ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma
3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di assise  di
Torino nel procedimento penale a carico di A. M., con  ordinanza  del
18 novembre 2019, iscritta al n. 27 del  registro  ordinanze  2020  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  9,  prima
serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  A.  M.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'8  luglio  2020  il   giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi gli  avvocati  Caterina  Calia  e  Flavio  Rossi  Albertini
Tiranni per A. M. e l'avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per  il
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 14 luglio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 novembre 2019  la  Corte  di  assise  di
Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo  comma  e
27, secondo comma,  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art.  275,  comma  3,  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui - nel  prevedere  che,  quando  sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine al  delitto  di  cui  all'art.
270-bis del codice penale, e'  applicata  la  custodia  cautelare  in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano  essere
soddisfatte con altre misure meno afflittive. 
    1.1.- La Corte rimettente e' investita di una richiesta di revoca
o attenuazione della  misura  della  custodia  cautelare  in  carcere
attualmente in essere nei confronti di un  imputato  gia'  condannato
dalla medesima Corte, con sentenza del 24 aprile 2019, alla  pena  di
cinque anni  di  reclusione  per  il  delitto  di  partecipazione  ad
un'associazione con finalita' di terrorismo anche internazionale o di
eversione dell'ordine democratico di cui  all'art.  270-bis,  secondo
comma, cod. pen., e  in  particolare  ad  un'associazione  di  stampo
anarchico. 
    Espone il giudice a quo  che,  al  momento  della  richiesta,  il
condannato si  trovava  da  oltre  tre  anni  in  stato  di  custodia
cautelare; che il  suo  ruolo  nell'associazione,  come  riconosciuto
nella sentenza di condanna, era stato di mero ausilio  rispetto  agli
altri associati;  e  che  non  sussistono  allo  stato  elementi  che
consentano di ritenere ancora in  vita  e  operativa  l'associazione,
anche in relazione all'avvenuta individuazione e all'attuale stato di
detenzione degli altri membri del sodalizio. 
    La Corte rimettente ritiene, tuttavia, di non potere  allo  stato
escludere  totalmente  una  residua  pericolosita'  sociale  di   «un
soggetto che ha manifestato una piena, risalente e convinta  adesione
al progetto anarchico insurrezionalista», bensi' di  poter  formulare
soltanto un giudizio di attenuazione delle esigenze di  tutela  poste
alla base dell'originario provvedimento  restrittivo  della  liberta'
personale; esigenze che  al  momento  della  richiesta  dell'imputato
avrebbero reso «perfettamente e congrua [...] la misura degli arresti
domiciliari». 
    La  concessione  di  tale  misura  e'  tuttavia  preclusa   dalla
disposizione  censurata,  che  -  laddove  siano  comunque   ritenute
sussistenti, come nella specie, le  esigenze  cautelari  -  pone  una
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare  in
carcere nei confronti, tra gli altri, degli imputati per  il  delitto
di cui all'art. 270-bis cod. pen.; donde la rilevanza delle questioni
prospettate. 
    1.2.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  la  rimettente
invoca i numerosi precedenti con i quali questa Corte  ha  dichiarato
costituzionalmente  illegittime  analoghe  presunzioni  assolute   di
adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione a  varie
figure di reato, anche di natura associativa, sia pure  sottolineando
sempre come tale presunzione  trovi  giustificazione,  dal  punto  di
vista dei principi costituzionali, in relazione  all'associazione  di
tipo  mafioso,  in  ragione  delle  peculiarita'  di  tale   fenomeno
criminoso, quali «la forza intimidatrice del vincolo associativo,  la
condizione  di  assoggettamento  e  di  omerta'  che  ne  deriva,  la
diffusivita' territoriale». Tali caratteristiche non sussisterebbero,
invece,  per  la  fattispecie  di  associazione  con   finalita'   di
terrorismo, che si presterebbe  «a  qualificare  penalmente  fatti  e
situazioni in concreto molto diversi ed eterogenei  tra  loro»;  cio'
che renderebbe  impossibile  «enucleare  una  regola  di  esperienza,
ricollegabile ragionevolmente a tutte le declinazioni  criminologiche
del fenomeno, secondo cui  la  custodia  carceraria  sarebbe  l'unico
strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari». 
    In   particolare,   non   sarebbe   possibile   «fondatamente   e
ineludibilmente    presumersi    che,     per     le     associazioni
eversive-terroristiche, cosi' come per quelle  mafiose,  soltanto  il
carcere possa tagliare i legami esistenti tra le persone  interessate
e il loro ambito criminale di origine e limitare il rischio che  esse
mantengano contatti personali con le strutture  delle  organizzazioni
criminali e possano continuare a delinquere». 
    Cosi'  come  per  le  associazioni  finalizzate  al  traffico  di
stupefacenti, gia' esaminate nella sentenza n. 231 del 2011 di questa
Corte, anche le associazioni terroristiche ed eversive non sarebbero,
infatti, indefettibilmente caratterizzate da  strutture  complesse  e
gerarchicamente  ordinate,  essendo  all'opposto  sufficienti   anche
organizzazioni rudimentali finalizzate al perseguimento  di  un  fine
comune, senza necessario radicamento sul territorio. 
    La  presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della  sola  custodia
cautelare in carcere posta dalla disposizione  censurata  violerebbe,
allora: 
    -  l'art.  3  Cost.,  «per  l'ingiustificata  parificazione   dei
procedimenti relativi al reato di cui all'art. 270 bis c. p. a quelli
concernenti  i  delitti  di   mafia   nonche'   per   [l']irrazionale
assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi
concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati»; 
    - l'art. 13, primo comma, Cost.,  «quale  referente  fondamentale
del regime ordinario delle misure cautelari privative della  liberta'
personale»; nonche' 
    -   l'art.   27,   secondo   comma,   Cost.,   «con   riferimento
all'attribuzione alla  coercizione  personale  di  tratti  funzionali
tipici della pena». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che
le questioni sollevate siano ritenute inammissibili, improcedibili  e
comunque infondate. 
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ritiene  infatti  che   sia
l'associazione  sovversiva  di  cui  all'art.  270  cod.  pen.,   sia
l'associazione con finalita' terroristica o  eversiva  presuppongano,
esattamente come  l'associazione  di  tipo  mafioso,  «la  permanente
adesione  ad  un  sodalizio  fortemente  radicato   nel   territorio,
gerarchicamente organizzato e caratterizzato da  una  fitta  rete  di
collegamenti personali, nonche', talvolta, da una  specifica  matrice
ideologica [...], che esprime una  forza  di  intimidazione,  da  cui
conseguono condizioni di assoggettamento  e  di  omerta',  alla  luce
delle quali e' arduo  prevedere  che  misure  meno  afflittive  della
custodia  cautelare  possano  arginare  la   spinta   criminale   del
soggetto». 
    L'Avvocatura   generale   dello   Stato   illustra   quindi    le
caratteristiche della fattispecie associativa in esame, sottolineando
come la struttura delle associazioni terroristiche possa essere anche
rudimentale,  purche'  pero'  risulti   idonea   all'attuazione   del
programma  criminoso,  imperniato  attorno  al  compimento  di   atti
violenti «diretti contro enti ed istituzioni, idonei  a  condizionare
il funzionamento delle istituzioni stesse». 
