legislativo 22  gennaio  2004,  n.  42,  per
l'elaborazione congiunta del piano paesaggistico regionale e relativo
disciplinare attuativo). 
    L'accordo, oltre a istituire un comitato tecnico  a  composizione
mista  per  il  coordinamento  e  la  definizione  dell'aggiornamento
paesaggistico del piano,  ha  espressamente  disposto,  all'art.  10,
comma 3, che «le  parti  si  impegnano  sin  d'ora  a  completare  la
ricognizione indicata all'art. 143, comma 1, lettere  b)  e  c),  del
Codice», affidando al predetto comitato  paritetico  la  «definizione
dei contenuti» del piano e il «coordinamento delle azioni  necessarie
alla sua redazione». 
    Di qui il contrasto della disposizione regionale con la normativa
statale,  e  il   conseguente   accoglimento   della   questione   di
legittimita' costituzionale. 
    3.-  Il  Presidente  del  consiglio  dei  ministri  ha   altresi'
impugnato l'art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016.
La disposizione prevede che «[g]li interventi di  manutenzione  degli
alvei, delle opere idrauliche in alveo, delle sponde e  degli  argini
dei  corsi  d'acqua,  compresi  gli  interventi   sulla   vegetazione
ripariale arborea e arbustiva,  finalizzati  a  garantire  il  libero
deflusso delle acque possono  essere  eseguiti  senza  necessita'  di
autorizzazione paesaggistica  ai  sensi  dell'art.  149  del  decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n.  42  [...]  e  della  valutazione  di
incidenza ai sensi del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  8
settembre  1997,  n.  357  "Regolamento  recante   attuazione   della
direttiva  92/43/CEE  relativa  alla  conservazione   degli   habitat
naturali  e  seminaturali,  nonche'  della  flora   e   della   fauna
selvatiche" previa verifica della sussistenza di tali presupposti  ai
sensi delle disposizioni statali e regionali». 
    Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, detta norma  si
porrebbe in contrasto con la disciplina nazionale sull'autorizzazione
paesaggistica, che spetterebbe allo Stato in  virtu'  dell'art.  117,
secondo comma, lettere m) e s), Cost. A suo avviso, le  eccezioni  al
principio dell'autorizzazione paesaggistica, previsto dall'art.  146,
cod. beni culturali, devono essere tassativamente formulate,  in  via
esclusiva, dal legislatore statale. La disposizione reca  invece  una
«formula ampia e indeterminata», che si traduce «nell'abrogazione  in
concreto dell'autorizzazione per una  intera  classe  di  interventi,
identificati soltanto in base al loro presunto fine». 
    3.1.- La  questione  e'  fondata  in  riferimento  all'art.  117,
secondo comma, lett. s), Cost. 
    La disposizione censurata si pone in contrasto  con  i  principi,
enunciati da questa Corte, secondo i quali «la legislazione regionale
non puo' prevedere una procedura per  l'autorizzazione  paesaggistica
diversa da quella dettata dalla legislazione  statale,  perche'  alle
Regioni  non  e'  consentito  introdurre  deroghe  agli  istituti  di
protezione ambientale che dettano una disciplina  uniforme,  valevole
su  tutto  il  territorio  nazionale,  nel  cui  ambito  deve  essere
annoverata l'autorizzazione paesaggistica» (sentenze n. 189 del  2016
e n. 235 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 238 del  2013,  n.
101 del 2010 e n. 232 del 2008). 
    La   norma   regionale    esonera    determinati    provvedimenti
dall'autorizzazione paesaggistica richiesta dall'art. 146, cod.  beni
culturali. In particolare, la normativa statale indica, all'art.  149
di detto Codice, alcune  categorie  di  interventi  per  cui  non  e'
richiesta l'autorizzazione paesaggistica, ma tra queste non rientrano
le attivita' indicate dall'impugnato comma 1 dell'art. 68. 
    3.2.1.- Va ricordato,  inoltre,  che  l'art.  25,  comma  2,  del
decreto-legge  12  settembre  2014,  n.  133  (Misure   urgenti   per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere  pubbliche,  la
digitalizzazione   del   Paese,   la   semplificazione   burocratica,
l'emergenza  del  dissesto  idrogeologico  e  per  la  ripresa  delle
attivita' produttive), convertito, con modificazioni, nella legge  11
novembre  2014,  n.  164,  ha   affidato   ad   un   regolamento   di
delegificazione l'individuazione delle «tipologie di interventi per i
quali l'autorizzazione  paesaggistica  non  e'  richiesta,  ai  sensi
dell'articolo  149  del  medesimo  Codice  dei  beni  culturali,  sia
nell'ambito  degli  interventi  di  lieve   entita'   gia'   compresi
nell'allegato 1 al suddetto  regolamento  di  cui  all'articolo  146,
comma  9,  quarto  periodo,  cod.  beni   culturali,   sia   mediante
definizione  di  ulteriori  interventi  minori  privi  di   rilevanza
paesaggistica». 
