LA CORTE D'APPELLO 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile in  grado
d'appello iscritta al numero di ruolo  sopra  riportato  promossa  da
Coin S.p.A. rappresentata e difesa dagli avv. Fabio  Pulsoni,  Silvia
Maresca e Tiziana Martina in forza di procura a margine  del  ricorso
in appello ed elettivamente  domiciliata  presso  il  suo  studio  in
Milano, via Besana n. 7, appellante; 
    Contro Rosa Miraglia, rappresentata e difesa  dall'avv.  Valfredo
Nicoletti in forza di procura a margine del ricorso introduttivo  del
giudizio di primo grado ed elettivamente domiciliata  presso  il  suo
studio in Milano, via Giorgio Jan n. 12, appellato. 
    Sciogliendo la riserva, 
                            O s s e r v a 
    1. - Con ricorso depositato in data 30 maggio 2005 Rosa  Miraglia
ha chiamato  in  giudizio  Coin  S.p.A.  chiedendo  di  accertare  la
nullita' dell'apposizione del termine ai contratti stipulati in  data
11 novembre 2000, 26 marzo 2001, 20 febbraio 2002, 3 giugno 2002,  21
ottobre 2002, 1° febbraio 2003, 2 maggio 2003, 8 settembre 2003  e  6
marzo 2004, con condanna della societa' convenuta a  ripristinare  il
rapporto di lavoro  e  a  pagare  le  retribuzioni  maturate  dal  10
settembre 2004  sino  alla  riattivazione  del  rapporto  di  lavoro.
Costituendosi in  giudizio  Coin  S.p.A.  ha  contestato  le  pretese
avversarie, deducendo che tutti i contratti  a  termine  erano  stati
stipulati per sostituire dipendenti con  diritto  alla  conservazione
del posto. 
    All'esito dell'assunzione dell'interrogatorio libero delle  parti
e della prova testimoniale, il Tribunale di Milano  con  sentenza  n.
520 del 20 dicembre 2005, pubblicata il 17 febbraio 2006, ritenuta la
legittimita' dei contratti dell'11 novembre 2000 e del 26 marzo 2001,
ha dichiarato  l'illegittimita'  del  termine  apposto  al  contratto
stipulato in data 18 febbraio 2002 per  violazione  dell'art.  1  del
d.lgs. n. 368 del 2001 e che tra le parti e' intercorso  un  rapporto
di lavoro a tempo indeterminato dal 20 febbraio 2002;  ha  condannato
la societa' convenuta a riammettere in servizio  la  ricorrente  e  a
pagare le retribuzioni maturate a decorrere dal 21 settembre  2004  e
sino alla effettiva  riammissione  in  servizio,  oltre  a  interessi
legali e rivalutazione monetaria. 
    Con ricorso depositato in  data  17  febbraio  2007  ha  proposto
appello Coin S.p.A. lamentando l'errore del primo giudice  che,  dopo
avere affermato la legittimita' della  clausola  di  apposizione  del
termine motivata con la sostituzione della signora Avaldi,  la  quale
si era effettivamente assentata nel periodo in questione, e dopo aver
accertato che entrambi i soggetti interessati svolgevano le  mansioni
di  aiuto  commessa,  ha  dedotto  dall'interrogatorio  libero  della
ricorrente e dalla deposizione della teste Fargione che  la  societa'
non aveva adibito la ricorrente alla sostituzione  della  lavoratrice
assente e non aveva applicato lo «scorrimento» tra i vari dipendenti.
Ritiene l'appellante l'errore del primo giudice nell'avere attribuito
rilevanza scriminante non alle mansioni  svolte,  ma  al  reparto  di
lavoro, laddove sarebbe pacifico che il  reparto  e'  irrilevante  ai
fini  della  qualificazione  delle  mansioni  di  aiuto  commessa   o
commessa, considerando che  il  contratto  prevedeva  come  requisito
essenziale le mansioni di aiuto commessa presso la filiale di  Piazza
Cinque Giornate.  In  ogni  caso  avrebbe  dovuto  il  primo  giudice
ammettere e assumere  la  prova  per  testimoni  dedotta.  Ad  avviso
dell'appellante  non  e'  stata   poi   correttamente   valutata   la
deposizione della teste Fargione. 
    Si e' costituita l'appellata e ha resistito. 
    All'udienza   fissata   per   la   discussione   il   procuratore
dell'appellante  ha  chiesto,  in  via  subordinata,   l'applicazione
dell'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133, entrato
in vigore nelle more del giudizio. 