    Da  tali   premesse   conseguirebbe   la   ragionevolezza   della
valutazione legislativa,  che  considera  la  custodia  cautelare  in
carcere come «l'unica misura idonea a far fronte ad esigenze sia  pur
presunte e ad interrompere "adesioni interiori e legami fra affiliati
ben piu' forti di quelli mafiosi"». 
    3.- Si e' altresi' costituito in giudizio l'imputato nel giudizio
a quo, a mezzo dei propri difensori, i quali - dopo  aver  ripercorso
adesivamente  le  argomentazioni  dell'ordinanza  di   rimessione   -
insistono    in    particolare    sulla    diversita'     strutturale
dell'associazione delineata  dall'art.  270-bis  cod.  pen.  rispetto
all'associazione di tipo mafioso, in particolare  osservando  che  la
prima  fattispecie  «e'  aperta,  nella  misura  in  cui  indica  gli
obiettivi perseguiti dalla struttura criminale,  ma  non  delinea  il
metodo operativo seguito ne' specifiche qualita' della stessa; non e'
caratterizzata e  tipizzata  da  un  forte  radicamento  in  un  dato
territorio; ne' da una rigida e complessa organizzazione  gerarchica;
ne' dall'uso di  forme  di  intimidazione».  Rispetto  ad  essa,  non
sarebbe pertanto  possibile  «enucleare  una  regola  di  esperienza,
ricollegabile   ragionevolmente   alle   molteplici    e    variegate
declinazioni criminologiche del fenomeno, che consenta di formulare a
priori una valutazione di adeguatezza  della  sola  misura  cautelare
carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari, escludendo l'agevole
ipotizzabilita' di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a
fondamento della presunzione». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di  assise  di
Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma,  e
27, secondo comma,  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art.  275,  comma  3,  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui - nel  prevedere  che,  quando  sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine al  delitto  di  cui  all'art.
270-bis del codice penale, e'  applicata  la  custodia  cautelare  in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano  essere
soddisfatte con altre misure meno afflittive. 
    2.- L'art. 275, comma 1, cod. proc. pen. dispone in via  generale
che, nella scelta della misura cautelare da adottare in presenza  dei
presupposti di cui ai precedenti artt. 273 e 274,  il  giudice  debba
tenere conto della  «specifica  idoneita'  di  ciascuna  [misura]  in
relazione  alla  natura  e  al  grado  delle  esigenze  cautelari  da
soddisfare  nel  caso  concreto»,  nonche',   al   comma   2,   della
proporzionalita' della misura all'entita' del fatto e  alla  sanzione
che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, anche tenendo conto
dei piu' precisi criteri indicati dal comma 2-bis. Il comma 3,  primo
periodo, della disposizione chiarisce inoltre,  in  applicazione  del
generale requisito di necessita' di ogni misura che incide  in  senso
restrittivo sui diritti  fondamentali  della  persona,  che  la  piu'
gravosa delle misure cautelari personali coercitive, vale a  dire  la
custodia cautelare in carcere, «puo' essere disposta soltanto  quando
le  altre  misure  coercitive  o  interdittive,  anche  se  applicate
cumulativamente, risultino inadeguate». 
    Tali  principi  -  che  secondo  la   lettura   fornitane   dalla
giurisprudenza di legittimita' operano non solo nella  fase  genetica
della misura, ma anche durante l'intera sua esecuzione, imponendo una
«costante  verifica  della  perdurante   idoneita'   [della]   misura
[applicata] a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o
residuino» (Corte di cassazione, sezioni unite  penali,  sentenza  31
marzo-22 aprile 2011, n. 16085) - riflettono il rango assegnato,  nel
nostro ordinamento, al  diritto  alla  liberta'  personale,  definito
«inviolabile» dall'art. 13, primo comma,  Cost.  Essi  corrispondono,
altresi', all'interpretazione dell'art. 5 della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU) fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo  la
quale la carcerazione preventiva «deve  apparire  come  la  soluzione
estrema che si giustifica solamente allorche' tutte le altre  opzioni
disponibili si rivelino insufficienti» (Corte EDU, sentenze  8  marzo
2018,  Pouliou  contro  Grecia,  paragrafo  28;  27  novembre   2014,
Koutalidis contro Grecia,  paragrafo  40;  2  luglio  2009,  Vafiadis
contro Grecia, paragrafo 50; 8 novembre 2007, Lelievre contro Belgio,
paragrafo 97). E si compendiano, in  definitiva,  nel  principio  del
«minor sacrificio della liberta'  personale»  (sentenza  n.  299  del
2005),  il  cui  rispetto  e'  necessario  anche   a   garantire   la
compatibilita' con la presunzione di innocenza di  cui  all'art.  27,
secondo comma, Cost.  della  compressione  della  liberta'  personale
dell'indagato e dell'imputato sino alla condanna definitiva. 
    Rispetto alla generalita' delle persone indiziate  di  reato,  la
triplice  valutazione  imposta  dall'art.  275  cod.  proc.  pen.   -
compendiabile, in termini familiari al diritto costituzionale,  nella
verifica della idoneita', necessita' e proporzionalita' della  misura
cautelare  -  e'  interamente  affidata  alla  discrezionalita'   del
giudice, salvi i limiti puntualmente indicati dalla legge  in  favore
dell'interessato nelle numerose disposizioni che hanno nel corso  del
trentennio di vita  del  codice  arricchito  l'originario  essenziale
tessuto normativo dell'art. 275 cod. proc. pen. 
    Rispetto a coloro che sono indiziati di avere commesso specifiche
categorie di reato individuate dal legislatore, la scelta del giudice
sulla misura cautelare e',  tuttavia,  variamente  limitata  anche  a
sfavore dell'interessato. 
    Cio' accade, in particolare, nei casi previsti dal secondo e  dal
terzo  periodo  del  comma  3  dell'art.   275   cod.   proc.   pen.:
disposizioni,  queste,  che  non  erano   previste   nella   versione
originaria del codice, e costituiscono  il  frutto  di  una  tortuosa
evoluzione legislativa, peraltro intrecciatasi -  specie  nell'ultimo
decennio - con le numerose pronunce di questa Corte sul tema. 
    2.1.- Appena due anni dopo l'entrata in vigore del codice, l'art.
5, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n.  152  (Provvedimenti
urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'  organizzata  e   di
trasparenza  e   buon   andamento   dell'attivita'   amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n.  203  -
anticipato da analoghe disposizioni contenute  in  decreti-legge  non
convertiti - introdusse nell'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.  un
secondo periodo nel quale erano elencati una serie di reati -  tra  i
quali l'associazione  di  tipo  mafioso  e  i  delitti  commessi  per
finalita'   di   terrorismo   o   di    eversione    dell'ordinamento
costituzionale - rispetto ai quali, in presenza di  gravi  indizi  di
colpevolezza, doveva essere sempre disposta la custodia cautelare  in
carcere, «salvo che siano acquisiti elementi dai  quali  risulti  che
non sussistono  esigenze  cautelari  o  che,  in  relazione  al  caso
concreto le [stesse] possono essere soddisfatte con altre misure». La
disposizione introdusse dunque  due  presunzioni  relative,  operanti
rispetto ai reati indicati, con  riguardo  sia  alla  sussistenza  di
esigenze cautelari, sia rispetto all'adeguatezza della sola  custodia
cautelare; presunzioni, peraltro, entrambe superabili in presenza  di
elementi di segno contrario, rimessi all'apprezzamento del giudice. 