    Tale regolamento, emanato nelle more  del  presente  giudizio  di
legittimita' costituzionale, successivamente  all'entrata  in  vigore
delle norme impugnate (decreto del  Presidente  della  Repubblica  13
febbraio 2017, n. 31, intitolato «Regolamento recante  individuazione
degli  interventi   esclusi   dall'autorizzazione   paesaggistica   o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata»),  ha  stabilito,
per  una   serie   di   interventi,   l'esonero   dall'autorizzazione
paesaggistica. 
    Tra questi, l'Allegato A del d.P.R. n. 31 del 2017, come  riporta
anche la  Regione  resistente,  ha  individuato  gli  «interventi  di
manutenzione degli alvei, delle  sponde  e  degli  argini  dei  corsi
d'acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale  arborea
e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque e
che non comportino alterazioni  permanenti  della  visione  d'insieme
della morfologia del corso d'acqua». 
    3.2.2.-  Emerge  chiaramente,  tuttavia,  come   la   classe   di
interventi indicati dall'allegato non sia identica a quella  prevista
dalla norma regionale: essa infatti non menziona le opere  idrauliche
in  alveo  (richiamate  invece  dalla   disposizione   regionale)   e
condiziona l'esenzione dall'autorizzazione paesaggistica all'«assenza
di alterazioni permanenti della visione  d'insieme  della  morfologia
del corso d'acqua». La norma regionale ha, quindi, una  portata  piu'
ampia  della  regolamentazione  statale,  sia  quanto  al   tipo   di
interventi esonerati (le «opere idrauliche  in  alveo»),  sia  quanto
alle condizioni che devono sussistere per  l'esonero  (la  necessita'
che gli interventi di manutenzione non alterino la «visione d'insieme
della morfologia del corso  d'acqua»).  Le  competenze  regionali  in
materia di difesa del suolo possono rendere opportuni taluni esoneri,
ma essi devono essere realizzati sulla base della normativa  statale,
se del caso a seguito di concertazione con la Regione. 
    3.3.-  Anche  a  volere  ritenere,  come  prospetta   la   difesa
regionale,  coincidenti  le  due  tipologie  di  interventi   (quella
regionale e quella statale sopravvenuta), vi e' da considerare che la
norma regionale  avrebbe  prodotto,  seppure  per  un  limitato  arco
temporale, un abbassamento degli standard di tutela ambientale, cosi'
contravvenendo alla ripartizione costituzionale delle competenze.  Ai
fini della declaratoria di  illegittimita'  costituzionale,  infatti,
cio' che  rileva  e'  l'intervento  peggiorativo,  in  deroga,  della
Regione nell'ambito riservato  all'esclusiva  competenza  statale  in
materia ambientale. 
    Di   qui   l'accoglimento   della   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto  n.  30
del 2016, per violazione dell'art. 117, secondo  comma,  lettera  s),
Cost. 
    Restano assorbite le ulteriori censure avanzate  con  riferimento
all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. 
    4.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   altresi'
impugnato i commi 2, 4 e 5 dell'art. 95  della  legge  della  Regione
Veneto n. 30 del 2016, rubricato «Prime disposizioni  in  materia  di
pianificazione regionale delle attivita' di cava». 
    Tale articolo detta una serie di prescrizioni in materia di cave,
finalizzate  alla  valorizzazione   delle   risorse   regionali   non
riutilizzabili, alla riduzione del consumo di suolo, alla tutela  del
lavoro e  delle  imprese  del  settore  estrattivo  e  alla  migliore
gestione dei materiali inerti nel corso della realizzazione di  opere
pubbliche e di pubblica utilita' (comma 1 dell'art. 95). 
    4.1.- In via preliminare,  e'  necessario  identificare  l'ambito
materiale sul quale incide la disposizione impugnata. 
    Essa si inserisce in un ampio intervento, realizzato dalla  legge
regionale  censurata,  in  materia  di  pianificazione   e   gestione
dell'attivita' di cava. 
    La disciplina generale di  tali  attivita'  si  trova  nel  regio
decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere  legislativo  per
disciplinare la ricerca e la coltivazione delle  miniere  nel  Regno)
che, in considerazione della situazione esistente alla data della sua
emanazione,  era  volto   a   favorire   lo   sviluppo   edilizio   e
infrastrutturale di un Paese in larga parte ancora rurale e, percio',
meno  attento  ai  valori  ambientali   e   paesaggistici   implicati
nell'attivita' estrattiva. 