    Il procuratore dell'appellata ha chiesto di  sollevare  questione
di legittimita' costituzionale  della  norma  citata  per  violazione
dell'art. 3 della Costituzione. 
    2. - L'art. 21, comma 1-bis della legge 6 agosto 2008, n. 133 (di
conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25  giugno
2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico,
la  semplificazione,  la  competitivita',  la  stabilizzazione  della
finanza pubblica e la perequazione tributaria) recita: Dopo l'art.  4
del decreto legislativo 6 settembre 2001,  n.  368,  e'  inserito  il
seguente: 
    «Art. 4-bis (Disposizione  transitoria  concernente  l'indennizzo
per la violazione delle norme in materia di apposizione e di  proroga
del termine). - 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data
di entrata in vigore della presente disposizione, e  fatte  salve  le
sentenze  passate  in  giudicato,  in  caso   di   violazione   delle
disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e  4,  il  datore  di  lavoro  e'
tenuto  unicamente  a  indennizzare  il  prestatore  di  lavoro   con
un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un  massimo
di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio  1966,
n. 604, e successive modificazioni.». 
    Occorre in via preliminare delibare in ordine alla rilevanza  nel
presente giudizio  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
prospettata e quindi in ordine alla fondatezza dei motivi di  appello
proposti. 
    Ritiene la Corte, con il primo giudice, che la clausola  indicata
nel contratto 20  febbraio  2002  -  30  aprile  2002  («sostituzione
signora Avaldi assente per permesso malattia bambino ai  sensi  della
legge 8 marzo 2000 art. 15 e t.u. artt. 47, 48 e 49  »)  sia  in  se'
legittima, in quanto rientrante nelle ipotesi  indicate  dall'art.  l
del d.lgs. n. 368 del 2001, che consente l'apposizione di un  termine
a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e
sostitutivo, e rispondente ai requisiti formali previsti dall'art.  2
d.lgs. cit. Del pari, come rilevato dall'appellante,  deve  ritenersi
dimostrato dalla  documentazione  prodotta  (doc.  3  fasc.  I  grado
appellante) che Avaldi e' stata assente nel periodo dal  20  febbraio
2002 al 30 aprile 2002 per fruire di un permesso  non  retribuito  ai
sensi della legge n. 1204/1971; cosi' non e' contestato in causa  che
sia   Avaldi   che   Miraglia   hanno   svolto   le    mansioni    di
aiuto-commessa/commessa presso la Filiale di  Milano,  piazza  Cinque
Giornate. 
    Correttamente il primo giudice ha ammesso la prova per testimoni,
a fronte dell'allegazione di Miraglia nel ricorso ex art. 414  c.p.c.
(cap. 3) di non avere sostituito Avaldi, ma  di  avere  lavorato  nel
reparto casalinghi, e che dal reparto casalinghi non e' stata inviata
altra  commessa  a   sostituire   Avaldi   (c.d.   sostituzione   per
scorrimento) e a fronte della allegazione di Coin S.p.A.  (capp.  42,
43 e 44) di avere assunto Miraglia per sostituire  Avaldi.  La  prova
testimoniale  ha  dimostrato  che  Avaldi  era  addetta  al   reparto
casalinghi e che Miraglia ha lavorato nel periodo in questione  al  V
piano,  reparto  stagionale,  quindi  in  un  reparto   diverso   (t.
Fargione).  Era  allora  onere  di  Coin  S.p.A.  allegare  prima   e
dimostrare poi che la sostituzione era avvenuta «per scorrimento» tra
varie dipendenti, utilizzando la ricorrente in sostituzione di  altra
lavoratrice spostata a coprire la posizione di lavoro di  Avaldi:  ma
questa  allegazione  non  c'e'.  Manca  infatti  nella   memoria   di
costituzione qualsivoglia indicazione in ordine al numero complessivo
dei contratti a termine per le mansioni di aiuto commessa o  commessa
stipulati da Coin S.p.A. nel periodo e alla circostanza che  Miraglia
sia stata assegnata ad un reparto diverso per sostituire una commessa
che a sua volta fosse andata  a  sostituire  Avaldi.  In  assenza  di
questa  allegazione  correttamente  il  tribunale  ha  ritenuto   non
dimostrato il collegamento fra l'assunzione a termine di  Miraglia  e
la causale indicata in contratto. 