    2.2.- Solo qualche mese piu' tardi, l'art. 1 del decreto-legge  9
settembre  1991,  n.  292  (Disposizioni  in  materia   di   custodia
cautelare,  di  avocazione  dei  procedimenti  penali  per  reati  di
criminalita' organizzata e di trasferimenti di ufficio di  magistrati
per la copertura di uffici giudiziari non richiesti), convertito, con
modificazioni,  nella  legge  8  novembre  1991,  n.  356,  soppresse
dall'indicato comma 3  l'inciso  «o  che  le  stesse  possono  essere
soddisfatte con altre misure». Per effetto di tale  modifica,  per  i
reati menzionati dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. si confermo'
dunque la presunzione relativa con riguardo  alla  sussistenza  delle
esigenze cautelari a carico delle persone indiziate di tali reati, ma
si  trasformo'  in  assoluta  la  presunzione  di  adeguatezza  della
custodia carceraria, sopprimendo la possibilita' per  il  giudice  di
valutare  se  le  esigenze  cautelari   potessero   essere   comunque
soddisfatte  mediante  l'adozione  di   misure   meno   gravose   per
l'interessato. 
    2.3.- L'art. 5 della legge 8 agosto 1995, n.  332  (Modifiche  al
codice  di  procedura  penale  in   tema   di   semplificazione   dei
procedimenti, di misure cautelari e di diritto di  difesa)  modifico'
nuovamente il comma 3 dell'art. 275 cod. proc.  pen.,  circoscrivendo
il novero dei reati per i quali operavano le  menzionate  presunzioni
ai soli delitti di associazione  di  tipo  mafioso  di  cui  all'art.
416-bis cod. pen.,  nonche'  a  quelli  commessi  «avvalendosi  delle
condizioni previste» dalla medesima disposizione, ovvero «al fine  di
agevolare» l'attivita' dell'associazione  mafiosa.  In  tal  modo,  i
delitti commessi per finalita'  di  terrorismo  ed  eversione  furono
riassoggettati alla disciplina ordinaria. 
    2.4.-   Nello   stesso   anno,   questa   Corte   ha   dichiarato
manifestamente infondati i  dubbi  di  illegittimita'  costituzionale
sollevati sulla duplice presunzione (di  sussistenza  delle  esigenze
cautelari e di adeguatezza della sola custodia cautelare in  carcere)
relativa agli indiziati del delitto di associazione di  tipo  mafioso
(ordinanza n. 450 del 1995). Premesso  che  «compete  al  legislatore
l'individuazione del punto di equilibrio  tra  le  diverse  esigenze,
della  minore  restrizione  possibile  della  liberta'  personale   e
dell'effettiva garanzia degli  interessi  di  rilievo  costituzionale
tutelati attraverso  la  previsione  degli  strumenti  cautelari  nel
processo penale (sentt. n. 1 del 1980; n. 64 del  1970)»,  in  quella
occasione questa Corte ha osservato che «la predeterminazione in  via
generale  della  necessita'  della  cautela  piu'  rigorosa   (salvi,
ovviamente, gli istituti specificamente disposti  a  salvaguardia  di
peculiari situazioni soggettive, quali l'eta', la salute e cosi' via)
non  risulta  in  contrasto  con  il  parametro  dell'art.  3   della
Costituzione, non  potendosi  ritenere  soluzione  costituzionalmente
obbligata  quella  di  affidare  sempre  e  comunque  al  giudice  la
determinazione dell'accennato punto di equilibrio  e  contemperamento
tra  il  sacrificio  della  liberta'  personale  e  gli   antagonisti
interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale». 
    2.5.- Il secondo periodo dell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.
fu  poi  nuovamente  modificato  dall'art.  2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, nella  legge  23  aprile
2009, n. 38, che estese il novero dei reati  per  i  quali  opera  la
doppia  presunzione  di  sussistenza  delle  esigenze   cautelari   e
dell'adeguatezza  della  sola  custodia  cautelare,  ricomprendendovi
tutti i reati previsti dall'art. 51, commi  3-bis  e  3-quater,  cod.
proc. pen. e altri gravi delitti contro la persona. Per  effetto  del
richiamo all'art. 51, comma 3-quater, cod. proc. pen., la generalita'
dei delitti commessi per finalita' di terrorismo - compresa,  dunque,
l'associazione di cui all'art. 270-bis cod. pen.  -  torno'  cosi'  a
essere assoggettata al regime  derogatorio  imperniato  sulla  doppia
presunzione. Regime che, come chiarito da una sentenza delle  sezioni
unite della Corte di cassazione di poco successiva,  opera  non  solo
nel momento di  adozione  del  provvedimento  genetico  della  misura
coercitiva ma anche  nelle  successive  vicende  che  attengono  alla
permanenza delle esigenze cautelari  (Corte  di  cassazione,  sezioni
unite penali, sentenza 19 luglio-10 settembre 2012, n. 34473). 
    2.6.- A partire dal 2010, tuttavia, questa Corte ha  colpito  con
altrettante  dichiarazioni  di   illegittimita'   costituzionale   la
presunzione assoluta  di  adeguatezza  della  custodia  cautelare  in
carcere  in  relazione  a  singole  figure  delittuose  comprese  nel
catalogo di cui all'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.,  nel  testo
risultante dalle modifiche apportate dal d.l.  n.  11  del  2009.  In
particolare,  tale  presunzione  e'   stata   giudicata   illegittima
rispetto: 
    - ai delitti di pornografia minorile, violenza sessuale aggravata
e atti sessuali con minorenne,  di  cui  rispettivamente  agli  artt.
600-bis, primo comma, 609-ter e 609-quater cod. pen. (sentenza n. 265
del 2010); 
    - al delitto di omicidio di cui all'art. 575 cod. pen.  (sentenza
n. 164 del 2011); 
    - al delitto di partecipazione  ad  associazione  per  delinquere
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui  all'art.  74
del d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309,  (Testo  unico  delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza) (sentenza n. 231 del 2011); 
    - a  taluno  dei  delitti  di  favoreggiamento  dell'immigrazione
clandestina di cui all'art. 12, comma 3, del decreto  legislativo  25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle  disposizioni  concernenti  la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero) (sentenza n. 331 del 2011); 
    - al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, di
cui all'art. 416 cod. pen., finalizzata alla commissione dei  delitti
previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del 2012); 
    - ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del d.l. n.  152  del
1991, e  cioe'  ai  delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di  agevolare  le
attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo (sentenza
n. 57 del 2013); 
    - ai delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui
all'art. 630 cod. pen. (sentenza n. 213 del 2013); 
    - al delitto di violenza sessuale  di  gruppo,  di  cui  all'art.
609-octies cod. pen. (sentenza n. 232 del 2013); nonche' 
    - al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa  di  cui
agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. (sentenza n. 48 del 2015). 
    Ribadendo un principio formulato in altro contesto  (sentenza  n.
