ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3  del
decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92  (Misure  urgenti  in  materia  di
rifiuti  e  di  autorizzazione  integrata  ambientale,  nonche'   per
l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti  industriali  di
interesse strategico nazionale), promosso dal Giudice per le indagini
preliminari del  Tribunale  ordinario  di  Taranto  nel  procedimento
penale a carico di S. R. e altri, con ordinanza del 14  luglio  2015,
iscritta al n. 67 del registro  ordinanze  2017  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  20,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7 febbraio  2018  il  Giudice
relatore Marta Cartabia. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r. o. n. 67 del  2017),  il
Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di
Taranto  ha  sollevato  questioni  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in
materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale,  nonche'
per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti  industriali
di interesse strategico nazionale) in riferimento agli artt. 2, 3, 4,
32, primo comma, 35, primo comma, 41,  secondo  comma,  e  112  della
Costituzione. 
    1.1.- Il  rimettente  ha  precisato  di  essere  investito  della
decisione sull'istanza,  depositata  nella  segreteria  del  Pubblico
ministero del medesimo Tribunale e da  questi  trasmessa  all'ufficio
del giudice per le indagini preliminari,  avanzata  dalla  difesa  di
ILVA spa in  amministrazione  straordinaria  (d'ora  innanzi:  ILVA),
affinche' venisse data attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del
2015 in riferimento al sequestro preventivo dell'altoforno denominato
"Afo2" presso lo stabilimento di Taranto della societa'. 
    1.2.- Si procedeva, infatti, a carico di R. S. e altri  dirigenti
e tecnici in servizio presso tale stabilimento, in relazione ai reati
di cui agli artt. 110 e 437, commi 1 e 2, del  codice  penale  -  per
avere, in concorso, omesso di predisporre cautele volte  a  prevenire
la proiezione di materiale incandescente e  strumentazioni  idonee  a
garantire  l'incolumita'  dei  lavoratori,   da   cui   e'   derivato
l'infortunio mortale di un operaio - e agli  artt.  113  e  589  cod.
pen., per avere determinato la morte del predetto operaio mediante le
omissioni di cui sopra. 
    Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico  ministero  ha
disposto, con decreto del 18 giugno  2015,  il  sequestro  preventivo
d'urgenza, senza facolta' d'uso, del citato altoforno, ravvisando  le
esigenze cautelari di cui all'art. 321, commi 1 e 2,  del  codice  di
procedura penale. 
    Con ordinanza del 29 giugno 2015, il rimettente ha convalidato il
decreto del pubblico ministero e ha disposto il sequestro  preventivo
dello stesso impianto, senza facolta' d'uso. 
    E' quindi intervenuto l'impugnato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015,
la cui rubrica recita: «Misure urgenti per l'esercizio dell'attivita'
di impresa di stabilimenti  oggetto  di  sequestro  giudiziario».  Il
comma  1  prevede  che  «[a]l  fine  di   garantire   il   necessario
bilanciamento  tra  le   esigenze   di   continuita'   dell'attivita'
produttiva, di salvaguardia  dell'occupazione,  della  sicurezza  sul
luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonche'  delle
finalita' di giustizia, l'esercizio dell'attivita' di  impresa  degli
stabilimenti di interesse strategico nazionale non  e'  impedito  dal
provvedimento di sequestro [...] quando lo  stesso  si  riferisca  ad
ipotesi  di  reato   inerenti   alla   sicurezza   dei   lavoratori»,
specificando che cio' era gia' previsto dall'articolo 1, comma 4, del
decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a  tutela
della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso  di
crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n.  231.