    Ne' e'  fondata  la  censura  con  cui  l'appellante  lamenta  la
chiusura in primo grado dell'istruttoria dopo l'audizione della teste
Fargione. Coin S.p.A. non ha in primo grado  chiesto,  come  era  suo
onere, la prosecuzione della prova all'udienza dell'8 settembre 2005,
ne' alla successiva udienza di discussione. In ogni caso non  e'  una
questione di prova ma di allegazione dei fatti. 
    Si perviene  dunque  alla  conclusione  della  correttezza  della
sentenza impugnata con la conseguenza che l'apposizione  del  termine
al contratto di lavoro per cui e' causa e' illegittima per violazione
dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001. 
    Quanto  alle  conseguenze  della  nullita'  dell'apposizione  del
termine sul piano del rapporto di lavoro tra le parti,  questa  Corte
ha  ripetutamente  ritenuto,  trovando  il  conforto  della   recente
pronuncia della Corte di cassazione 21 maggio  2008,  n.  12985,  che
l'art. 1 del  d.lgs.  n.  368  del  2001,  anche  anteriormente  alla
modifica introdotta dall'art. 39 della legge  n.  247  del  2007,  ha
confermato il principio generale secondo cui il  rapporto  di  lavoro
subordinato  e'  normalmente  a  tempo   indeterminato,   costituendo
l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria pur nel sistema, del
tutto nuovo, della previsione di una clausola  generale  legittimante
l'apposizione  del  termine  «per  ragioni  di   carattere   tecnico,
produttivo,  organizzativo  o  sostitutivo».  Pertanto,  in  caso  di
insussistenza delle ragioni giustificative  del  termine,  e  pur  in
assenza di una norma che sanzioni  espressamente  la  mancanza  delle
dette ragioni, in base ai principi generali in  materia  di  nullita'
parziale  del  contratto  e  di  eterointegrazione  della  disciplina
contrattuale, nonche' alla stregua dell'interpretazione dello  stesso
art. 1  citato  nel  quadro  delineato  dalla  direttiva  comunitaria
1999/70/CE (recepita  con  il  richiamato  decreto),  e  nel  sistema
generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato,
tracciato dalla Corte cost. n. 210  del  1992  e  n.  283  del  2005,
all'illegittimita' del termine ed alla  nullita'  della  clausola  di
apposizione dello stesso  consegue  l'invalidita'  parziale  relativa
alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro  a  tempo
indeterminato  con   conseguente   condanna   della   societa'   alla
riammissione in servizio di Miraglia ed al pagamento, in favore della
stessa, delle retribuzioni dalla data di costituzione in  mora  della
societa', oltre interessi  e  rivalutazione  dalle  singole  scadenze
successive alla mora. 
    Poiche' il presente giudizio era in corso alla data di entrata in
vigore della legge n. 133 del 2008 e non  appare  in  dubbio  che  la
norma citata, che non fa distinzioni, si riferisca anche  ai  giudizi
pendenti in grado d'appello, questa Corte,  una  volta  affermata  la
nullita' della clausola di apposizione  del  termine  per  violazione
dell'art. 1 del d.lgs. n.  368  del  2001,  non  potrebbe  confermare
l'impugnata sentenza nella parte in cui ha accertato che il contratto
di lavoro e' sin dall'inizio a tempo indeterminato - con  conseguente
diritto alla riammissione nel posto di lavoro e  al  pagamento  della
retribuzione dalla data della messa  in  mora  alla  riammissione  in
servizio  (quindi  nella  misura  di  almeno  15  mensilita'  dal  21
settembre  2004  al  20  dicembre  2005  data   della   lettura   del
dispositivo) - ma dovrebbe riconoscere esclusivamente l'indennizzo di
cui all'art. 4-bis della legge  n.  368  del  2001,  come  introdotto
dall'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133 del 2008.  Del  pari  la
sentenza appellata non potrebbe  essere  confermata  ove  si  volesse
interpretare l'art. 4-bis  cit.  come  riferito  soltanto  al  regime
economico conseguente alla c.d. conversione del contratto  a  termine
in contratto a tempo indeterminato. 
    Di   qui   la   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    3.  -  Ritiene  questa  Corte  non  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. 6
settembre 2001 n. 368, introdotto dall'art. 21,  comma  1-bis,  della
legge 6 agosto 2008 n. 133 in relazione agli artt. 3, 24, primo comma
e 117, primo comma, della Costituzione. 
