LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO All'esito della discussione finale e della chiusura del dibattimento, ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio di rinvio per revisione a carico di Massimo Carlotto, nato a Padova il 22 luglio 1956, imputato del reato previsto e punito dagli artt. 61, n. 4, 575 e 577 del c.p. per avere cagionato la morte di Magello Margherita, colpendola ripetutamente con uno strumento da punta e taglio in ogni parte del corpo e pertanto infierendo sulla stessa con crudelta'. In Padova il 20 gennaio 1976. PREMESSO IN FATTO E SULLO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO DI PRIMO E SECONDO GRADO Il Carlotto, pur con una serie consistente di variazioni e modifiche, ha dato dell'episodio, il resoconto dei fatti che segue. Passando in Padova, per la via Faggin, egli aveva sentito delle grida di aiuto provenienti dalla palazzina n. 27. Rimasto sorpreso e preoccupato, dato che nello stesso stabile abitava anche sua sorella, era entrato nel giardino e, attraverso la porta semiaperta dell'abitazione, aveva acceduto ai locali siti al piano terra; aveva ispezionato le camere con la luce accesa, indi era salito al piano superiore ove aveva trovato Margherita Magello - che conosceva - completamente svestita e coperta di sangue per le ferite ricevute. Bloccato dalla sopresa, aveva cercato in qualche modo di soccorrere la giovane che pronunciava alcune frasi; poi, preso dal panico, era uscito precipitosamente dalla casa, senza invocare aiuto. Cercata inutilmente la sua fidanzata, l'imputato si era recato nell'abitazione di un amico al quale aveva raccontato l'episodio, presente un altro compagno, indi, accompagnato da uno di essi, si era recato in uno studio legale, decidendo di presentarsi ai Carabinieri per testimoniare. Accusato di essere l'autore materiale del crimine, il Carlotto veniva tratto a giudizio avanti la Corte di assise di Padova, la quale, con sentenza in data 5 maggio 1978 lo assolveva dall'imputazione di omicidio aggravato per insufficienza di prove, sostenendo testualmente che "la presenza dell'imputato vicino alla vittima, a contatto fisico con il sangue che sgorgava dalle ferite e la mancanza di concrete tracce dell'esistenza di un presunto ignoto assassino, potrebbero far ritenere il Carlotto responsabile dell'omicidio, soltanto se si dovesse tassativamente escludere la possibilita' della presenza nell'abitazione Magello di una terza persona, rimasta sconosciuta, e se non si ravvisassero, soprattutto nel comportamento dell'imputato, nelle sue dichiarazioni e nella sua personalita', numerosi e seri indizi dai quali, per induzione logica, si perverrebbe alla conclusione dell'innocenza del giudicabile". A seguito di imputazione del pubblico ministero, la Corte di assise di Appello di Venezia - sezione unica, con sentenza del 19 dicembre 1979 riformava totalmente la decisione del giudice di primo grado e riconosceva la responsabilita' dell'imputato in ordine al delitto contestatogli (esclusa l'aggravante contestata e concesse le circostanze attenuanti generiche), condannando lo stesso alla pena di 18 anni di reclusione. Tale statuizione diveniva irrevocabile il 19 dicembre 1982 a seguito del rigetto da parte della Corte di cassazione del ricorso proposto dal Carlotto contro la sentenza della Corte di Venezia. I difensori del Carlotto, in data 20 giugno 1988, hanno proposto, avanti la Corte regolatrice, istanza di revisione della sentenza di condanna, deducendo come nuovo primo elemento di prova la circostanza, del tutto trascurata nel corso del giudizio di merito, che sul piede della vittima erano state riscontrate dal perito settore "tracce ematiche con impronte figurate parallele" e che tali impronte, separate tra loro di 3 millimetri, erano riferibili alla suola di un tipo di scarpe, diverso da quelle indossate dall'imputato la sera del delitto. Il secondo nuovo elemento probatorio dedotto dai difensori a fondamento della richiesta di revisione e' costituito dai risultati della perizia disposta dalla Corte di appello