Il comma  2  aggiunge  che  «[t]enuto  conto  della  rilevanza  degli
interessi  in  comparazione,  nell'ipotesi  di  cui   al   comma   1,
l'attivita' d'impresa non puo' protrarsi  per  un  periodo  di  tempo
superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro». Il
successivo  comma  3  stabilisce  poi  che  «[p]er  la   prosecuzione
dell'attivita' degli stabilimenti di cui al comma 1, senza  soluzione
di continuita', l'impresa deve predisporre, nel termine perentorio di
30 giorni dall'adozione del  provvedimento  di  sequestro,  un  piano
recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per
la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto
oggetto   del   provvedimento   di   sequestro»,   aggiungendo    che
«[l]'avvenuta predisposizione del piano e'  comunicata  all'autorita'
giudiziaria procedente». Il comma 4 dispone, inoltre, che «[i]l piano
e' trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici
della ASL e dell'INAIL competenti per territorio  per  le  rispettive
attivita' di vigilanza e controllo, che devono garantire un  costante
monitoraggio delle aree di produzione  oggetto  di  sequestro,  anche
mediante  lo  svolgimento   di   ispezioni   dirette   a   verificare
l'attuazione  delle  misure  ed  attivita'  aggiuntive  previste  nel
piano», ulteriormente precisando che «[l]e amministrazioni provvedono
alle  attivita'  previste  dal  presente  comma   nell'ambito   delle
competenze istituzionalmente attribuite, con le  risorse  previste  a
legislazione vigente». Infine, il comma 5, contiene una  disposizione
transitoria, in base  alla  quale  «[l]e  disposizioni  del  presente
articolo si  applicano  anche  ai  provvedimenti  di  sequestro  gia'
adottati alla data di entrata in vigore  del  presente  decreto  e  i
termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data». 
    1.3.- I difensori di ILVA hanno chiesto al pubblico ministero  di
dare attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015,  il  quale,
nella  loro  interpretazione,  dispone  una   sospensione   ex   lege
dell'esecuzione  del  vincolo   reale,   rispetto   alla   quale   il
provvedimento dell'autorita' giudiziaria competente - individuata nel
pubblico ministero in quanto organo che si deve occupare dei  profili
esecutivi  del  sequestro  preventivo  -  assumerebbe   mero   valore
dichiarativo. 
    1.4.-  Il  pubblico  ministero  ha  trasmesso  gli  atti  per  la
decisione  al  giudice  per  le  indagini  preliminari  dello  stesso
Tribunale, esprimendo parere contrario all'accoglimento dell'istanza. 
    In particolare, la pubblica accusa ha ritenuto che il citato art.
3 del d.l. n. 92 del 2015 non potesse caducare  il  provvedimento  di
sequestro  in  atto,  in  quanto  altrimenti  si  sarebbe  realizzata
un'ingerenza del  potere  legislativo  nelle  prerogative  di  quello
giudiziario. Inoltre, il provvedimento  di  sequestro  di  uno  degli
altoforni non avrebbe compromesso l'intera attivita' di impresa,  con
la  conseguenza  che  la  disposizione  in  esame  -  la   quale   e'
dichiaratamente  volta  allo  scopo  di  garantire   la   continuita'
dell'esercizio  dell'attivita'  di  impresa  degli  stabilimenti   di
interesse strategico nazionale - non sarebbe stata  applicabile  alla
specie. L'organo competente a  decidere  sarebbe  stato,  dunque,  il
giudice delle indagini preliminari, quale organo che aveva emesso  il
provvedimento di  sequestro  sulla  cui  «sostanza»  la  disposizione
legislativa avrebbe inciso. 
    In via subordinata, lo stesso pubblico ministero  ha  chiesto  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale del citato art.  3
del d.l. n. 92 del 2015. 
    1.5.- Il giudice per  le  indagini  preliminari  ha  ritenuto  di
essere competente a decidere sull'istanza. 
    Secondo il rimettente, infatti, la disposizione in esame  avrebbe
sottoposto il sequestro  a  una  condizione  sospensiva  negativa  di
efficacia  -  realizzata  dalla  mancata  predisposizione,  da  parte
dell'impresa, di un piano  di  intervento  entro  trenta  giorni  dal
provvedimento  -  e  a  un  termine  dilatorio  eventuale,  cosi'  da
stabilire la durata massima dell'esercizio  dell'attivita'  d'impresa
per un periodo di dodici mesi in pendenza del vincolo cautelare. 
