LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza. Letto il ricorso depositato in data 20 marzo 2000 nella cancelleria di questa Corte d'appello - sezione civile, con il quale l'avv. Wilfredo Vitalone, parte reclamante nel procedimento contro il Presidente del Consiglio dei ministri n. 28/1999 CC, attualmente pendente innanzi alla sezione civile di questa Corte d'appello, ha ricusato i componenti del collegio, presidente Adolfo Pellegrini e consiglieri Maurizio Salvi e Pietro Abbritti; Sentito il consigliere relatore dott. Angelo Di Salvo. O s s e r v a Con ricorso depositato il 20 marzo 2000 nella cancelleria di questa Corte d'appello - sezione civile l'avv. Wilfredo Vitalone, parte reclamante nel procedimento contro il Presidente del Consiglio dei Ministri n. 28/1999 CC, attualmente pendente innanzi alla sezione civile di questa Corte d'appello, ha ricusato i magistrati componenti del collegio. Nel ricorso, a norma dell'art. 52, primo comma c.p.c., il ricorrente avv. Wilfredo Vitalone, che aveva precedentemente invitato ad astenersi i magistrati poi ricusati, ha prodotto ed indicato i mezzi di prova a sostegno della propria istanza, fondata sulla ritenuta violazione del dovere di astensione per assenta "grave inimicizia" con i magistrati ricusati cui ha addebitato di essere, in occasione di un precedente giudizio sulla responsabilita' civile di magistrati romani ai danni dello stesso avv. Vitalone, "ripetutamente incorsi in gravi violazioni di legge" per avere "affermato circostanze incontrastabilmente escluse dagli atti del procedimento e, al contempo, negato circostanze incontrastabilmente risultanti dagli atti del procedimento" (pagg. 1-2 dell'istanza di ricusazione). Con istanza prodotta il 17 luglio 2000 al presidente della Corte d'appello, il presidente ed altro componente di questo collegio, entrambi in servizio presso la sezione penale di questa Corte, hanno richiesto l'autorizzazione ad astenersi per gravi ragioni di convenienza, avendo partecipato, unitamente a due dei consiglieri della sezione civile ricusati, quali componenti della c.d. "sezione promiscua", a numerosissime udienze dibattimentali penali di questa Corte sentendosi, percio', privati della serenita' necessaria per poter decidere sul ricorso per ricusazione dei propri colleghi, con i quali hanno svolto, svolgono e continueranno a svolgere, nel colIegio della c.d. "sezione promiscua" della Corte, funzioni giurisdizionali. Con ordinanza in data 20 luglio 2000 il presidente della Corte d'appello di Perugia ha rigettato la richiesta di autorizzazione all'astensione sul presupposto che ex art. 53 cod. proc. civ,. "fatto esposto dagli istanti non da' luogo a gravi ragioni di convenienza per l'astensione, tant'e' che se e' ricusato uno dei componenti del tribunale o della Corte, sulla ricusazione e' chiamato a decidere lo stesso collegio". Ritiene la Corte di tutta evidenza l'esigenza del giudice di apparire - ancor prima che essere - sereno, imparziale ed indipendente. Tali requisiti vengono a mancare allorquando, come nel caso in esame, il giudizio sull'accoglimento, sul rigetto o sulla declaratoria di inammissibilita' di un ricorso per ricusazione di un giudice deve essere espresso addirittura dai colleghi del medesimo collegio, i quali quotidianamente svolgono udienza con il giudice ricusato che, a sua volta, dovra' giudicare il ricorso per ricusazione eventualmente diretto nei confronti di alcuno dei componenti del collegio remittente. Tale irragionevole "reciprocita'" di giudizi tra magistrati e' stata, infatti, ormai radicalmente espunta dal legislatore dagli ordinamenti processuali penale e civile, rispettivamente dagli artt. 1 e 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420. Inoltre, gia' la Corte suprema di cassazione penale, nel previdente codice di rito ed addirittura ancor prima delle richiamate novelle legislative processuali penali e civili, accogliendo un'istanza di rimessione del processo, affermo' - a proposito del condizionamento ambientale che potevano