di Venezia - ex art. 557, 3 del c.p.p. 1930 - con ordinanza in data 27 maggio 1987 sui guanti che il Carlotto indossava la sera del delitto, accertamento risoltosi con l'esclusione della presenza di macchie ematiche su detti indumenti e con esclusione della possibilita' di rispondere al quesito se questi ultimi fossero stati sottoposti a lavaggio in epoca piu' o meno recente. Il terzo elemento di prova, dedotto a fondamento dell'istanza e' stato quello relativo al giudizio di compatibilita' tra le modalita' di realizzazione del delitto (colluttazione violenta con la vittima, testimoniata dalle lesioni da difesa riscontrate alle mani di essa) e lo stato degli abiti del Carlotto. Gli altri accertamenti richiesti dai difensori e dei quali la Corte di appello aveva disposto l'esecuzione, e cioe' quelli volti ad identificare con certezza il codice genetico, ricavabile dalla formazione pilifera rinvenuta sui polpastrelli dalla vittima, nonche' delle macchie di sangue, rinvenute in un fustino di detersivo all'interno di uno sgabuzzino della casa della vittima), sono rimasti ineseguiti a causa della involontaria distruzione dei reperti ad op- era di chi ne curava la conservazione. La Corte di cassazione con sentenza 30 gennaio 1989 ritenuta "l'evidenza" e la "novita'" delle prove, ha annullato la sentenza della Corte di assise di appello di Venezia ed ha rinviato per nuovo giudizio a queste sezioni della Corte veneta. SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO RESCISSORIO Questa Corte, nell'ambito del disposto dell'ultimo comma dell'art. 565 del c.p.p. previgente, ha ordinato la rinnovazione del dibattimento provvedendo: a) all'espletamento di perizia medico-legale-merceologica, affidata ai professori Pozzato Romeo, Farneti Antonio e Paoletti Roberto dell'Istituto di medicina legale dell'Universita' di Milano ed al prof. Gambaretto G. Paolo della facolta' di ingegneria di Padova, istituto di tecnica delle relazioni organiche, finalizzata ad individuare la causa che aveva prodotto sul piede destro della vittima le tracce ematiche con impronte figurate parallele, nonche' la compatibilita' o meno tra le modalita' di realizzazione del delitto e lo stato degli indumenti del Carlotto; b) all'audizione del prof. Benciolini; c) all'estensione della perizia sub-a) ai proff.ri Fiori Angelo dell'Universita' cattolica di Roma e Bargagna Marino dell'Universita' di Pisa, per l'accertamento della natura ematica delle macchie, tracce e imbrattamenti presenti sul cappotto, sul maglione e sui pantaloni indossati dall'imputato; d) all'audizione di tutti i periti nominati nel presente giudizio nonche' dei periti Ferrara e Benciolini e dei periti dell'Universita' di Bologna Puccini, Mancini e Possati; e) all'esame del prof. Pozzato Romeo, che, dopo essersi riunito con gli altri periti nominati dal presente giudizio e parlando a nome di essi tutti presenti (Fiori, Bargagna, Farneti, Paoletti e Gambaretto), ha formulato le definitive conclusioni del loro operato congiunto; f) all'esame dei testi Rossi Maria in Magello, Cagni Paolo, rispettivamente madre della vittima e cognato dell'imputato nonche' dei barellieri e dell'autista della Croce Verde (Corolaita, Salmaso, Tognon) e del teste Oronesu, ascoltato sul punto del taglio sui guanti; g) all'effettuazione di un sopralluogo nell'immobile di via Faggin, 29, Padova (luogo del commesso reato). VALUTAZIONE DELLA FONDATEZZA O DELLA PIENA PROVA DEGLI ELEMENTI PER I QUALI FU AMMESSA LA REVISIONE Ritiene il collegio, all'esito di una non facile disamina delle risultanze probatorie, che dei "tre" nuovi elementi di prova dedotti sia rimasto "pienamente provato" soltanto il primo e cioe' quello attinente alla presenza, sul piede della vittima, di una traccia ematica, riferibile all'azione di una suola di scarpa, diversa da quella indossata dall'imputato la sera del delitto e non attribuibile al comportamento di nessuna delle persone che entrarono in contatto con la vittima, prima dell'accertamento fotografico. Quanto al secondo nuovo elemento di prova (presenza