139 del 2010), questa Corte ha affermato in  tali  occasioni  che  le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto  fondamentale
della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie
e irrazionali, e  cioe'  se  non  rispondono  a  dati  di  esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit;  evenienza  che  si  riscontra  segnatamente  allorche'  sia
agevole  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali   contrari   alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Nei  casi  in
esame, a determinare il  vulnus  al  principio  di  eguaglianza  -  e
conseguentemente alle ragioni di tutela  del  diritto  alla  liberta'
personale e  della  presunzione  di  innocenza  -  era  il  carattere
assoluto  della  presunzione  di  adeguatezza,  che   implicava   una
indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del "minimo
sacrificio necessario" della liberta' personale dell'interessato. 
    L'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  e'  stato,  pertanto,
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella  parte  in  cui,  con
riguardo alle ipotesi criminose che venivano di  volta  in  volta  in
considerazione, prevedeva una presunzione - per l'appunto -  assoluta
di adeguatezza della misura massima, anziche'  una  presunzione  solo
relativa: superabile, cioe' - analogamente  a  quella  relativa  alla
sussistenza delle esigenze cautelari - ove «siano acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». 
    2.7.- Al dichiarato fine di adeguare il  dettato  normativo  alle
numerose pronunce di questa Corte (come risulta dall'introduzione  al
disegno di legge n. 1232, presentato alla Camera dei deputati in data
3 aprile 2013), l'art. 4 della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche
al  codice  di  procedura  penale  in  materia  di  misure  cautelari
personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
visita a persone affette da handicap in situazione  di  gravita')  ha
nuovamente modificato il testo dell'art. 275,  comma  3,  cod.  proc.
pen., trasformando per quasi  tutti  i  reati  sottoposti  al  regime
derogatorio ivi previsto la presunzione  di  adeguatezza  della  sola
custodia cautelare in carcere da assoluta a relativa, come accade per
la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari. 
    Il secondo  periodo  del  nuovo  testo  del  comma  3  censurato,
peraltro, conferma - accanto alla presunzione relativa di sussistenza
delle esigenze cautelari - una presunzione  assoluta  di  adeguatezza
della  custodia  cautelare  in  carcere  per  i   soli   delitti   di
associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis  cod.  pen.),
di associazione sovversiva (art. 270 cod. pen.) e di associazione con
finalita'  di  terrorismo  anche  internazionale   e   di   eversione
dell'ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.). 
    2.8.- La legittimita' costituzionale della scelta del legislatore
del 2015 di confermare la presunzione assoluta di  adeguatezza  della
sola custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione  di
tipo mafioso e' stata vagliata da questa Corte nell'ordinanza n.  136
del 2017,  che  ha  ritenuto  manifestamente  infondate  le  relative
censure formulate con riferimento agli artt. 3, 13,  primo  comma,  e
27, secondo comma, Cost. dal giudice rimettente. 
    Le odierne censure di  illegittimita'  costituzionale,  formulate
con riferimento agli identici parametri, sollecitano ora questa Corte
a  valutare  la  legittimita'   costituzionale   della   scelta   del
legislatore di confermare la presunzione assoluta in parola anche per
il delitto associativo di cui all'art. 270-bis cod. pen. 
    3.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'improcedibilita' e inammissibilita'  delle  questioni  prospettate,
senza tuttavia fornire alcuna motivazione in proposito. 
    L'eccezione e' infondata, non essendo ravvisabile alcuna  ragione
di  inammissibilita',  e  tanto  meno  di  "improcedibilita'",  delle
questioni, le quali appaiono  anzi  puntualmente  motivate  sotto  il
duplice profilo della rilevanza e della non manifesta infondatezza. 
    4.- Nel merito, tuttavia, questa  Corte  non  e'  persuasa  dalle
argomentazioni del giudice a quo. 
    4.1.-  Occorre  anzitutto  premettere  che,  nelle  pur  numerose
occasioni in cui sono state dichiarate costituzionalmente illegittime
le presunzioni assolute di adeguatezza della sola custodia  cautelare
in carcere previste dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. nel testo
precedente alle modifiche  apportate  dalla  legge  n.  47  del  2015
(supra, punto 2.6.), questa Corte non  ha  mai  affermato  l'assoluta
incompatibilita' con i principi costituzionali, in materia di  misure
cautelari  e  di  tutela  della  liberta'  personale  della   persona
indiziata di reato, di ogni ipotesi di presunzione assoluta stabilita
del legislatore. 
    La  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  e'  stata,
invece,  sempre  motivata  in  esito  a  una  puntuale   ricognizione
dell'irragionevolezza   della   presunzione   in    relazione    alle
caratteristiche specifiche delle singole  fattispecie  delittuose  di
volta  in  volta  esaminate,  rispetto  alle  quali  si  e'  ritenuto
"agevole" ipotizzare situazioni  nelle  quali  potesse  smentirsi  la
valutazione legislativa sull'adeguatezza della sola misura custodiale
a  soddisfare  le  pur  ritenute  esigenze  cautelari;   affermandosi
conseguentemente, rispetto  a  tali  fattispecie,  la  necessita'  di
restituire al giudice la facolta' di disporre  una  misura  cautelare
meno  restrittiva  della  custodia  in  carcere,  allorche'  essa  si
dimostri nel caso concreto eccessiva rispetto a tali esigenze. 
    Proprio per assicurare la possibilita' di una  puntuale  verifica
circa l'irragionevolezza della presunzione legislativa, del resto, le
pronunce di illegittimita' costituzionale che hanno nel  corso  degli
anni colpito la disposizione censurata hanno sempre  circoscritto  la
dichiarazione alla sola figura di reato che veniva in  considerazione
nel giudizio a quo  o  a  quelle  immediatamente  contigue.  In  piu'
occasioni,  anzi,  questa  Corte  ha  avvertito  la   necessita'   di
rammentare come l'univoco tenore della disposizione sottoposta al suo
esame non consentisse al giudice comune di estendere direttamente  ad
altre  fattispecie  di  reato  la  ratio  decidendi  di  sentenze  di
illegittimita' costituzionale riferite a singole  e  ben  determinate
fattispecie (sentenze n. 232 del 2013 e n. 110 del 2012),  dovendo  a
tal  fine  ritenersi  imprescindibile  -  nella  logica,  voluta  dal
legislatore costituente, del  sindacato  accentrato  di  legittimita'
costituzionale - l'intervento di questa Corte. 
    Ne  consegue,   specularmente,   che   laddove   la   presunzione
legislativa concernente determinate fattispecie criminose - ancorche'
assoluta - resista al vaglio  di  ragionevolezza,  essendo  possibile
dimostrare la sua solida rispondenza all'id quod plerumque accidit, e
non essendo per converso "agevole" immaginare  casi  che  la  possano
smentire,   la   presunzione   stessa   non    potra'    considerarsi
costituzionalmente illegittima nemmeno al metro dei parametri di  cui
agli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., costantemente
evocati assieme all'art. 3 Cost.  a  fondamento  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale in materia di misure cautelari personali. 
    4.2.- Nessuna delle menzionate sentenze succedutesi a partire dal
2010  ha,  d'altra  parte,  mai  sollevato  dubbi  sulla   perdurante
condivisibilita' della soluzione posta a base dell'ordinanza  n.  450
del 1995, che aveva  ritenuto  -  come  parimenti  si  e'  rammentato
(supra,  punto  2.4.)  -  manifestamente  infondate  le  censure   di
illegittimita' costituzionale relative alla presunzione  assoluta  di
adeguatezza della sola custodia  in  carcere  prevista,  allora  come
oggi, per il delitto di associazione di tipo mafioso. 