    Ricostruita in tal modo la portata della disposizione, il giudice
a quo ha ritenuto che essa attenga all'esecutivita' del titolo, sulla
quale e' competente a decidere, ai sensi dell'art. 665, comma 1, cod.
proc. pen., il giudice che lo ha deliberato. 
    Secondo il giudice  per  le  indagini  preliminari,  inoltre,  si
sarebbe dovuto procedere nelle forme  dell'incidente  di  esecuzione,
adottando la procedura semplificata di cui  all'art.  667,  comma  4,
cod. proc. pen., applicabile analogicamente (e a maggior ragione)  ai
casi, come quello di specie, in cui occorra  decidere  sull'efficacia
del sequestro, anziche' sulla confisca  e  sulla  restituzione  delle
cose sequestrate. 
    1.6.- Il rimettente ha poi ritenuto che il citato art. 3 del d.l.
n. 92  del  2015  sia  applicabile  alla  specie  sottoposta  al  suo
giudizio. 
    Infatti, pur considerando che la lettura  proposta  dal  pubblico
ministero   «non   si   presenta   affatto   peregrina»,   anche   in
considerazione  di  «una  tecnica  normativa  impropria  (determinata
probabilmente dalla fretta)», cio' nondimeno la disposizione  avrebbe
dovuto ritenersi applicabile anche ai casi in cui, come nella specie,
«le  misure  cautelari  attingano,   nel   concreto,   non   l'intero
stabilimento, bensi' soltanto  singoli  impianti,  e  non  comportino
necessariamente l'interruzione  dell'attivita'  d'impresa»:  cio'  in
quanto nei  commi  3  e  4  del  medesimo  art.  3  ci  si  riferisce
rispettivamente all'«impianto oggetto del provvedimento» e  ad  «aree
di produzione  oggetto  di  sequestro».  Inoltre,  il  richiamo  alla
precedente  normativa,  riguardante  la  prosecuzione  dell'attivita'
negli  impianti  dello  stabilimento  ILVA,   renderebbe   inequivoca
l'applicabilita' del citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015  anche  al
sequestro di singoli impianti. 
    1.7.-  Considerata  percio'  la   rilevanza   -   e   pur   nella
consapevolezza  che,  nelle  more   della   decisione   della   Corte
costituzionale,  sarebbero  stati   adottati   probabili   interventi
emendativi della disciplina censurata - il giudice a quo ha  ritenuto
suo  dovere  investire  il  giudice  delle  leggi  dei   dubbi,   non
manifestamente infondati, di legittimita' costituzionale  del  citato
art. 3, del quale egli avrebbe dovuto fare applicazione «qui  e  ora»
per decidere sull'istanza difensiva sopra descritta. 
    Il rimettente, infatti, ritiene  che  la  disposizione  censurata
presenti profonde differenze rispetto alla precedente  disciplina  di
cui agli artt. 1 e 3 del  d.l.  n.  207  del  2012,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 231 del 2012, considerata  non  affetta
da illegittimita' costituzionale dalla Corte  costituzionale  con  la
sentenza n. 85 del 2013, per la presenza  di  «specifici  contrappesi
normativi», mancanti nella specie ora in esame,  e  costituiti  dalla
subordinazione   della    prosecuzione    dell'attivita'    d'impresa
all'osservanza  dell'autorizzazione  integrata  ambientale  e   dalla
predisposizione di una precisa procedura di monitoraggio. 
    Sarebbe percio' assente nella disciplina in esame un  ragionevole
punto  di  bilanciamento  tra  i  diversi  interessi   costituzionali
coinvolti e da  cio'  conseguirebbe  l'illegittimita'  costituzionale
dell'impugnato art. 3. 