di sangue nei guanti ed origine dei tagli in essi riscontrati), ritiene la Corte che la perizia Rossi-Viterbo abbia formulato un giudizio di "non- possibilita' di risposta tecnica" che non consente in alcun modo, ne' una conclusione in termini di "fondatezza" ne', tanto meno, di "piena prova" agli effetti dell'art. 556, I, del c.p.p. 1930. Per cio' che attiene all'origine del tagli dei guanti, l'esame del teste Oronesu, a 14 anni di distanza dai fatti, non ha determinato la piena prova della circostanza, posto che, il testimone ha descritto i guanti con i tagli come del tipo "a manopola" (e cioe' con il solo dito pollice indipendente), mentre i guanti sequestrati al Carlotto (e per i quali l'imputato aveva piu' volte asserito la non pre- esistente conoscenza di tagli) sono del tipo "normale", con tutte le dita "indipendenti" nella loro copertura. Il teste quindi, a tutto voler concedere, ha notato dei tagli su guanti, diversi da quelli indossati dal Carlotto la sera del delitto. Da cio' consegue l'infondatezza dell'elemento di prova prospettando con caratteristiche di "evidenza". Quanto al terzo elemento di prova, concernente il giudizio di piena compatibilita' tra la lotta ingaggiata dalla vittima con il suo aggressore e lo stato degli abiti del Carlotto, ritiene questa Corte che le conclusioni del collegio Pozzato-Fiori, nonche' le esaustive precisazioni fornite dai periti, nel corso della complessa istruttoria dibattimentale, siano piu' che sufficienti per escludere la "piena prova" della asserita incompatibilita', dedotta come elemento che da solo od unitamente a quelli gia' esaminati nel procedimento, avrebbe reso evidente che il condannato si sarebbe dovuto assolvere a' sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'art. 479 del c.p.p. 1930, in relazione all'art. 554, primo comma, n. 3, del c.p.p. 1930. VALUTAZIONE COMPARATIVA DEL PRIMO NUOVO ELEMENTO DI PROVA RISPETTO ALLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA DI CONDANNA La Corte regolatrice (pag. 10 sentenza) sul punto dell'autore dell'impronta figurata sul piede della vittima, ha stabilito che "d se tale persona non dovesse essere identificata con certezza (non quindi sulla base di mere congetture), dovrebbe concludersi per l'identificazione di essa in un individuo estraneo, sia all'imputato che alle persone che entrarono in contatto con la vittima: in una parola, nel "possibile assassino". Vero e' che, da solo tale elemento, frutto di una indagine non affidabile alle congetture, non dimostra ancora che il condannato non ha commesso il delitto attribuitogli. Ma se l'accertamento, da eseguirsi con assoluto rigore, dovesse escludere l'attribuibilita' dell'impronta agli intranei, l'elemento andrebbe valutato unitariamente "agli altri esaminati nel procedimento", ed imporre un esame critico dei criteri adottati nella valutazione del materiale probatorio". Nel caso di specie, a giudizio di questo collegio, e' risultato evidente che l'autore dell'impronta sulla volta plantare del piede destro della vittima non e' ne' l'imputato, ne' alcuna delle altre persone che hanno avuto ragionevolmente accesso al cadavere, prima dell'accertamento fotografico. Tale circostanza, apprezzata alla luce di tutti gli altri elementi emersi nel processo e di segno favorevole al condannato, determina, quale giudizio finale, una condizione di insuperabile incertezza obiettiva che legittimerebbe una lettura della prospettazione accusatoria in termini di insufficienti prove per condannare, situazione questa prevista e regolata dall'art. 479, terzo comma, del c.p.p. 1930. Peraltro, tenuto conto dei limiti e degli sbarramenti posti dal legislatore del 1930 all'istituto della revisione, questo giudice di rinvio - pur in presenza della suindicata perplessita' - dovrebbe confermare la sentenza di condanna, posto che il secondo comma dell'art. 566 del c.p.p. 1930 stabilisce la rigorosa tassativita' delle ipotesi di assoluzione, limitate alle cause, appunto di assoluzione, sancite dalla prima parte o dal terzo capoverso dell'art. 479 del