    Il r.d. n. 1443 del 1927, accanto  agli  artt.  826  ed  840  del
codice civile, identifica i principi generali  di  una  materia  che,
anteriormente alla  riforma  del  Titolo  V,  della  Parte  II  della
Costituzione, spettava alla  competenza  concorrente  dello  Stato  e
delle Regioni. Queste ultime potevano intervenire a  disciplinare  le
attivita' estrattive, mancando specifiche  leggi-quadro,  sulla  base
dei principi desumibili dalle vigenti norme  statali.  Il  cosiddetto
"primo trasferimento di funzioni amministrative" (art. 1 del  decreto
del Presidente della  Repubblica  12  gennaio  1972,  n.  2,  recante
«Trasferimento  alle  Regioni  a  statuto  ordinario  delle  funzioni
amministrative statali in materia di acque  minerali  e  termali,  di
cave e torbiere e di artigianato e del relativo personale») conferi',
alle  Regioni  a  statuto  ordinario,  le   funzioni   amministrative
esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in  materia
di cave  e  torbiere,  conferimento  poi  completato  dal  cosiddetto
"secondo trasferimento" (art. 62 del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione  della  delega
di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382»). 
    4.2.- In tale  contesto,  questa  Corte  ha  ammesso  «interventi
regionali   legislativi   (e   percio'   amministrativi),   regolanti
l'attivita' estrattiva e trascendenti il  quadro  della  legislazione
nazionale fino allora vigente» (sentenza n. 7 del 1982; nello  stesso
senso, sentenze n. 488 del 1995 e n. 499 del 1988),  incentrati,  tra
l'altro,    nella    generale     regolamentazione     dell'esercizio
dell'attivita' estrattiva  previa  (secondo  il  regime  proprietario
riconosciuto alle stesse) concessione o autorizzazione. 
    Con la riforma  del  Titolo  V  della  Costituzione,  la  mancata
menzione della materia «cave e torbiere» nei cataloghi del  novellato
art. 117 Cost., ne ha imposto la riconduzione - affermata dalla Corte
- alla competenza residuale delle Regioni (sentenze n. 210 del 2016 e
n. 246 del 2013). 
    4.3.- La legge regionale, in parte qua, afferisce, dunque, a  una
materia  riconducibile  alla  competenza  residuale  delle   Regioni,
attenendo all'esercizio dei poteri pianificatori in materia di  cave.
Si tratta dunque di verificare, tramite un'analisi condotta alla luce
dell'oggetto e della ratio  delle  singole  disposizioni,  se  queste
siano eccedenti rispetto all'oggetto  e  alla  finalita'  complessiva
della normativa, invadendo la competenza legislativa statale e  cosi'
infrangendo  i  livelli  di   tutela   ambientale   e   paesaggistici
individuati dallo Stato. 
    L'attivita' di cava, infatti, puo' essere regolata dalle Regioni,
fatto salvo il rispetto degli  standard  ambientali  e  paesaggistici
fissati dalle leggi statali.  Questa  Corte,  anche  di  recente,  ha
ricordato «come la competenza esclusiva statale in materia di  tutela
dell'ambiente si debba confrontare con  la  competenza  regionale  in
materia di cave, senza che cio', pero', possa importare alcuna deroga
rispetto a quanto gia' affermato [...]  in  ordine  ai  principi  che
governano la tutela dell'ambiente» (sentenza n. 210 del  2016;  nello
stesso senso, sentenze n. 199  del  2014  e  n.  246  del  2013).  La
competenza residuale in materia di cave si allarga  o  si  restringe,
quindi, a seconda dell'implicazione dei livelli di tutela ambientale,
di norma cristallizzati in specifiche discipline statali. 
    5.-  Posta  tale  premessa,  viene  in  rilievo,  anzitutto,   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 95, comma 2, della
legge  reg.  Veneto  n.  30  del  2016,  il  quale  consente,  previa
autorizzazione della struttura regionale  competente  in  materia  di
attivita' estrattive, «lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave non
estinte, di  materiali  da  scavo  costituti  da  sabbie  e  ghiaie»,
proveniente dalla realizzazione di  opere  pubbliche  e  di  pubblica
utilita', con almeno 500.000 metri cubi di materiale di  risulta.  Il
trattamento  del  materiale  inerte  e'  consentito  purche':  a)   i
materiali siano qualificabili  come  sottoprodotti  «ai  sensi  della
vigente normativa» e b) i materiali siano equiparabili per  tipologia
al materiale costituente il giacimento coltivato nella cava. La norma
censurata consente, quindi, il recupero e la lavorazione di materiale
inerte (sabbia e  ghiaia),  purche'  questo  sia  qualificabile  come
sottoprodotto ai sensi della normativa vigente  e  il  materiale  sia
della medesima natura di quello coltivato in cava. 