    La stessa sentenza "capostipite" n.  265  del  2010  ha,  invero,
affermato che il regime disegnato dall'art. 275 cod. proc. pen. nella
sua formulazione originaria  -  regime  definito  come  «conforme  al
quadro costituzionale di riferimento» - «e' quello di  non  prevedere
automatismi ne' presunzioni», aggiungendo che «[e]sso esige,  invece,
che le condizioni e i presupposti per l'applicazione  di  una  misura
cautelare restrittiva della liberta'  personale  siano  apprezzati  e
motivati dal giudice  sulla  base  della  situazione  concreta,  alla
stregua dei ricordati principi  di  adeguatezza,  proporzionalita'  e
minor sacrificio, cosi' da realizzare una piena "individualizzazione"
della coercizione cautelare». Coordinate queste da cui  «si  discosta
in modo vistoso -  assumendo,  con  cio',  carattere  derogatorio  ed
eccezionale - la disciplina attualmente espressa dal  secondo  e  dal
terzo periodo del comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen., non presente
nel testo originario del codice, ma in esso inserita via via, con  lo
strumento della decretazione d'urgenza». 
    Tuttavia, la stessa sentenza n. 265 del 2010  ha  rammentato  che
proprio  questa  disciplina  eccezionale  e  derogatoria  aveva  gia'
superato  il  vaglio  di   legittimita'   tanto   di   questa   Corte
(nell'ordinanza n. 450  del  1995)  quanto  della  Corte  EDU  (nella
sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia), essendosi da  parte
di entrambe le Corti in vario modo valorizzato la specificita'  della
presunzione  riferita  ai  predetti  delitti,  «la  cui  connotazione
strutturale astratta (come reati associativi  e,  dunque,  permanenti
entro un contesto di criminalita' organizzata, o come  reati  a  tale
contesto comunque collegati) valeva a  rendere  "ragionevoli"  -  nei
relativi procedimenti - le presunzioni in questione,  e  segnatamente
quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in
sostanza, della misura  piu'  idonea  a  neutralizzare  il  periculum
libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato
ed associazione». 
    Analoghe  valutazioni  si   incontrano   anche   nelle   sentenze
successive,  nelle  quali  vengono  poste  in  luce   le   differenti
caratteristiche delle ipotesi delittuose di volta in volta esaminate,
comprese quelle di natura  associativa,  rispetto  a  quelle  proprie
dell'associazione di tipo mafioso; e cio' sul  presupposto  (talvolta
ribadito esplicitamente, come nelle sentenze n. 231 del 2011 e n. 110
del 2012) della ragionevolezza della presunzione assoluta  in  parola
con riferimento a  quest'ultimo  delitto.  Ragionevolezza  da  ultimo
ribadita,  a  contrario,  nelle   sentenze   che   hanno   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale della presunzione con riferimento  da
un lato ai delitti commessi con  "metodo  mafioso"  o  per  agevolare
l'attivita' di associazioni mafiose (sentenza  n.  57  del  2013)  e,
dall'altro, al concorso  esterno  in  associazione  di  tipo  mafioso
(sentenza n. 48 del 2015), nelle quali si e' fatto leva proprio sulla
insussistenza, rispetto  agli  autori  di  tali  delitti,  di  quelle
caratteristiche di  "appartenenza",  tendenzialmente  perdurante,  al
sodalizio mafioso su cui si basa la (legittima) presunzione  assoluta
di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere  rispetto  ai
partecipi dell'associazione. 
    Su questo sfondo si innesta dunque armonicamente  l'ordinanza  n.
136 del 2017, poc'anzi menzionata (supra, punto  2.8.),  con  cui  e'
stata dichiarata la manifesta infondatezza dei dubbi di  legittimita'
costituzionale sollevati dal rimettente sulla presunzione assoluta di
adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere confermata dalla
legge n. 47 del 2015 in relazione alla fattispecie di  partecipazione
all'associazione  mafiosa;   manifesta   infondatezza   motivata   in
relazione  allo  «stabile  inserimento  nell'associazione   di   tipo
mafioso, il quale, per le  caratteristiche  del  vincolo,  capace  di
permanere inalterato nonostante le vicende personali dell'associato e
di mantenerne viva la pericolosita', fa ritenere che questa  non  sia
adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari "minori"  (sentenza
n. 265 del 2010)». 
    4.3.- Questa  Corte  non  ha  mai  avuto  occasione,  sinora,  di
esprimersi sulla  ragionevolezza  dell'analoga  presunzione  assoluta
prevista dall'art. 275, comma 3,  cod.  proc.  pen.,  nella  versione
attualmente vigente, a carico delle persone indiziate del delitto  di
associazione con finalita' di terrorismo anche  internazionale  o  di
eversione dell'ordine democratico di cui all'art. 270-bis cod. pen. 
    Al  riguardo,  occorre  preliminarmente  ribadire   quanto   gia'
limpidamente affermato nella piu' volte citata sentenza  n.  265  del
2010 e spesso ripetuto,  in  forma  piu'  sintetica,  nelle  sentenze
successive. 
    Da  un  lato,  «[l]a  ragionevolezza  della  soluzione  normativa
scrutinata  non  potrebbe  essere  rinvenuta  [...]  nella   gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena,  sia  [...]  in  rapporto  alla  natura  (e,  in   particolare,
all'elevato  rango)  dell'interesse  tutelato».  E  cio'  in   quanto
«[q]uesti  parametri  giocano  un  ruolo  di  rilievo,   ma   neppure
esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza,  particolarmente  per
la determinazione della sanzione, ma risultano, di per se',  inidonei
a fungere  da  elementi  preclusivi  ai  fini  della  verifica  della
sussistenza di esigenze cautelari e - per quanto  qui  rileva  -  del
loro grado, che condiziona l'identificazione delle  misure  idonee  a
soddisfarle». 
    Dall'altro,  la  presunzione  in  esame  non   potrebbe   neppure
«rinvenire  la  sua  fonte   di   legittimazione   nell'esigenza   di
contrastare  situazioni  causa   di   allarme   sociale   [...].   La
eliminazione o riduzione dell'allarme sociale cagionato dal reato del
quale l'imputato e' accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso
tipo, o dalla situazione generale nel campo della  criminalita'  piu'
odiosa o piu' pericolosa, non puo' essere  [...]  annoverata  tra  le
finalita' della custodia preventiva e non puo' essere considerata una
sua funzione. La funzione di rimuovere  l'allarme  sociale  cagionato
dal reato (e meglio che  allarme  sociale  si  direbbe  qui  pericolo
sociale e danno sociale) e' una  funzione  istituzionale  della  pena
perche' presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del
delitto che ha provocato l'allarme e la reazione della societa'.  Non
e' dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba  rendersi
interprete dell'acuirsi del sentimento di riprovazione sociale  verso
determinate forme di criminalita', avvertite  dalla  generalita'  dei
cittadini   come   particolarmente   odiose   e   pericolose,   quali
indiscutibilmente sono  quelle  considerate.  Ma  a  tale  fine  deve
servirsi degli strumenti appropriati, costituiti  dalla  comminatoria
di pene adeguate, da infliggere all'esito di processi  rapidi  a  chi
sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non  gia'  da  una
indebita  anticipazione  di  queste   prima   di   un   giudizio   di
colpevolezza». 