c.p.p. 1930, con implicita esclusione dell'art. 479, secondo capoverso, che disciplina l'assoluzione per insufficienza di prove. LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE SOLLEVATA DALLA DIFESA DEL CARLOTTO La difesa del condannato, ammesso al giudizio di revisione, ha sostenuto che l'art. 254 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 271, ha abrogato l'art. 479 del c.p.p. 1930 nella sua interezza e, conseguentemente, di detta norma ed in particolare del terzo comma di detto articolo - che prevede il risultato di non sufficienti prove per condannare - non puo' farsi alcun uso processuale, neppure al limitato effetto del richiamo contenuto, in negativo, nell'art. 566, secondo comma del c.p.p. 1930. Ritiene la Corte che tale argomentazione sia infondata. Le sezioni unite della Corte di cassazione, con sentenza 3 febbraio 1990 - 16 marzo 1990 hanno stabilito che le disposizioni transitorie del nuovo c.p.p., recate dal titolo terzo del d.l. 28 luglio 1989, n. 271, formulate nel senso che fanno riferimento esclusivo ai procedimenti di cognizione, sono estranee al procedimento di revisione il quale, intervenendo dopo la cessazione della fase cognitiva, a seguito della irrevocabilita' della sentenza o del decreto penale di condanna, si trova fuori del procedimento di cognizione propriamente detto. Ne deriva che l'art. 254 del citato decreto legislativo non puo' incidere sul precetto di cui all'art. 566, secondo comma del c.p.p. 1930. La norma quindi, che impone al giudice del rinvio per revisione di confermare la sentenza di condanna, anche se i nuovi elementi, esaminati congiuntamente a quelli gia' valutati, determinino, come risultato finale, una condizione di insuperabile ed obiettiva incertezza circa la sussistenza dell'ipotesi accusatoria, dove essere necessariamente applicata da questo giudice. Tanto premesso, trattasi ora di verificare, in relazione alla formulata eccezione di incostituzionalita', se ricorra la violazione o meno dei principi costituzionali di cui all'art. 3 della nostra Carta costituzionale, o di altri con conseguente pronuncia di manifesta fondatezza della questione proposta e concreta impossibilita' di definire il presente giudizio, indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale sollevata. Invero, quanto alla manifesta fondatezza, va osservato, che secondo la citata sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, le nuove disposizioni in materia di revisione (quelle concernenti la competenza, ma anche le nuove regole di giudizio) operano con effetti immediati, anche se il procedimento sia iniziato prima dell'entrata in vigore della legge modificatrice, solo rilevando che il giudice, cui l'istanza e' stata rivolta, ne abbia concretamente iniziato la trattazione prima dell'entrata in vigore delle nuove norme. Se ne conclude che, nel caso in cui l'istanza di revisione sia stata presentata alla Corte di cassazione, in data anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ma la Corte non ne abbia prima di tale data, iniziata la trattazione, si rendono applicabili le norme del nuovo codice di rito. Applicata tale regola al caso di specie, ne deriva che se il Carlotto avesse presentato l'istanza di revisione in tempo successivo all'entrata in vigore del nuovo codice di rito, o, pur avendola presentata prima, essa fosse stata trattata dalla Corte regolatrice dopo l'entrata in vigore delle nuove norme, il Carlotto oggi dovrebbe essere assolto, tenuto conto che il nuovo elemento di prova, pienamente provato, ha determinato, in questo giudice di rinvio, il convincimento dell'esistenza di un risultato processuale di insufficienza probatoria. I difensori della parte civile hanno osservato come gia' la Corte costituzionale si sia pronunciata in fattispecie ontologicamente simile, in tema di giudizio abbreviato ed in ordine alla pretesa disparita' di trattamento fra imputati, per i quali il dibattimento sia stato o non sia stato ancora aperto, posto che, secondo il giudice costituzionale (Corte costituzionale sentenza n. 277 del 23-31 