    5.1.- Ad avviso del Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  la
disposizione  inciderebbe  sulla  disciplina  del   trattamento   dei
sottoprodotti prevista dagli artt.  183,  comma  1,  lettera  qq),  e
184-bis del decreto legislativo 3  aprile  2006,  n.  152  (Norme  in
materia ambientale), rientrante nella competenza esclusiva statale in
materia di ambiente ai sensi dell'art. 117,  comma  secondo,  lettera
s), Cost. Lo smaltimento delle rocce da scavo apparterrebbe, infatti,
alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ambiente, secondo
quanto avrebbe affermato questa  Corte  in  plurime  occasioni  (sono
richiamate le sentenze n. 232 del 2014, n. 70 del 2014,  n.  300  del
2013). 
    La disciplina regionale, secondo la  difesa  statale,  violerebbe
l'art. 117, secondo comma, lettera s),  Cost.,  allorche',  sul  solo
presupposto che provenga da cantieri di opere pubbliche, il materiale
sia classificabile come sottoprodotto e non come rifiuto. Inoltre, la
disposizione si porrebbe in contrasto con  il  decreto  del  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio  e  del  mare  10  agosto
2012, n. 161 (Regolamento recante  la  disciplina  dell'utilizzazione
delle terre e rocce da scavo), il quale prevede che i materiali e  le
rocce da scavo debbano essere estratti e utilizzati esclusivamente in
attuazione di un apposito piano di utilizzo (art. 5). 
    5.2.- La questione, concernente il richiamato art. 95,  comma  2,
non e' fondata. 
    Questa Corte - e' ben vero - ha  piu'  volte  affermato  che  «la
disciplina delle procedure per lo smaltimento delle rocce e terre  da
scavo attiene al trattamento dei residui di produzione ed e'  percio'
da ascriversi alla "tutela dell'ambiente" affidata in  via  esclusiva
alle competenze dello Stato, affinche'  siano  garantiti  livelli  di
tutela uniformi su tutto il territorio nazionale»  (sentenze  n.  269
del 2014, n. 232 del 2014; nello stesso senso,  sentenze  n.  70  del
2014  e  n.  300  del   2013).   Inoltre,   sono   state   dichiarate
costituzionalmente   illegittime   norme   che    incidevano    sulla
qualificazione,  a  fini  ambientali,  di  terre  e  rocce  da  scavo
(sentenze n. 315 del 2009 e n. 62 del 2008). 
    Tale  ambito  e',  infatti,  puntualmente  regolato   a   livello
nazionale: in coerenza con  la  normativa  comunitaria,  il  comma  1
dell'art. 184-bis, cod. ambiente, stabilisce i criteri  generali  per
distinguere i sottoprodotti dai rifiuti, mentre il secondo  comma  di
detto articolo rinvia a un decreto ministeriale  la  definizione  «di
criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinche' specifiche
tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non
rifiuti». Sulla scorta di tale disposizione e' stato emanato il  d.m.
n. 161 del 2012, evocato anche dalla difesa statale,  sostituito  dal
decreto del Presidente  della  Repubblica  13  giugno  2017,  n.  120
(Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione  delle
terre e rocce da scavo, ai sensi dell'articolo 8 del decreto-legge 12
settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11
novembre  2014,  n.  164),  che  integra  e  specifica  la   indicata
disciplina di rango legislativo. 
    La disposizione regionale qui in esame, tuttavia, non  incide  in
alcun  modo  sulla  normativa   statale,   di   diretta   derivazione
comunitaria  (Direttiva  2008/98/CE  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio, n. 98 del 19 novembre 2008,  relativa  ai  rifiuti  e  che
abroga alcune direttive), in tema di  smaltimento  di  rifiuti  o  di
qualificazione   del   materiale   inerte,    presupponendone    anzi
l'applicazione. 
    La  norma  censurata  prevede  piuttosto   la   possibilita'   di
riutilizzare  materiale   inerte   -   peraltro   proveniente   dalla
realizzazione di opere pubbliche - purche' questo  sia  qualificabile
come «sottoprodotto» alla stregua della normativa vigente  e  purche'
il luogo di conferimento sia ordinariamente adibito all'estrazione di
materiali aventi analoghe caratteristiche. 
    La presenza di quest'ultimo requisito, in particolare, evita  che
la norma censurata si  ponga  in  contrasto  con  la  disciplina  del
cosiddetto deposito intermedio delle terre e rocce da scavo  previsto
dall'art. 5 del d.P.R. n. 120 del 2017. 
    5.3.- La disposizione impugnata non si sovrappone alla  normativa
statale,  posto  che  l'attivita'  di  stoccaggio  e  lavorazione  e'
condizionata alla qualificazione quale «sottoprodotto» del  materiale
inerte, alla stregua della normativa  vigente.  La  norma  censurata,
tramite il riferimento alla «normativa vigente», dispone,  piuttosto,
un rinvio alla fonte statale in materia di sottoprodotti,  nel  senso
che sara' possibile riutilizzare il materiale da scavo  solo  laddove
siano rispettate le  stringenti  condizioni  poste  dalla  disciplina
statale. 