    1.8.- In particolare, secondo il giudice a quo,  sarebbe  violato
l'art. 2 Cost., in quanto la norma impugnata, consentendo l'esercizio
dell'attivita' d'impresa, pur in presenza di impianti pericolosi  per
la vita o l'incolumita' umana (come attestato dalla  tragica  vicenda
dell'operaio deceduto), comprometterebbe diritti  fondamentali  della
persona definiti «inviolabili» dalla Carta costituzionale. 
    1.9.- Il rimettente ritiene che non sia stato rispettato  neanche
l'art. 3 Cost., in quanto la disposizione in  giudizio  riserva  alle
imprese  di  interesse   strategico   nazionale   un   ingiustificato
privilegio nell'adeguamento agli standard di sicurezza rispetto  agli
altri operatori economici, finendo altresi' per esporre i  lavoratori
di tali aziende a fattori di rischio piu'  elevato,  cosi'  violando,
sotto entrambi i profili, il principio costituzionale di eguaglianza. 
    1.10.- Il giudice a quo ravvisa, poi, una violazione degli  artt.
4 e 35, primo comma, Cost., in quanto il diritto al lavoro presuppone
condizioni di sicurezza nell'esecuzione  della  prestazione,  che  la
normativa censurata compromette. 
    1.11.- Sarebbe inciso anche l'art. 32,  primo  comma,  Cost.,  in
quanto la disciplina in esame mette in  pericolo  la  stessa  vita  e
incolumita' individuale del cittadino-lavoratore, compromettendone il
diritto alla salute nella sua  forma  estrema,  senza  operare  alcun
ragionevole bilanciamento con altri diritti. 
    1.12.- Il rimettente ritiene inoltre violato l'art.  41,  secondo
comma, Cost., in quanto la prosecuzione dell'attivita' in un impianto
pericoloso e mortale, in  presenza  di  un  progetto  unilateralmente
predisposto   dall'azienda   interessata   e   non   sindacabile    o
controllabile da altri, non rispetta il principio costituzionale  che
esige che l'attivita' economica privata si  svolga  in  modo  da  non
recare danno alla sicurezza, alla liberta' e alla dignita' umana. 
    1.13.- Infine, il giudice a quo ritiene pregiudicato il principio
di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost.,  che
deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei
reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, che si esplica
anche  nell'adozione  di  misure   cautelari   reali   di   carattere
preventivo. La disciplina censurata, in assenza di qualsiasi punto di
equilibrio,    comprometterebbe    irragionevolmente,    e    percio'
illegittimamente,  tale  «potesta'  costituzionale»,  consentendo  il
perpetuarsi di una situazione penalmente  rilevante  quanto  meno  ai
sensi dell'art. 437 cod. pen. e, in caso di  incidenti,  degli  artt.
589 e 590 cod. pen. 
    1.14.-  Manifestamente  infondato  viene  invece  considerato  il
dubbio di legittimita' costituzionale dedotto dal pubblico  ministero
per violazione dell'art. 3 in relazione all'art. 77,  secondo  comma,
Cost.: il rimettente, infatti, ritiene sussistenti  nella  specie  le
ragioni che devono sostenere la decretazione d'urgenza. 
    2.- Nelle more della scadenza del termine per la conversione  del
d.l. n. 92 del 2015, l'art. 1, comma 2, della legge 6 agosto 2015, n.
132 (Conversione in legge, con modificazioni,  del  decreto-legge  27
giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in  materia  fallimentare,
civile e processuale  civile  e  di  organizzazione  e  funzionamento
dell'amministrazione giudiziaria) ha abrogato il censurato art. 3 del
d.l. n. 92 del 2015, prevedendo, peraltro,  che  restino  validi  gli
atti e i provvedimenti adottati e che siano fatti salvi  gli  effetti
prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base della disposizione
abrogata. Il testo della disposizione abrogata e'  stato  riprodotto,
tuttavia, nell'art. 21-octies della medesima legge n. 132 del 2015. 