maggio 1990) si tratta di situazioni oggettivamente diverse, dato che l'apertura del dibattimento rende irrazionale l'applicabilita' del giudizio abbreviato. A tale argomentazione e' agevole replicare che i riti speciali ed abbreviati, nell'ingegneria del nuovo codice di rito, rispendono ad esigenze deflatorie che incidano sulla posologia sanzionatoria non toccano la sostanza dell'esercizio dell'azione penale e del diritto di difesa, come invece la regola del terzo comma dell'art. 479 del c.p.p. 1930, in relazione al richiamo negativo di cui all'art. 566, secondo comma, stesso c.p.p. E di cio' si e' ben reso conto il p.g. che, nella sua arringa, sia pure poi negandola, ha introdotto come ipotesi, anche la violazione dell'art. 24 Costituzione che questo collegio reputa invece fondata. Ora e' noto che rientra nella discrezionalita' del legislatore la scelta politica in ordine alla intengibilita' del giudicato penale, nonche' in ordine alle rigorose modalita' della sua possibile "aggressione", con la minuta previsione degli "indici di errore", in concreto formulata con un'elencazione, quasi scolastica, di casi dall'art. 554 del c.p.p. 1930 e ripetura, sostanzialmente, dall'art. 630, primo comma del c.p.p. 1988. E' pero' altrettanto noto che tale discrezionalita' e' sindacabile nel giudizio di costituzionalita', qualora essa si concreti in un mero arbitrio, laddove, di fronte ad una sostanziale omogeneita' di situazioni, sia prevista una diversa disciplina. Del pari risaputo e' che completa al legislatore la valutazione della sorte dei procedimenti in corso, nel momento dell'entrata in vigore di nuove norme processuali, nonche' dei limiti della loro applicabilita', attraverso l'emanazione di nuove disposizioni che si designano appunto transitorie per la loro temporanea applicazione. Nel caso di cui trattasi, non e' dato rinvenire alcuna norma transitoria che regoli ex professo il procedimento di revisione, per il quale vale cosi' la regolamentazione di carattere generale di cui all'art. 245 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 272, con la conseguenza di una irragionevole disparita' di trattamento, dato che la norma denunciata introduce una irrazionalita' discriminatoria tra condannati ammessi alla revisione, nel senso che a parita' di condizioni temporali (sentenza di condanna pronunciate prima dell'entrata in vigore del nuovo c.p.p.) e situazioni probatorie caratterizzate da incertezza, l'assoluzione del condannato e' fatta dipendere, non gia' da una situazione rigorosamente predeterminata dalla legge, bensi' dalla circostanza, meramente estrinseca e contingente, che la Corte di cassazione abbia iniziato la concreta trattazione del procedimento di revisione dalla sentenza (pronunciata prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di rito) prima o dopo la data del 24 ottobre 1989. Tale situazione, indotta dalla norma di cui all'art. 566.2 del c.p.p. 1930, 479, terzo comma del c.p.p. 1930, in quanto richiamato dall'art. 566.2, e 245/254 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 271, si prospetta come ingiustificatamente penalizzante della posizione processuale del condannato, ammesso alla revisione con procedimento trattato dalla Corte di cassazione prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di rito, rispetto a quella del condannato, che, pur versando nella stessa situazione di risultato probatorio insufficiente per la condanna, abbia avuto il processo trattato dalla Corte regolatrice, in concreto, prima o dopo dell'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, producendo la lesione: a) del principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, di cui all'art. 3 della Costituzione; b) del principio di inviolabilita' del diritto di difesa, sancito per ogni stato e grado del procedimento. Invero, quanto al profilo sub b) appare del tutto impedito e frustrato l'esercizio del diritto di difesa con riferimento alla giuridica impossibilita' di provare, nel giudizio di revisione, l'insufficienza o la contraddittorieta' dalla prova.