    La normativa de qua, quindi, non pregiudica i livelli  di  tutela
ambientale implicati nella regolazione uniforme dei sottoprodotti. 
    D'altronde, in un caso analogo,  questa  Corte  ha  ritenuto  non
costituzionalmente illegittima una normativa della Provincia autonoma
di Bolzano che consentiva la lavorazione nelle aree estrattive dotate
«di materiali inerti provenienti anche da  altre  cave,  sbancamenti,
scavi, gallerie, fiumi,  torrenti,  rii  o  zone  colpite  da  eventi
naturali eccezionali ubicati ad  una  distanza  non  superiore  a  15
chilometri dall'impianto». La norma,  non  contenendo  «espressamente
alcuna definizione di rifiuto, ne'  alcuna  esplicita  qualificazione
dei materiali inerti di cui si consente la lavorazione», non incideva
«sul  regime  dei  predetti  materiali,  tantomeno  [conteneva]   una
presunzione  assoluta  circa  la  configurazione  dei  medesimi  come
sottoprodotti»  (sentenza  n.  345  del  2010).  La  disposizione  si
limitava «ad individuare le lavorazioni che possono essere effettuate
presso  le  aree  estrattive  dotate  di  impianti  autorizzati  alla
coltivazione delle cave,  rinviando,  per  la  qualificazione  e  per
l'individuazione  del  regime  al  quale  i  materiali   oggetto   di
lavorazione  devono  essere  sottoposti,  alle  norme   statali,   in
particolare alle norme del Codice dell'ambiente (d.lgs.  n.  152  del
2006), che hanno recepito la  normativa  comunitaria,  in  specie  la
direttiva 2006/12/CE» (sentenza n. 345 del 2010). 
    Di qui il rigetto delle censure prospettate dal ricorrente. 
    6.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha poi  impugnato  i
commi 4 e 5 dell'art. 95 della legge della  reg.  Veneto  n.  30  del
2016. 
    6.1.- Il richiamato comma 4 dispone che «[p]er un periodo di nove
(9) anni non puo' essere autorizzata  l'apertura  di  nuove  cave  di
sabbia e ghiaia». 
    Ad avviso del ricorrente,  la  norma  impedirebbe  l'espletamento
delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA),  previste
dal Codice dell'ambiente. A conforto della censura e'  richiamata  la
giurisprudenza costituzionale che ha ricondotto la  disciplina  della
VIA  alla  competenza  esclusiva  statale  in  materia  di   ambiente
(sentenza  n.  199  del  2014)  ed  ha  dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale di norme regionali che disponevano  dell'efficacia  di
titoli minerari in assenza di procedure  di  valutazione  di  impatto
ambientale (sentenze n. 246 del 2013 e n. 67 del 2010). 
    La disposizione sarebbe  lesiva  dell'art.  117,  secondo  comma,
lettera s), Cost. e violerebbe anche gli  artt.  3  e  41  Cost.,  in
quanto prevederebbe un limite irragionevole e non proporzionato  alla
iniziativa economica privata. 
    6.2.- Il comma 5 del censurato art. 95 consente  ampliamenti,  da
sottoporre a VIA (di cui al comma  9,  non  impugnato),  di  cave  di
sabbia e ghiaia situate nelle  Province  di  Verona  e  Vicenza  «non
ancora integralmente estinte», purche' ricorrano  alcune  condizioni,
elencate alle lettere da a) ad e) del medesimo comma. 
    La difesa erariale si sofferma, in particolare, sulle  condizioni
previste dalla lettera a) («l'impresa  richiedente  sia  titolare  di
autorizzazioni di cava per sabbia e ghiaia che,  nel  complesso,  non
presentino un volume residuo estraibile superiore  a  cinquecentomila
metri cubi») e dalla lettera d) (i volumi autorizzati in  ampliamento
non devono superare «complessivamente 8,5 milioni di metri cubi cosi'
suddivisi:  4,5  milioni  di  metri  cubi  per  il  territorio  della
provincia di Verona e 4 milioni di metri cubi per il territorio della
provincia di  Vicenza».  Tali  previsioni  «[...]  sono  novennali  e
soggette a revisione almeno ogni tre anni e comunque  ogni  qualvolta
se ne determini la necessita'»). 
    Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  afferma  che  tale
disposizione contrasterebbe con le competenze  esclusive  statali  in
materia di tutela  della  concorrenza,  richiamando  a  tal  fine  la
nozione di concorrenza accolta  dalla  giurisprudenza  costituzionale
(sono citate le sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n.
430 e n. 401 del 2007) e prospettando una violazione  dell'art.  117,
secondo comma, lettera e), Cost. 