    Necessaria a escludere la illegittimita'  costituzionale  di  una
disposizione come quella in esame - che pure costituisce, come si  e'
osservato, una vistosa ed  eccezionale  deroga  all'ordinario  regime
disegnato dal codice di procedura  penale  in  ossequio  ai  principi
costituzionali e convenzionali di tutela della liberta'  personale  e
della  presunzione  di  innocenza   -   e',   invece,   la   puntuale
dimostrazione della ragionevolezza  dell'assunto  secondo  cui  anche
rispetto alla fattispecie associativa in esame, cosi' come per quella
di tipo mafioso, quando il giudice  abbia  ritenuto  sussistenti  nel
caso concreto le esigenze cautelari di cui all'art.  274  cod.  proc.
pen., ogni altra misura cautelare meno afflittiva non sarebbe  idonea
a garantire il soddisfacimento di quelle medesime esigenze. 
    Tale dimostrazione, d'altra parte, dovra'  essere  calibrata  non
gia' sulla generalita' dei reati compiuti con finalita' di terrorismo
o di eversione dell'ordine democratico, e in ispecie sui "reati fine"
dell'associazione di cui all'art. 270-bis  cod.  proc.  pen.,  bensi'
proprio e specialmente sulle  condotte  associative  (di  promozione,
costituzione,  organizzazione,  direzione,   finanziamento   e   mera
partecipazione) contemplate dalla norma incriminatrice in questione -
che e', si noti, l'unico reato di  matrice  terroristica  abbracciato
dalla presunzione ora all'esame. 
    4.4.-  A  tal  fine,  conviene  ricapitolare   sinteticamente   i
principali approdi della giurisprudenza di legittimita' in merito  ai
requisiti dell'associazione criminosa in parola. 
    4.4.1.- Cio' che  caratterizza  l'associazione  di  cui  all'art.
270-bis cod. pen. rispetto alle altre associazioni  criminose  e'  la
sua finalita': il sodalizio deve proporsi «il compimento di  atti  di
violenza con finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione  dell'ordine
democratico». 
    La  formula  legislativa  allude  dunque  a  un  doppio   livello
finalistico che deve caratterizzare l'associazione nel suo complesso:
a un primo livello, l'intento di compiere atti di violenza; e,  a  un
livello ulteriore, la finalita' ultima  di  tali  condotte,  indicata
come «terrorismo» o «eversione dell'ordine democratico». 
    La finalita' di terrorismo, a sua volta,  trova  una  definizione
nell'art. 270-sexies cod. pen., introdotto dal legislatore  nel  2005
in sede di trasposizione  della  Decisione  quadro  2002/475/GAI  del
Consiglio, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo (oggi
sostituita dalla direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo  e  del
Consiglio, del 15 marzo 2017, sulla lotta contro il terrorismo e  che
sostituisce la decisione quadro  2002/475/GAI  del  Consiglio  e  che
modifica la decisione 2005/671/GAI del Consiglio). L'art.  270-sexies
cod. pen. considera,  in  particolare,  «condotte  con  finalita'  di
terrorismo» quelle che, sul piano oggettivo, «per la  loro  natura  o
contesto,  possono  arrecare  grave  danno   ad   un   Paese   o   ad
un'organizzazione internazionale»;  e,  sul  piano  soggettivo,  sono
compiute con una  delle  tre  finalita'  alternative  indicate  dalla
norma, e cioe' lo scopo  a)  di  intimidire  la  popolazione,  b)  di
costringere i poteri pubblici o un'organizzazione  internazionale  al
compimento  o  al  mancato  compimento  di  un  atto,  ovvero  c)  di
«destabilizzare o distruggere le  strutture  politiche  fondamentali,
costituzionali,   economiche   e   sociali   di   un   Paese   o   di
un'organizzazione internazionale». 
    La potenzialita' di  arrecare  «grave  danno  a  un  Paese  o  ad
un'organizzazione   internazionale»   costituisce,   anzitutto,    un
requisito che allude alle  dimensioni  necessariamente  macroscopiche
dell'offesa  potenzialmente  creata  dalla   condotta   terroristica:
un'offesa che non potrebbe ad esempio, come osserva la giurisprudenza
di legittimita', esaurirsi nella mera lesione  di  patrimoni  privati
(Corte di cassazione, sezione sesta  penale,  sentenza  15  maggio-27
giugno 2014, n. 28009). 
    Quanto alle tre finalita' "ultime", la prima di esse - come  pure
puntualizzato dalla Corte di cassazione  -  si  pone  in  continuita'
rispetto alla tradizionale accezione di "terrorismo", dovendo  essere
letta in correlazione con il requisito "dimensionale" della capacita'
della condotta di «arrecare grave danno» - per cio' che qui rileva  -
a un intero Paese, richiedendo dunque la finalita' di «portare  nella
societa'  un  turbamento  profondo  e   perdurante,   tale   che   la
collettivita',  nel  suo  complesso,  senta   menomata   la   propria
aspettativa di vita in condizioni di liberta' e sicurezza» (Corte  di
cassazione, sentenza n. 28009 del 2014). 
    La seconda finalita' deve essere anch'essa interpretata alla luce
del requisito dimensionale predetto, potendo quindi  essere  riferita
non gia' a qualsiasi tentativo di  «pressione  esercitata  su  di  un
pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione  di  un  reato»,
bensi' soltanto  ad  una  «costrizione»  che  abbia  ad  oggetto  una
decisione di una pubblica autorita' «che incida significativamente su
una scala sociale ed istituzionale corrispondente», e sia  come  tale
idonea a  «creare  il  grave  rischio  di  una  grave  lesione  degli
interessi in gioco (il sereno svolgimento  della  vita  pubblica,  il
fisiologico  esercizio  del  potere   pubblico,   la   stabilita'   e
l'esistenza stessa delle istituzioni di una societa'  pluralistica  e
democratica)» (cosi', ancora, Corte di cassazione, sentenza n.  28009
del 2014). 
    La terza finalita',  infine,  corrisponde  in  larga  parte  alla
tradizionale  nozione  di   finalita'   di   «eversione   dell'ordine
democratico», divenuta cosi' - oggi - una sottoipotesi  della  stessa
finalita' di terrorismo, cosi'  come  definita  dall'art.  270-sexies
cod. pen.; sicche' la loro duplice menzione, che pure  e'  conservata
nel testo e nella rubrica dell'art. 270-bis cod. pen. cosi'  come  in
varie altre norme incriminatrici, costituisce ormai una mera endiadi. 
    4.4.2.- A differenza dell'art. 416-bis cod. pen., l'art.  270-bis
cod.  pen.  non  fornisce  alcuna  descrizione  del  modus   operandi
dell'associazione criminosa ivi  disciplinata,  ne'  contempla  alcun
requisito  di   natura   oggettiva   in   grado   di   orientare   la
discrezionalita'    dell'interprete.    Costante    e',     pertanto,
l'orientamento della  giurisprudenza  di  legittimita'  nel  ritenere
sufficienti anche organizzazioni «rudimentali» (Corte di  cassazione,
sezione sesta penale, sentenza 8 maggio-19  giugno  2009,  n.  25863;
sezione prima penale, sentenza 22 aprile-5  giugno  2008,  n.  22673;
sezione prima  penale,  sentenza  10  luglio-17  settembre  2007,  n.