subire magistrati giudicanti in processi in cui erano coinvolti, come nel caso di specie, colleghi o vice-pretori con i quali avevano svolto funzioni giudicanti nel medesimo collegio - che tale circostanza, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 232 del 1984, era astrattamente idonea a far sorgere il dubbio che, a causa degli inevitabili instaurati rapporti interpersonali di vario genere, potesse verificarsi una qualche turbativa della serenita' e della imparzialita' dei giudizi, ritenendo, tuttavia, necessario, di volta in volta, l'accertamento che tale astratto dubbio avesse assunto in concreto i connotati di quella particolare situazione di fatto effettivamente idonea a menomare oggettivamente l'imparzialita' di giudizio (Cass. Pen., 1a sez., n. 2771, CC. 23 giugno 1986, Iraci, edita in La giustizia penale, 1987 fasc. 11, parte III, pag. 584). Tanto premesso ritiene questa Corte d'appello di dover sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24, 104 e 111 della Costituzione: a) dell'art. 53, primo comma, del cod. proc. civ. nella parte in cui prevede, nell'ambito del processo civile, che "sulla ricusazione ... decide, con ordinanza non impugnabile, [lo stesso] collegio [cui appartiene il magistrato ricusato] se e' ricusato uno dei componenti del tribunale o della Corte" e non gia' (come e' previsto dall'art. 40, primo comma cod. proc. pen. nell'ambito del processo penale), "una sezione della Corte [d'appello] diversa da quella cui appartiene il giudice [della Corte d'appello] ricusato", con ordinanza ricorribile per cassazione; b) del combinato disposto degli articoli 53, secondo comma e 54, terzo comma cod. proc. civ. nella parte in cui prevede che l'ordinanza che decide sulla ricusazione di un giudice [civile] non e' impugnabile, nonche' nella parte in cui prevede, sempre con statuizione non impugnabile, in caso di declaratoria di rigetto o di inammissibilita' del ricorso, l'automatica condanna della parte che ha proposto la ricusazione al pagamento di una pena pecuniaria, senza consentire al giudice della ricusazione alcuna doverosa valutazione, ai predetti fini, della temerarieta' o meno del ricorso e, quindi, l'opportunita' di applicare o meno la pena pecuniaria, eventualmente graduandola caso per caso; c) dell'art. 30-bis del cod. proc. civ., introdotto dall'art. 9, legge 2 dicembre 1998, n. 420, nella parte in cui non prevede che il giudizio incidentale sulla ricusazione di un giudice della sezione civile della Corte d'appello venga devoluto alla cognizione di un giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale, allorquando nella sede non vi sia altra sezione "diversa" da quella cui appartiene il magistrato ricusato. Secondo quanto stabilito dall'art. 52 cod. proc. civ., l'istanza di ricusazione da' luogo ad un procedimento incidentale che inizia con un ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, contenente i motivi specifici ed i mezzi di prova, che va depositato in cancelleria due giorni prima dell'udienza, a pena d'inammissibilita', se al ricorrente e' noto, o anche solo conoscibile, il nome dei giudici che sono chiamati a decidere la causa e prima dell'inizio della discussione o trattazione di questa nel caso contrario. A norma del successivo art. 53, secondo comma, cod. proc. civ., la decisione sulla ricusazione e' pronunciata dal presidente del tribunale, se e' ricusato un giudice di pace ed il [medesimo] collegio [cui appartiene il giudice ricusato] se e' ricusato uno dei componenti del tribunale o dalla Corte d'appello civile con ordinanza non impugnabile, "udito il giudice ricusato e assunte, quando occorre, le prove offerte". Non vi e' dubbio, quindi, che l'attivita' istruttoria da compiersi, di natura giurisdizionale, vedra' contrapporsi, da un lato, l'interesse processuale del ricorrente a sostenere le proprie accuse nei riguardi dei magistrati ricusati e, dall'altro, il contrario interesse di questi ultimi a respingere le accuse stesse, attraverso le prove contrarie che riterranno di