    Il ricorrente si sofferma, altresi', sulla denunciata  violazione
dell'art. 117, secondo  comma,  lettera  s),  Cost.,  sostenendo  che
l'ambiente puo' essere salvaguardato  solo  attraverso  una  gestione
pianificata  delle  risorse  ambientali,   «non   attraverso   rigide
predeterminazioni legislative delle modalita' di gestione  [...]  non
precedute  da  specifica  istruttoria  e  non  modificabili  se   non
attraverso un nuovo iter legislativo». 
    7.- In riferimento a  tale  parametro,  le  questioni  aventi  ad
oggetto i commi 4 e 5 dell'art. 95 della legge reg. Veneto n. 30  del
2016 devono essere esaminate congiuntamente, poiche' le  disposizioni
sono strettamente connesse. Il divieto  di  aperture  di  nuove  cave
trova,  infatti,  un  necessario  contemperamento  nella  scelta   di
consentire l'ampliamento delle cave  esistenti  in  alcuni  territori
provinciali. 
    7.1.- Questa Corte, avendo la facolta' di decidere l'ordine delle
censure da affrontare (sentenze n. 212 del 2017, n. 157 del 2017,  n.
107 del 2017 e n. 98 del 2013), ritiene di esaminare prioritariamente
le questioni di legittimita' costituzionale  sollevate  in  relazione
all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 
    Le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 95, commi 4
e 5, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, sono fondate. 
    L'art. 95, al  comma  4,  vieta  l'apertura  di  nuove  cave  sul
territorio regionale  per  un  periodo  di  nove  anni;  al  comma  5
consente, entro certi limiti, l'ampliamento delle cave  esistenti  in
determinati territori provinciali. Il legislatore regionale ha  cosi'
tentato di conciliare plurimi interessi meritevoli di protezione: per
un verso, il divieto di  nuove  cave  evita  l'eccessivo  consumo  di
suolo, cosi' tutelando l'integrita' paesaggistica del territorio; per
altro verso, l'ampliamento delle  attivita'  estrattive  promuove  il
reperimento dei materiali inerti  necessari  per  lo  svolgimento  di
determinate attivita' produttive. 
    Il bilanciamento di questi due interessi spetta  senz'altro  alla
discrezionalita'  della  Regione;  come  si  avra'  subito  modo   di
chiarire, tuttavia, non e'  l'esito  del  bilanciamento  che  e'  qui
censurato, bensi' lo strumento normativo prescelto. 
    7.2.- Con le norme in esame,  la  Regione  Veneto  ha  esercitato
proprie funzioni in materia di attivita'  estrattiva,  funzioni  gia'
disciplinate, in via generale, dalla legge  della  Regione  Veneto  7
settembre 1982, n. 44 (Norme  per  la  disciplina  dell'attivita'  di
cava). Tale  normativa  non  solo  ha  classificato  i  materiali  da
estrarre  sulla  base  dell'impatto  paesaggistico-territoriale   dei
relativi luoghi di coltivazione, annoverando la sabbia  e  la  ghiaia
tra i materiali che comportano «un elevato grado di utilizzazione del
territorio» (art. 3), ma ha anche individuato gli appositi  strumenti
di pianificazione  (art.  4),  i  soggetti  preposti  ai  compiti  di
amministrazione attiva  con  i  relativi  procedimenti  autorizzatori
(artt. 16 e  seguenti),  gli  specifici  obblighi  di  ricomposizione
paesaggistica  gravanti  sui  titolari  delle  attivita'  (art.  14),
nonche' i titolari dell'attivita' sanzionatoria e di vigilanza (artt.
28 e seguenti). 
    Tra gli strumenti di pianificazione, un compito centrale e' stato
affidato al «Piano regionale  dell'attivita'  di  cava  (Prac)»,  che
dovrebbe rappresentare l'atto di  programmazione  e  indirizzo  delle
attivita' estrattive nel territorio regionale; in forza di tale atto,
le Province venete avrebbero  dovuto  dotarsi  di  apposti  piani  di
attuazione e specificazione del Prac. 
    7.3.- Tale  piano,  da  adottare  all'esito  di  un  procedimento
composito, contraddistinto dalla  proposta  della  Giunta  regionale,
dalla  partecipazione  degli   enti   locali   e   dalla   definitiva
approvazione del Consiglio regionale, non ha pero' mai visto la luce,
nonostante svariati tentativi. La mancata approvazione  del  Prac  ha
prolungato l'applicazione del regime transitorio previsto dagli artt.
43 e 44 della legge reg. Veneto n.  44  del  1982,  che,  nelle  more
dell'approvazione  del  piano,  individua  nella   Giunta   regionale
l'organo competente a rilasciare le autorizzazioni o  le  concessioni
relative all'attivita' di cava sulla base di  una  serie  di  criteri
indicati dall'art. 44 della medesima legge regionale. Tra questi, per
quanto  attiene  alla  sabbia  e  alla  ghiaia,  vengono  indicati  i
territori comunali ove e' possibile autorizzare l'apertura  di  nuove
cave o l'ampliamento di cave gia' esistenti (art. 44, lettere a e  b)
e il limite massimo di quantitativo estraibile annualmente (art.  44,
lettera e, ed allegato 3). 