34989); essendo anzi frequente una struttura "fluida" e "a  rete"  di
simili sodalizi (Corte di cassazione, sezione prima penale,  sentenza
9 ottobre-15 novembre 2018, n.  51654),  caratterizzati  da  «cellule
territoriali» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 7
dicembre 2007-27 marzo 2008, n. 13088) che operano talvolta in totale
autonomia rispetto ad altri gruppi, con i quali pure  condividono  la
medesima ideologia e il medesimo generico  programma  criminoso,  con
contatti reciproci fisici, telefonici o informatici  anche  meramente
discontinui e sporadici (Corte di cassazione, sezione seconda penale,
sentenza 28  novembre-18  dicembre  2013,  n.  51127;  sezione  sesta
penale, sentenza 12 luglio-29 novembre 2012, n. 46308). 
    Cionondimeno,  la  giurisprudenza  di  legittimita'  afferma,  da
tempo, che la mera «comune  adesione  a  un'astratta  ideologia,  per
quanto  caratterizzata  dal  progetto  di  abbattere  le  istituzioni
democratiche» non  basta  a  ritenere  configurabile  un'associazione
terroristica,  occorrendo  invece  che  l'associazione  si   proponga
effettivamente il compimento di atti di violenza per il perseguimento
dei propri scopi (ex plurimis, Corte  di  cassazione,  sezione  prima
penale, sentenza 15 giugno-19 settembre 2006, n. 30824; sezione sesta
penale, sentenza 13 ottobre 2004, n.  12903;  sezione  prima  penale,
sentenza 21 novembre 2001, n. 5578), nei  termini  pregnanti  che  si
sono poc'anzi rammentati. 
    In stretto ossequio al principio costituzionale di  offensivita',
la giurisprudenza della Corte di cassazione ha in proposito  chiarito
che,  pur  non  richiedendosi  la  predisposizione  di  un  programma
operativo di azioni terroristiche,  ai  fini  del  riconoscimento  di
un'associazione ex art. 270-bis cod.  pen.  occorrera'  tuttavia  che
risulti provata la «costituzione di una struttura  organizzativa  con
un livello di "effettivita'" che renda possibile la realizzazione del
progetto  criminoso  [...].  Ne  deriva  che  la   rilevanza   penale
dell'associazione si lega non alla  generica  tensione  della  stessa
verso la  finalita'  terroristica  o  eversiva,  ma  al  proporsi  il
sodalizio la realizzazione di  atti  violenti  qualificati  da  detta
finalita': costituiscono pertanto elementi necessari, per l'esistenza
del reato, in primo  luogo,  l'individuazione  di  atti  terroristici
posti  come  obiettivo  dell'associazione,  quantomeno   nella   loro
tipologia;  e,  in  secondo  luogo,  la  capacita'  della   struttura
associativa di dare agli atti stessi  effettiva  realizzazione  nella
lettura della fattispecie criminosa» (Corte  di  cassazione,  sezione
quinta penale, sentenza 14 luglio-14  novembre  2016,  n.  48001;  in
senso analogo, ex multis, sezione sesta penale, sentenza n. 46308 del
2012; sezione sesta penale, sentenza n. 25863 del 2009). 
    4.4.3.- L'art. 270-bis cod. pen.  non  fornisce,  infine,  alcuna
definizione nemmeno delle singole condotte relative  all'associazione
menzionate nel primo e nel secondo comma. 
    Per quanto concerne pero' la (mera) "partecipazione", che integra
l'ipotesi meno grave tra quelle contemplate dalla norma  e  al  tempo
stesso segna la soglia minima della rilevanza penale  della  condotta
associativa,  la   giurisprudenza   di   legittimita'   e'   costante
nell'affermare che tale fattispecie «non puo' essere desunta dal solo
riferimento  all'adesione  ideale  al  programma   criminale,   dalla
comunanza  di  pensiero  ed  aspirazioni,  ma   occorre   l'effettivo
inserimento  nella  struttura  organizzata,  desumibile  da  condotte
univocamente evocative e sintomatiche, consistenti nello  svolgimento
di  attivita'  preparatorie  per   l'esecuzione   del   programma   e
nell'assunzione di un  ruolo  concreto  nell'organigramma  criminale»
(Corte di cassazione, sezione  prima  penale,  sentenza  22  marzo-27
maggio 2013, n. 22719 e in senso analogo, piu'  di  recente,  sezione
seconda penale, sentenza 4 dicembre 2019-27 febbraio 2020, n.  7808);
precisandosi, altresi', che ai fini della prova della  partecipazione
all'associazione  occorrera'  dimostrare   «un   concreto   passaggio
all'azione  dei  membri  del  gruppo,  sotto   forma   di   attivita'
preparatorie  rispetto  all'esecuzione   dei   reati   fine,   oppure
l'assunzione di un ruolo concreto nell'organigramma criminale» (Corte
di cassazione, sezione sesta penale, 26  maggio-18  agosto  2009,  n.
33425; in senso analogo, sezione prima penale, sentenza n. 34989  del
2007). 
    Da cio' deriva, altresi', che ai fini  del  riconoscimento  della
condotta  partecipativa  occorre  la  prova  di  effettivi   contatti
operativi tra l'associazione e il singolo partecipe,  dovendo  dunque
essere  provata  la  consapevolezza  di   tale   adesione   in   capo
all'associazione  (Corte  di  cassazione,  sezione  seconda   penale,
sentenza 14 marzo-27 maggio 2019, n.  23168;  sezione  sesta  penale,
sentenza 5 marzo-27 marzo  2019,  n.  13421;  sezione  sesta  penale,
sentenza 23 febbraio-11 settembre 2018,  n.  40348),  la  quale  deve
dunque considerare il soggetto come un  proprio  "membro"  sul  quale
poter contare per l'esecuzione del programma criminale. 
    4.5.-  Sullo  sfondo  di  tale  diritto  vivente  -  frutto   del
condivisibile sforzo compiuto dalla  giurisprudenza  di  legittimita'
per  assicurare  una  interpretazione  costituzionalmente   orientata
dell'art. 270-bis cod. pen., che ne escluda ogni  possibile  utilizzo
quale strumento di  repressione  del  semplice  dissenso  o  di  mere
ideologie eversive, e che ne  confini  l'ambito  di  applicazione  ai
sodalizi che operino effettivamente, e  in  maniera  idonea  rispetto
allo  scopo,   quali   centri   propulsori   di   condotte   violente
riconducibili a uno dei paradigmi disegnati dall'art. 270-sexies cod.
pen.  -  deve  dunque  essere  esaminata  la   ragionevolezza   della
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare  in
carcere a carico di chi sia attinto da gravi indizi  di  colpevolezza
in relazione a questo delitto, e nei confronti del quale siano  state
in  concreto  ritenute  sussistenti  le  esigenze  cautelari  di  cui
all'art. 274 cod. proc. pen. 
    In  proposito,  occorre  effettivamente  riconoscere  che,   come
sottolinea il  giudice  rimettente,  l'associazione  terroristica  ha
caratteristiche affatto differenti rispetto all'associazione di  tipo
mafioso. La  prima  puo'  in  concreto  essere  strutturata  in  modo
semplice, sino ad apparire  addirittura  "rudimentale",  non  essendo
necessariamente caratterizzata da rigide gerarchie, da precise regole
di ingresso nel sodalizio paragonabili  ai  rituali  di  affiliazione
tipici  di  molte  consorterie  mafiose,  ne'   dal   controllo   sul
territorio, che e' invece caratteristica di queste ultime. 