produrre. Appare, pertanto, in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Costituzione) il fatto che le garanzie di trasparenza, di credibilita', imparzialita' ed indipendenza della funzione giurisdizionale civile debbano essere inferiori rispetto a quelle apprestate dal legislatore nel rito penale. Tale "equiparazione", dopo reiterati moniti della Consulta, e stata recepita dal legislatore, tanto che con l'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 sono state recentemente estese al rito civile le stesse norme sulla traslatio (gia' previste dal rito penale) ad un distretto di Corte d'appello (individuato ex art. 11 cod. proc. pen.) diverso da quello in cui esercita le funzioni giudiziarie il magistrato che sia comunque parte in un procedimento civile. Tanto premesso, alla luce della circostanza che il legislatore ha voluto porre sullo stesso piano la garanzia che il magistrato debba "apparire ancor prima che essere" imparziale ed indipendente tanto nel processo penale quanto in quello civile (artt. 1 e 9, legge 2 dicembre 1998, n. 420), svela tutta la sua irrazionalita' la persistente diversa disciplina, residuata esclusivamente tra il procedimento incidentale di ricusazione nel rito civile e l'analogo procedimento nel rito penale. Infatti, mentre nel rito penale, a norma dell'art. 40, primo comma cod. proc. pen., e' previsto che sulla ricusazione di un giudice del tribunale, della Corte di assise o della Corte di appello decide la Corte di appello e su quella di un giudice della Corte d'appello decide, con ordinanza ricorribile per cassazione, una sezione della Corte d'appello penale "diversa" da quella cui appartiene il giudice [della Corte d'appello] ricusato, nel rito civile, a norma dell'art. 53 cod. proc. civ., e' previsto che sulla ricusazione di un giudice del tribunale civile o della Corte d'appello civile decide lo stesso collegio cui appartiene il magistrato ricusato, peraltro con ordinanza non impugnabile, con la quale la parte che l'ha proposta, in caso di rigetto o declaratoria di inammissibilita', deve essere comunque condannata sia al pagamento delle spese, sia al pagamento di una pena pecuniaria. Ad avviso di questa Corte remittente, la disciplina processuale di cui al combinato disposto degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ., si pone in contrasto con: a) il principio di ragionevolezza, ponendosi in irrazionale e stridente conflitto anche con la novella di cui all'art. 30-bis del codice di procedura civile, con la quale il legislatore ha ormai rimosso, ai fini di che trattasi, ogni residua "diversita'" tra il rito penale e quello civile nei quali siano, a qualunque titolo, coinvolti interessi di parte dei magistrati, non essendovi alcun dubbio che il procedimento incidentale di ricusazione abbia ad oggetto proprio la valutazione della sussistenza o meno di un "interesse" (ex art. 52 c.p.c., in relaz. all'art. 51, primo comma n. 1 c.p.c.) da parte dei giudici ricusati, che - qualora sussistente - e' idoneo a ledere il diritto soggettivo del cittadino ad essere giudicato da un giudice "indipendente ed imparziale" (artt. 104 della Costituzione ed art. 6, primo comma della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848). Di qui la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 53, secondo comma del cod. proc. civ., per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede, nell'ambito del processo civile, che sulla ricusazione di un magistrato del tribunale civile o della Corte d'appello civile decide, con ordinanza non impugnabile, con irrazionale "reciprocita'", lo "stesso" collegio cui appartiene il magistrato ricusato il quale, a sua volta, in base alla norma denunciata, sara' chiamato ad esprimere il medesimo giudizio sull'eventuale ricusazione proposta nei riguardi degli stessi colleghi che l'hanno giudicato; b) l'art. 24 della Costituzione, sia perche' sancisce la non impugnabilita' dell'ordinanza che decide sulla ricusazione di un giudice civile, sia perche' prevede, in caso di declaratoria