    7.4.- Le disposizioni censurate  tentano,  dunque,  di  sopperire
all'indefinita   provvisorieta'   e   alla   mancata   pianificazione
amministrativa delle attivita' estrattive nel territorio regionale. 
    Questa Corte ha in piu' occasioni ribadito che non puo' ritenersi
preclusa alla legge, anche regionale,  la  possibilita'  di  attrarre
nella propria sfera oggetti o materie normalmente affidate all'azione
amministrativa pur dovendo soggiacere ad  uno  scrutinio  stretto  di
costituzionalita' (da ultimo sentenze n. 114 del  2017,  n.  231  del
2014 e n. 85 del 2013). Tuttavia, nel caso di specie l'autorizzazione
all'ampliamento in forma di legge, e dunque  l'attrazione  a  livello
legislativo della funzione amministrativa, incide su procedimenti  di
piano che intrecciano  strettamente  competenze  statali  (la  tutela
ambientale  e  la  pianificazione  paesaggistica)  e  regionali   (la
disciplina  delle  cave  e  delle  torbiere).  L'ampliamento  in  via
legislativa  delle  attivita'   estrattive,   infatti,   rischia   di
travolgere gli  atti  di  pianificazione  territoriale  eventualmente
incompatibili  con  il  dettato  legislativo,  cosi'  generando   una
automatica prevalenza delle  esigenze  legate  all'approvvigionamento
del materiale inerte sulle istanze di protezione  paesaggistica,  che
pure la Costituzione annovera tra i suoi principi fondamentali  (art.
9, secondo comma, Cost.). 
    Come argomentato dalla difesa statale, nella materia delle  cave,
di competenza residuale regionale ma strettamente legata alla  tutela
paesaggistica e ambientale, non e' possibile agire «attraverso rigide
predeterminazioni legislative delle modalita' di [...] gestione [...]
non precedute da specifica istruttoria  e  non  modificabili  se  non
attraverso un nuovo iter legislativo». Risulta, infatti, coerente con
i vincoli paesaggistici posti dalla  legislazione  statale  procedere
mediante gli strumenti propri  della  pianificazione  amministrativa,
sia essa assimilabile alla pianificazione strettamente  paesaggistica
o a quella urbanistico-territoriale (art. 135, cod. beni  culturali),
volti a  coordinare  le  attivita'  sul  territorio  secondo  criteri
descrittivi, prescrittivi e propositivi fra loro coerenti. 
    Non e' un caso, peraltro, che l'art.  145,  comma  2,  cod.  beni
culturali, stabilisca che [i] piani paesaggistici  possono  prevedere
misure  di  coordinamento  con  gli   strumenti   di   pianificazione
territoriale   [...]».   Tale   generale   previsione   ha    trovato
specificazione, nella  Regione  Veneto,  con  la  variante  al  piano
territoriale di coordinamento, approvata dalla Giunta  regionale  nel
2013, la  quale  affida  al  (mai  adottato)  piano  regionale  delle
attivita' di cava il  compito  di  conciliare  la  «promozione  e  la
valorizzazione del patrimonio  minerario»,  con  le  «esigenze  della
programmazione economica e di tutela del  territorio,  dell'ambiente»
(allegato B4 della deliberazione della Giunta della Regione Veneto 10
aprile 2013, n. 427). 
    La  mancata  adozione  del  piano  sulle  attivita'  di  cava   -
nonostante i diversi tentativi di approvazione portati  avanti  dalla
Giunta, da ultimo con la deliberazione 4 novembre del 2013,  n.  2015
-,  individuato  come  strumento  di  pianificazione   dallo   stesso
legislatore regionale (art. 7, della legge reg.  Veneto,  n.  44  del
1982), impedisce una modulazione dell'ampliamento delle attivita'  di
cava coerente con la necessita' di mantenere inalterati gli  standard
di tutela paesaggistico-ambientale. 
    La Regione  e'  intervenuta  con  legge  laddove  avrebbe  dovuto
operare con  atti  di  pianificazione,  da  adottarsi  a  seguito  di
un'adeguata istruttoria  e  di  un  giusto  procedimento,  aperto  al
coinvolgimento  degli  enti  territoriali  e  dei  soggetti   privati
interessati e preordinato  alla  valutazione  e  alla  sintesi  delle
plurime istanze coinvolte (statali,  locali,  private).  Come  questa
Corte ha gia' affermato, peraltro in  relazione  all'adozione  di  un
piano paesistico, al legislatore spetta, di regola, «enunciare  delle
ipotesi  astratte,  predisponendo  un   procedimento   amministrativo
attraverso il quale gli organi competenti provvedano [...] dopo avere
fatto gli opportuni accertamenti, con la collaborazione, ove occorra,
di altri organi pubblici, e dopo avere messo i privati interessati in
condizioni di esporre le proprie ragioni sia  a  tutela  del  proprio
interesse, sia a titolo di  collaborazione  nell'interesse  pubblico»
(sentenza n. 13 del 1962;  piu'  recentemente,  nello  stesso  senso,
sentenze n. 71 del 2015 e n. 143 del 1989). 