    Il legislatore ha ritenuto di applicare la nuova  e  peggiorativa
disciplina normativa del contratto  di  lavoro  a  tempo  determinato
soltanto  a  coloro  che  sono  parte  in  un  giudizio   in   corso,
indipendentemente dalla data di stipulazione del contratto. 
    L'elemento di discrimine  scelto  dal  legislatore  evidenzia  il
primo  profilo  di  illegittimita'  costituzionale,   la   violazione
dell'art.   24,   primo   comma,    della    Costituzione.    L'avere
tempestivamente proposto azione per  la  tutela  giurisdizionale  dei
diritti di cui agli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 diventa
in se' causa di trattamento deteriore rispetto a  chi  alla  data  di
entrata in vigore della legge non ha proposto domanda  giudiziale,  a
fronte della identica situazione in fatto e in diritto. 
    Nella medesima situazione di diritto sostanziale,  l'avere  agito
in giudizio per la tutela del proprio diritto  e'  in  se'  causa  di
esclusione dalla tutela ordinaria, con evidente lesione  del  diritto
all'azione di cui all'art. 24, primo comma, della Costituzione. 
    Sotto un concorrente aspetto, il tempo del processo, che  secondo
i  principi  generali  mutuati  dall'art.  24  dalla   stessa   Corte
costituzionale (v. sent. 28 giugno 1985, n. 190) non  deve  andare  a
danno dell'attore che ha ragione, diventa con la norma impugnata, che
definisce il suo ambito di applicazione esattamente nel  tempo  della
pendenza del processo (dalla  domanda  al  passaggio  in  giudicato),
causa di deterioramento della posizione giuridica sostanziale. 
    Si osserva poi che la disposizione del quarto comma dell'art. 21,
secondo il quale decorsi ventiquattro mesi dalla data di  entrata  in
vigore della legge il Ministro  del  lavoro,  della  salute  e  delle
politiche sociali, all'esito della verifica degli effetti anche della
disposizione  in  esame,  puo'  valutare  l'opportunita'  «della  sua
ulteriore vigenza», appare  ulteriormente  lesivo  del  principio  di
effettivita' e certezza della  tutela  giurisdizionale  e  deterrente
all'esercizio dell'azione,  perche'  l'intraprendere  nelle  more  un
giudizio potrebbe  comportare  l'applicazione  del  regime  deteriore
anche a situazioni che ad oggi troverebbero la piu' estesa tutela. In
considerazione della imprescrittibilita' dell'azione  di  nullita'  e
della possibilita' per il lavoratore di mettere in mora il datore  di
lavoro  con  atti  stragiudiziali,  la  norma  si   traduce   in   un
inammissibile   condizionamento   esterno   a   tempo   indeterminato
all'esercizio dell'azione. 
    4.  -  Sotto  il  profilo  della  violazione  dell'art.  3  della
Costituzione e' ravvisabile disparita' di trattamento  di  situazioni
eguali tertium comparationis, rappresentate dall'insieme dei soggetti
che nel  medesimo  tempo  hanno  stipulato  un  contratto  a  termine
disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001, in violazione degli artt. 1,
2 o 4 del medesimo  decreto  legislativo  e  non  avevano  una  causa
pendente alla data di entrata in vigore della legge n. 133 del 2008. 
    L'elemento di discrimine scelto dal legislatore, oltre che,  come
s'e' detto,  di  per  se'  in  contrasto  con  il  diritto  garantito
dall'art. 24, primo comma, della Costituzione, non giustifica, ad  un
vaglio  di  ragionevolezza,   una   tutela   del   medesimo   diritto
sensibilmente diversa, laddove chi ha proposto la domanda  giudiziale
il giorno successivo all'entrata in vigore della legge  godra'  della
tutela ordinaria, fondata sulla nullita' parziale e sulle conseguenze
che  ne  derivano  secondo  il  diritto  comune,   mentre   l'odierno
appellante null'altro puo' pretendere che un indennizzo compreso  fra
2, 5 e 6 mensilita'. 
    Ne'  la  denunciata  disparita'  di  trattamento  trova  adeguata
giustificazione nella affermata  natura  transitoria  indicata  nella
rubrica   della   norma   (Disposizione    transitoria    concernente
l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di  apposizione
e di proroga del termine). La disposizione in esame non pare avere in
realta' natura di disposizione transitoria in quanto non si ricollega
ad una nuova disciplina degli effetti della violazione degli arti. 1,
2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001 destinata ad operare per il futuro ed in
relazione alla quale si debba ragionevolmente regolare  una  fase  di
transizione. 