di inammissibilita' o di rigetto del relativo ricorso, anche l'automatica condanna della parte che ha proposto la ricusazione al pagamento delle spese, nonche' la condanna ad una pena pecuniaria, senza consentire al giudice della ricusazione alcuna doverosa valutazione, ai predetti fini, della temerarieta' o meno del ricorso e, quindi, l'opportunita' di applicare o meno la pena pecuniaria, eventualmente graduandola caso per caso. Quanto alla censura concernente la non impugnabilita' dell'ordinanza de qua, prescindendo dalla irrazionale disciplina che, mentre da un lato ha equiparato il giudizio penale a quello civile, nei processi in cui siano coinvolti interessi di parte di magistrati, dall'altro consente la impugnabilita' della sola ordinanza che decide sulla ricusazione di un giudice penale, continuando ad escluderla nel rito civile, nonostante l'ordinanza de qua sia destinata a salvaguardare, oltre al principio della "naturalita'" del giudice (art. 25, primo comma Cost.), anche il diritto soggettivo del cittadino ad essere giudicato da un giudice "indipendente ed imparziale" (art. 104 della Costituzione ed art. 6, primo comma della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), diritto che postula ontologicamente la sua tutetabilita' giurisdizionale e, pertanto, la sua impugnabilita'. Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione concernente l'illegittimo automatismo della condanna della parte, in caso di rigetto o di declaratoria di inammissibilita' del ricorso per ricusazione, al pagamento delle spese e ad una pena pecuniaria ritiene questa Corte, per motivi di sintesi, di richiamarsi integralmente - per l'identita' della questione - alle autorevoli motivazioni della recente sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000. Quanto alla rilevanza delle dedotte questioni questa Corte d'appello ritiene che, come puntualmente recepito dal legislatore con l'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420, la credibilita' dell'organo giudicante civile venga irreversibilmente minata allorquando un giudice sia chiamato a giudicare sulla condotta tenuta da un collega col quale svolge quotidianamente, nel medesimo collegio, la propria attivita' giurisdizionale, proprio per quegli inevitabili rapporti interpersonali e di familiarita' di vario genere che si vengono ad instaurare. Con riferimento allo specifico attuale procedimento va, altresi', evidenziato che: a) nel giudizio incidentale in corso questo collegio deve decidere sul ricorso per ricusazione proposto nei confronti di colleghi della cd. "sezione promiscua" di questa Corte d'appello, con i quali gli attuali giudicanti hanno svolto, svolgono e continueranno a svolgere, quasi quotidianamente, funzioni giudiziarie collegiali penali e civili; b) il giudizio investe la condotta tenuta dai propri colleghi, gia' invitati dall'istante avv. Wilfredo Vitalone ad astenersi (istanza non accolta da alcuno dei colleghi ricusati), ai quali e' stato addebitato - nel ricorso per ricusazione - di essere "ripetutamente incorsi in gravi violazioni di legge" per avere "affermato circostanze incontrastabilmente escluse dagli atti del procedimento e, al contempo, negato circostanze incontrastabilmente risultanti dagli atti del procedimento" (pagg. 1-2 dell'istanza di ricusazione), onde il giudizio devoluto puo' essere astrattamente prodromico sia all'accertamento della sussistenza di fatti e condotte suscettibili di valutazione disciplinare (e' pacifico infatti, in giurisprudenza, che la violazione del dovere di astensione integri una mancanza disciplinare), sia di valutazione in altra sede civilistica (che, a norma dell'art. 30-bis c.p.c. e dell'art. 8, secondo comma, legge 13 aprile 1988, n. 117, appartiene alla competenza di altra Corte d'appello individuata ex art. 11 cod. proc. pen.); c) il presidente della Corte d'appello di Perugia ha rigettato la richiesta di astensione di due componenti del collegio, i quali avevano rappresentato, ex art. 51, secondo comma cod. proc. civ., la