    Occorre,  tuttavia,  considerare  che   la   "partecipazione"   a
un'associazione terroristica - e il rilievo vale, a maggior  ragione,
per le altre piu' gravi condotte descritte dalla norma incriminatrice
- non si esaurisce nel compimento, pur necessario, di azioni concrete
espressive  del  ruolo  acquisito  all'interno  del   sodalizio,   ma
presuppone altresi' l'adesione a un'ideologia che, qualunque  sia  la
visione del mondo ad essa sottesa e  l'obiettivo  ultimo  perseguito,
teorizza l'uso della violenza in una scala dimensionale tale da poter
cagionare un «grave danno» a intere collettivita'. 
    Ed e' proprio una simile adesione ideologica a contrassegnare nel
modo piu' profondo la  "appartenenza"  del  singolo  all'associazione
terroristica: un'appartenenza che - proprio come quella che lega, pur
con  modalita'  diverse,  il  partecipe  all'associazione  mafiosa  -
normalmente perdura anche  durante  le  indagini  e  il  processo,  e
comunque non viene meno per il solo fatto  dell'ingresso  in  carcere
del soggetto, continuando  cosi'  a  essere  indicativa  di  una  sua
pericolosita' particolarmente accentuata. 
    Questa  "appartenenza"  a  una  comunita'  unita  da  un  preciso
collante ideologico - che spesso trascende i confini nazionali  (come
dimostra  emblematicamente  la  vicenda  oggetto  del  processo   che
coinvolge l'imputato nel giudizio a quo) -  segna  d'altra  parte  un
netto  discrimine  tra  l'associazione  terroristica   e   le   altre
associazioni criminose di cui questa Corte ha avuto  sinora  modo  di
occuparsi nella propria giurisprudenza sull'art. 275 cod. proc. pen.,
dal momento che tali associazioni sono caratterizzate  -  al  piu'  -
dalla   convergenza   delle   attivita'   dei   partecipi    rispetto
all'obiettivo immediato dell'esecuzione di reati e  dell'acquisizione
dei relativi  profitti:  obiettivo  gia'  di  per  se'  frustrato,  o
comunque gravemente  scompaginato,  dalle  indagini  penali  e  dalle
misure cautelari che ne conseguono. 
    Il (normale) permanere del vincolo di  appartenenza  del  singolo
all'associazione terroristica - intesa anche nella sua dimensione  di
"casa ideale", nella quale il partecipe investe spesso  non  solo  le
proprie energie criminali, ma l'intera propria dimensione  personale,
essendo spesso disposto a sacrificare la propria  vita  in  nome  del
progetto condiviso  -  appare  allora  alla  base  della  valutazione
legislativa che considera le  misure  cautelari  non  custodiali,  in
primis gli arresti domiciliari, inidonee a  controllare  la  sua  del
tutto peculiare pericolosita'. 
    La pratica impossibilita' di impedire che la persona sottoposta a
misura extramuriaria riprenda i  contatti  con  gli  altri  associati
ancora in liberta' attraverso l'uso  di  telefoni  e  di  internet  -
prospettiva, questa, non efficacemente  neutralizzabile  mediante  la
semplice  imposizione  dei  corrispondenti  divieti  all'atto   della
concessione della misura - crea inevitabilmente il  pericolo  che  il
soggetto si allontani senza autorizzazione dalla propria abitazione e
commetta  gravi  reati  in   esecuzione   del   programma   criminoso
dell'associazione, di cui continua a far parte e dalla quale potrebbe
continuare a ricevere ordini.  E  cio'  tanto  piu'  a  fronte  delle
recenti e ben note esperienze di  sanguinosi  attentati  terroristici
eseguiti senza alcuna particolare pianificazione, e anzi con mezzi di
fortuna agevolmente reperibili anche da parte di chi  si  trovi  agli
arresti domiciliari  (come  un  furgone  o  addirittura  un  semplice
coltello). 
    Tali rischi sono vieppiu' accentuati dalla struttura  "fluida"  e
"a rete" delle associazioni terroristiche contemporanee, che -  quale
che sia la loro matrice ideologica - utilizzano largamente internet e
i  social  media  non  solo  come  mezzo   di   reclutamento   e   di
indottrinamento  degli  associati,  ma  anche   come   strumento   di
pianificazione  ed  organizzazione  degli  attentati  nei  quali   si
sostanzia lo stesso programma criminoso dell'associazione (ex multis,
Corte di cassazione, sentenza  n.  7808  del  2019;  sezione  seconda
penale, sentenza  21  febbraio-21  maggio  2019,  n.  22163;  sezione
seconda penale, sentenza 19 ottobre-16 novembre 2018, n. 51942).  Con
il  connesso  pericolo  che  il  soggetto  sottoposto  a  misura  non
custodiale possa entrare in contatto, proprio tramite  gli  strumenti
informatici, anche con membri di "cellule" o strutture  organizzative
differenti dalla propria, ma accomunate dall'adesione  alla  medesima
ideologia e dalla medesima disponibilita' a porre in essere  condotte
violente; per poi  pianificare  e  organizzare  attentati  assieme  a
questi nuovi sodali. 
    4.6.- A fronte della magnitudine di simili rischi, la presunzione
assoluta di adeguatezza della sola  custodia  cautelare  -  che  pure
costituisce una marcata deroga ai principi  generali  del  codice  di
rito, modellati sugli stessi principi  costituzionali  (supra,  punto
4.2.)  -  appare  a  questa  Corte  sostenuta  da  una  congrua  base
empirico-fattuale, si' da sottrarsi al giudizio  di  irragionevolezza
che ha colpito l'analoga presunzione che operava rispetto alle figure
di reato - diverse  dalla  partecipazione  all'associazione  di  tipo
mafioso - sinora esaminate. 
    La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali
del  giudice   trova   qui   giustificazione,   nell'ambito   di   un
bilanciamento che questa Corte non ritiene  di  poter  censurare  dal
punto di vista della sua legittimita'  costituzionale,  in  relazione
alla finalita' di  tutelare  la  collettivita'  contro  i  gravissimi
rischi che potrebbero derivare da  dall'eventuale  sopravvalutazione,
da parte del giudice, dell'adeguatezza di una misura non carceraria a
contenere  il  pericolo  di  commissione  di  reati,   pur   ritenuto
sussistente nel caso di specie. Resta fermo, naturalmente, il  dovere
del giudice di valutare, nella fase genetica e poi  nell'intero  arco
della vicenda cautelare, l'effettiva sussistenza e  permanenza  delle
esigenze cautelari, e di disporre la revoca della  misura  in  essere
ogniqualvolta  risulti  che  nel  caso  concreto  tali  esigenze  non
sussistano o siano cessate, anche alla luce  dell'eventuale  percorso
di distacco dall'associazione e  dai  suoi  programmi  criminosi  che
l'imputato abbia nel frattempo compiuto. 
    4.7.-  Da  quanto  precede  discende  la  non  fondatezza   delle
questioni in riferimento a tutti i parametri evocati.