    L'art. 21 neppure contiene una riscrittura degli artt. 1, 2  e  4
del d.lgs. n. 368/2001 in relazione alla quale appaia  necessario  un
regime  di  transizione  sotto   il   profilo   sanzionatorio   della
violazione. Le modificazioni introdotte ai  commi  4-bis  e  4-quater
dell'art.  5  del  d.lgs.  n.  368/2001  nel   far   «salve   diverse
disposizioni di contratti collettivi stipulati a  livello  nazionale,
territoriale   o   aziendale   con   le   organizzazioni    sindacali
comparativamente piu'  rappresentative  sul  piano  nazionale»  rende
eventuale un mutamento del regime del contratto a  termine,  comunque
limitato nell'art.  21  al  diritto  di  precedenza  (art.  5,  comma
4-quater) e alla successione dei contratti  (art.  5,  comma  4-bis),
norme  peraltro  non  ricomprese  nell'ambito  di  applicazione   del
comma 1-bis, riferito ai soli casi di violazione degli artt. 1, 2 e 4
del d.lgs. n. 368 del 2001. Ne' l'aggiunta apportata dall'art. 21  al
primo comma dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 pare  giustificare
un regime transitorio. 
    Del pari non e' configurabile quella finalita'  di  regolare  una
situazione  di  «assoluta  eccezionalita»  richiamata   dalla   Corte
costituzionale nella  sentenza  n.  419  del  2000  per  ritenere  la
ragionevolezza dell'intervento legislativo del 1996, peraltro attuato
con una norma che prevedeva come elemento di discrimine  la  data  di
stipulazione del contratto a termine e che era legato,  nel  giudizio
della Corte, esclusivamente all'interesse generale al buon esito  del
processo di privatizzazione, iniziato nel 1993 e terminato nel  1997,
dell'Amministrazione delle Poste e della Telecomunicazioni. 
    La norma impugnata e' destinata invece ad incidere sui  contratti
di lavoro a termine  stipulati  con  qualsivoglia  datore  di  lavoro
privato, in qualsivoglia settore economico, in una situazione che non
pare connotata da «eccezionalita» alcuna. 
    5. - Si ritiene poi non manifestamente infondata la questione  di
legittimita' costituzionale della norma denunciata per contrasto  con
l'art. 117, primo comma, della Costituzione e, per suo  tramite,  con
l'art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma  il  4
novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge
4 agosto 1955, n. 848. 
    L'art.  6  della  CEDU  nell'affermare  il  diritto  al   «giusto
processo» e' stata interpretata dalla Corte europea di Strasburgo nel
senso che «sebbene, in teoria, non e'  precluso  al  legislatore,  in
materia  civile,  di  adottare  nuove  disposizioni  retroattive  per
regolare diritti derivanti da una legge esistente, il principio dello
stato di diritto e la nozione di giusto processo sanciti dall'art.  6
della Convenzione impedisce qualsiasi  ingerenza  del  legislatore  -
salvo  che  per  impellenti  motivi  di  interesse  generale  -   con
l'amministrazione della giustizia volta ad influenzare  la  decisione
giudiziaria di una controversia (§126  sent.  29  marzo  2006  Grande
Camera, causa Scordino contro Italia e  precedenti  ivi  richiamati).
L'art. 6 della  Convenzione,  cosi'  come  interpretato  dalla  Corte
Europea, viene in  tal  modo  a  costituire  «fonte  interposta»  che
fornisce contenuto al parametro  costituzionale  del  rispetto  degli
obblighi internazionali (v. Corte cost. n. 349 del 2007). 
    Nel  caso  in  esame  la  norma  denunciata  modifica  i  diritti
derivanti  dalla  legge  esistente  con  efficacia  limitata  in  via
esclusiva  ai  processi  in  corso,  senza  che  ricorrano  e   siano
esplicitati  gli  «impellenti  motivi  di  interesse  generale»   che
giustifichino la conseguente differente soluzione della controversia. 
    Per queste ragioni la Corte ritiene  di  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis del  d.lgs.  6  settembre
2001, n. 368, introdotto dall'art. 21, comma  1-bis,  della  legge  6
agosto 2008, n. 133, sospendendo il presente giudizio.