sussistenza di gravi ragioni di convenienza che non li ponevano nelle indispensabili condizioni di serenita', imparzialita' ed indipendenza per esprimere il giudizio sulla ricusazione dei propri colleghi di collegio ed, essendo il rigetto stato motivato proprio in virtu' della [ritenuta incostituzionale] formulazione delle norme denunciate, non esiste altra possibilita' per restituire credibilita' alla funzione giurisdizionale espletata dal collegio, nonche' serenita' alla coscienza, indipendenza ed imparzialita' dei giudici remittenti; d) le norme sottoposte a scrutinio di costituzionalita' non soltanto minano la credibilita' della funzione giurisdizionale, ma anche - e soprattutto - la irrinunciabile serenita' di giudizio dei componenti del collegio, per la consapevolezza di dover giudicare, con ordinanza definitiva (perche' non impugnabile) la fondatezza o meno di condotte ascritte a propri colleghi (astrattamente prodromiche all'accertamento di fatti di rilievo disciplinare e/o di responsabilita' di altra natura civilistica) con i quali, per il quotidiano espletamento di funzioni giudiziarie collegiali, intercorrono peculiari rapporti interpersonali di lavoro e di inevitabile frequentazione, con grave condizionamento del collegio giudicante, compromissione dell'immagine e della funzionalita' dell'attivita' giurisdizionale, nonche' - soprattutto - dell'imparzialita' ed indipendenza dei giudici remittenti; e) in caso di declaratoria di rigetto o di inammissibilita' del ricorso per ricusazione dei predetti colleghi, il collegio dovra' - con ordinanza non impugnabile - automaticamente anche condannare la parte che ha proposto il ricorso per ricusazione al pagamento delle spese, nonche' ad una pena pecuniaria, senza che la norma denunciata consenta al collegio alcuna valutazione in ordine alla temerarieta' o meno del ricorso stesso, ne' consenta di decidere se applicare o meno (ed eventualmente graduare) la pena pecuniaria, con ulteriore inevitabile compromissione sia della funzionalita' e credibilita' dell'attivita' giurisdizionale, sia della stessa serenita', imparzialita' e - soprattutto - indipendenza della coscienza dei giudici remittenti. Ritiene da ultimo la Corte, per completezza, e con concreto riferimento alla fattispecie in esame, non manifestamente infondata la denuncia di incostituzionalita' dell'articolo 30-bis del cod. proc. civ., introdotto dall'articolo 9, legge 2 dicembre 1998, n. 420, per contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), nonche' con il diritto del cittadino ad essere giudicato da un giudice indipendente ed imparziale (art. 104 della Costituzione ed art. 6, primo comma della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), nella parte in cui non prevede che il giudizio incidentale sulla ricusazione di un giudice della sezione civile della Corte d'appello venga devoluto alla cognizione di un giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di altra Corte d'appello, determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale, allorquando nella sede del distretto interessato non vi sia altra "sezione diversa" da quella cui appartiene il magistrato ricusato. La rilevanza della questione, nel caso di accoglimento della questione di costituzionalita' del combinato disposto degli art. 53 e 54 cod. proc. civ., discende dal fatto che presso questa Corte d'appello esistono una sola sezione penale ed una sola sezione civile, oltre ad una sezione promiscua della quale, nei giudizi di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte suprema di cassazione civile o penale, ovvero nelle ipotesi di astensione o di incompatibilita' di consiglieri della sezione civile o della sezione penale di questa Corte, sono stati e saranno chiamati a farne parte, in varia composizione e spesso nel medesimo collegio, sia alcuni dei consiglieri ricusati, sia i componenti di questo collegio rimettente e, pertanto, di fatto non esiste, presso questa Corte, una "sezione diversa da quella cui appartengono" i magistrati ricusati.