    E' all'esito del  procedimento,  infatti,  che  l'amministrazione
realizza  la  ponderazione  degli  interessi  emersi  nella  sequenza
procedimentale, in vista del  perseguimento  del  primario  interesse
pubblico, in coerenza con il principio di  imparzialita'  dell'azione
amministrativa di cui all'art. 97, secondo comma, Cost. 
    L'assenza di una generale pianificazione dell'attivita'  di  cava
non puo' essere surrogata  dalla  sottoposizione  alla  procedura  di
valutazione di impatto ambientale degli  interventi  in  ampliamento,
come pure previsto dal comma 9 dell'art. 95, della legge reg.  Veneto
n. 30 del 2016, e come sostenuto, a  difesa  della  legge  impugnata,
dalla Regione resistente. Il provvedimento autorizzatorio,  emesso  a
seguito  di  valutazione  di  impatto  ambientale,  ha  una   portata
specifica, valevole per il singolo intervento localmente situato e di
portata necessariamente circoscritta, non in grado, quindi, di tenere
in considerazione l'assetto complessivo e l'equilibrio  generale  del
territorio, che solo l'attivita' di pianificazione e'  in  condizione
di assicurare. 
    7.5.- Tali considerazioni sono ancora piu' pregnanti se si  tiene
conto che l'ampliamento riguarda  solo  alcune  zone  del  territorio
regionale, corrispondenti alle Province di Verona  e  Vicenza,  e  si
allontana  da  alcuni  limiti  previsti  dalla  proposta  del   piano
regionale delle attivita' di cava adottata dalla Giunta (relativi  in
particolare, al volume residuo da estrarre, non superiore al  15  per
cento, alla profondita' massima di cava, alle distanze con la falda e
a determinate  zone  commerciali,  industriali  o  ad  urbanizzazione
diffusa). 
    Inoltre, detto  ampliamento  si  discosta  da  alcune  previgenti
disposizioni legislative introdotte  nell'ordinamento  regionale  per
assicurare l'integrita' paesaggistica del territorio. Come stabilisce
espressamente il comma 8 dell'art. 95, della legge reg. Veneto n.  30
del 2016, la norma impugnata deroga, per le cave di ghiaia, non  solo
al limite di  utilizzo  del  3  per  cento  del  territorio  agricolo
comunale di cui all'art. 34,  comma  2,  della  legge  della  Regione
Veneto 28 gennaio 2000, n.  5,  recante  «Provvedimento  generale  di
rifinanziamento e di modifica di leggi regionali  per  la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale della Regione  (legge  finanziaria
2000)», ma, per le cave situate  nel  territorio  di  alcuni  Comuni,
anche alle soglie quantitative massime del  30  per  cento  oltre  al
volume gia' autorizzato (Comuni elencati all'allegato B  della  legge
reg. Veneto n. 44 del 1982). Il  menzionato  comma  8,  dell'art.  95
della censurata legge regionale, deroga altresi' ai limiti (art.  44,
comma 1, lettera d, della legge reg.  Veneto  n.  44  del  1982),  di
distanza minima dalle zone cosiddette omogenee di cui al decreto  del
Ministro  dei  lavori  pubblici  2  aprile  1968,  n.  1444   (Limiti
inderogabili di densita' edilizia, di  altezza,  di  distanza  fra  i
fabbricati  e  rapporti  massimi  tra  gli   spazi   destinati   agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici  o  riservati
alle attivita'  collettive,  al  verde  pubblico  o  a  parcheggi  da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici  o
della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della L. 6
agosto 1967, n. 765). 
    Spetta senz'altro alla discrezionalita' politica del  legislatore
regionale stabilire (o  aggiornare)  la  disciplina  delle  attivita'
estrattive   nel    territorio    regionale;    non    e'    tuttavia
costituzionalmente legittimo che, posta  una  disciplina  legislativa
generale in una materia strettamente legata  a  competenze  esclusive
dello Stato,  la  Regione  intervenga  con  una  legge  di  contenuto
particolare,  rendendo  cosi'  inoperanti  le  garanzie  proprie  del
procedimento  amministrativo,  strumentali,  nel  caso   di   specie,
all'inveramento dei valori  paesaggistici  e  ambientali  interessati
dall'attivita' di cava. 
    Restano assorbite le censure proposte in riferimento  agli  artt.
3, 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost.