ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell'art. 203 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 2 dicembre 1999 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di P. O., iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, 1a serie speciale, dell'anno 2000. Visti gli atti di costituzione di P. O. e del Commissario straordinario della Pianelli & Traversa S.a.s. in amministrazione straordinaria nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 28 novembre 2000 il giudice relatore Giovanni Maria Flick; Udito l'avv. Giuseppe Zanalda per il Commissario straordinario della Pianelli & Traversa s.a.s. in amministrazione straordinaria. Ritenuto che, con ordinanza emessa il 2 dicembre 1999, il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell'art. 203 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), "per omessa menzione", nella seconda delle norme impugnate, "anche dell'art. 222 della legge fallimentare, con riferimento alla posizione, e conseguente responsabilita' penale, dei soci illimitatamente responsabili di societa' ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria che abbiano disposto di propri beni personali"; che il giudice a quo premette di essere investito del processo a carico di persona imputata del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata, di cui agli artt. 1 della legge n. 95 del 1979, 203, primo comma, 222, 216, primo comma, numero 1 e secondo comma, 219, primo comma, della legge fallimentare, per avere, nella qualita' di socio accomandatario di una societa' in accomandita semplice, distratto beni personali dopo l'ammissione della societa' alla procedura di amministrazione straordinaria di cui alla legge n. 95 del 1979; che, nel ritenere l'ipotesi accusatoria avvalorata, in linea di fatto, dall'istruttoria dibattimentale, il giudice a quo esclude, tuttavia, che la condotta sopra descritta possa venire inquadrata, alla luce del dato normativo, nella fattispecie criminosa contestata; che - ricordate le contrastanti opinioni espresse dalla dottrina, in assenza di specifiche pronunce della giurisprudenza di legittimita', circa l'applicabilita' delle norme penali fallimentari ai soci illimitatamente responsabili di societa' sottoposte ad amministrazione straordinaria (ovvero a liquidazione coatta amministrativa, la cui disciplina e' richiamata dall'art. 1 della legge n. 95 del 1979) - il rimettente assume, infatti, che l'unica interpretazione condivisibile del combinato disposto dell'art. 1, ora citato, e dell'art. 203 della legge fallimentare sia quella che circoscrive la responsabilita' per bancarotta dei predetti soci ai fatti commessi sul patrimonio della societa', con conseguente irrilevanza penale delle condotte distrattive di beni personali; che tale lettura - la quale muove dal rilievo che i soci a responsabilita' illimitata (a differenza di quanto si verifica nel fallimento, in forza dell'art. 147 della legge fallimentare) non vengono direttamente assoggettati ad amministrazione straordinaria, e dunque non perdono, in costanza di essa, la disponibilita' del proprio patrimonio - si imporrebbe segnatamente a fronte della mancata inclusione, fra le norme penali fallimentari richiamate dall'art. 203 della legge fallimentare, dell'art. 222 della stessa legge, e, cioe', proprio della disposizione che vale a fondare la responsabilita' per bancarotta dei soci illimitatamente responsabili che abbiano disposto di beni personali in pendenza di procedure concorsuali diverse dalla liquidazione coatta amministrativa e dall'amministrazione straordinaria: onde una interpretazione di segno opposto a quella prospettata si scontrerebbe - ad avviso del rimettente - con il divieto di analogia in malam partem in materia penale; che, in simile prospettiva, le norme denunciate si porrebbero peraltro in contrasto con il principio di uguaglianza, in quanto il diverso trattamento penalistico della medesima condotta - nel fallimento e nell'amministrazione straordinaria - risulterebbe del tutto irragionevole: i presupposti di ammissione delle societa' di persone all'amministrazione straordinaria sono, infatti, indipendenti dalla condotta dei soci illimitatamente responsabili, i cui atti distrattivi di beni personali avrebbero, anzi, in tale procedura, effetti negativi quasi sempre piu' gravi che non in caso di fallimento; che la denunciata lesione del principio di uguaglianza si apprezzerebbe anche nei riguardi dei creditori, i quali, in mancanza di un deterrente penale per le condotte considerate, troverebbero nell'amministrazione straordinaria una tutela ridotta e "degradata", rispetto a quella offerta dal fallimento: soluzione normativa, questa, non giustificabile neppure facendo leva sulla diversa finalita' delle due procedure (conservativa la prima, liquidatoria l'altra), essendo l'obiettivo del soddisfacimento dei creditori comune anche alla procedura speciale; che l'assetto normativo costituzionalmente corretto - sottolinea, da ultimo, il giudice a quo - sarebbe stato in effetti adottato dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, recante la nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, il quale ha, per un verso, esteso ai soci illimitatamente responsabili gli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza della societa' (art. 23), e, per l'altro, equiparato la dichiarazione stessa a quella di fallimento ai fini dell'applicazione delle norme penali, ivi compreso l'art. 222 della legge fallimentare (art. 95 del d.lgs. n. 270 del 1999); che tale nuova disciplina risulterebbe peraltro inapplicabile nel giudizio a quo al lume dei principi regolatori della successione di leggi penali nel tempo; che nel giudizio di costituzionalita' e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilita' o, comunque, di infondatezza della questione, rilevando come il rimettente invochi una pronuncia additiva in malam partem che esorbita dai poteri di questa Corte; che si e' costituito in giudizio il Commissario della societa' in amministrazione straordinaria, parte civile nel processo a quo il quale ha chiesto, in via principale, che la questione sia accolta e, in subordine, che essa sia rigettata per erroneo presupposto interpretativo, dovendosi ritenere che l'art. 203 della legge fallimentare gia' consenta, in realta', di punire i soci illimitatamente responsabili di societa' in amministrazione straordinaria per fatti di distrazione di beni personali; che si e' costituito, altresi', l'imputato nel processo a quo il quale ha concluso, in via principale, per la declaratoria di inammissibilita' della questione, in quanto finalizzata a colmare un "vuoto" di tutela penale, con intervento precluso a questa Corte dalla riserva di legge sancita dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione; e, in via subordinata, per la dichiarazione della sua infondatezza, in quanto il vizio di costituzionalita' denunciato dal giudice a quo deriverebbe, non tanto dalle norme penali che escludono la configurabilita' del delitto di bancarotta, quanto piuttosto - ed "a monte" - dalle disposizioni che non assoggettano alla procedura di amministrazione straordinaria, di cui alla legge n. 95 del 1979, i beni dei soci illimitatamente responsabili. Considerato che il Tribunale rimettente - muovendo dal presupposto interpretativo (frutto di una selezione tra diverse ipotesi di lettura) per cui l'art. 203 della legge fallimentare, nel richiamo fattone dall'art. 1 della legge n. 95 del 1979, punirebbe, a titolo di bancarotta, i soci illimitatamente responsabili di societa' in amministrazione straordinaria con riferimento ai soli fatti commessi sul patrimonio sociale, e non anche per quelli aventi ad oggetto beni personali; ed assumendo, altresi', che tale regime violi il principio di uguaglianza, nel confronto con la disciplina valevole in caso di fallimento - sollecita l'estensione della previsione punitiva a condotte che, secondo la sua stessa prospettazione, non vi sarebbero comprese (quelle incidenti, per l'appunto, sul patrimonio personale del socio); che all'adozione dell'invocata pronuncia osta in radice, tuttavia, il secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, il quale - per costante giurisprudenza di questa Corte - "nell'affermare il principio che nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l'effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato gia' esistenti" (v. sentenza n. 411 del 1995 e ordinanza n. 392 del 1998; in generale, sulla inammissibilita' di interventi additivi in malam partem in materia penale, cfr. ordinanze nn. 317 del 2000; 51, 245 e 337 del 1999; 106 e 413 del 1998; 297 del 1997); che, pertanto, la questione - tesa evidentemente a provocare una pronuncia di questa Corte in malam partem con effetti di ampliamento di una fattispecie criminosa rispetto al campo applicativo che il giudice rimettente, in via d'interpretazione, le ritiene proprio - deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.