    3.- Con atto depositato il  6  giugno  2017  e'  intervenuto  nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. 
    Ad   avviso   dell'Avvocatura   generale   l'abrogazione    della
disposizione  censurata   determinerebbe   l'inammissibilita'   delle
questioni per «sopravvenuta carenza di interesse». 
    Nel merito si evidenzia come il nuovo art. 21-octies della  legge
n. 132 del 2015 consenta la  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva
per un periodo massimo di 12 mesi dall'adozione del provvedimento  di
sequestro e a condizione che entro trenta giorni sia  predisposto  un
piano contenente misure aggiuntive, anche di natura provvisoria,  per
la tutela della sicurezza dei  lavoratori  sull'impianto  oggetto  di
cautela reale. Il suddetto piano deve essere comunicato all'autorita'
giudiziaria e al Comando  provinciale  dei  Vigili  del  fuoco,  agli
uffici  dell'ASL  e  dell'INAIL  competenti  per  territorio  per  le
rispettive attivita' di vigilanza e di controllo. 
    La difesa erariale osserva, sulla base di quanto si evince  dalla
relazione di accompagnamento alla legge di conversione del d.l. n. 83
del 2015, che la disciplina di cui  all'art.  21-octies  si  pone  in
linea di continuita' con l'art. 1, comma 4, del d.l. n. 207 del 2012,
ed e' volta a salvaguardare i livelli di occupazione  compatibilmente
con la  tutela  dell'ambiente  e  della  salute  dei  lavoratori.  La
disposizione censurata, pertanto, godrebbe della  medesima  copertura
costituzionale gia' riconosciuta  alla  precedente  disciplina  dalla
sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale. 
    Ne deriverebbe, in conclusione, la non fondatezza delle questioni
sollevate. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r.  o.  n.  67  del  2017),
trasmessa a questa Corte con le formalita' richieste il successivo  7
febbraio 2017, il Giudice per le indagini preliminari  del  Tribunale
ordinario  di  Taranto  dubita  della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in
materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale,  nonche'
per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti  industriali
di interesse strategico nazionale). 
    L'art. 3 impugnato prevede,  al  comma  1,  che:  «[a]l  fine  di
garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di  continuita'
dell'attivita' produttiva, di  salvaguardia  dell'occupazione,  della
sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente  salubre,
nonche' delle finalita' di giustizia, l'esercizio  dell'attivita'  di
impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale  non  e'
impedito  dal  provvedimento  di  sequestro,   come   gia'   previsto
dall'articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n.  207,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n.  231,
quando lo stesso si riferisca  ad  ipotesi  di  reato  inerenti  alla
sicurezza dei lavoratori»; al comma  2  che:  «[t]enuto  conto  della
rilevanza degli interessi in comparazione,  nell'ipotesi  di  cui  al
comma 1, l'attivita' d'impresa non puo' protrarsi per un  periodo  di
tempo  superiore  a  12  mesi  dall'adozione  del  provvedimento   di
sequestro»; al comma 3 che:  «[p]er  la  prosecuzione  dell'attivita'
degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuita',
l'impresa deve predisporre,  nel  termine  perentorio  di  30  giorni
dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure
e attivita' aggiuntive, anche di  tipo  provvisorio,  per  la  tutela
della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite  all'impianto  oggetto
del provvedimento di sequestro. L'avvenuta predisposizione del  piano
e' comunicata all'autorita' giudiziaria procedente»; al comma 4  che:
«[i]l piano e' trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco,
agli uffici della ASL e dell'INAIL competenti per territorio  per  le
rispettive attivita' di vigilanza e controllo, che  devono  garantire
un  costante  monitoraggio  delle  aree  di  produzione  oggetto   di
sequestro, anche mediante  lo  svolgimento  di  ispezioni  dirette  a
verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste
nel piano. Le amministrazioni provvedono alle attivita' previste  dal
presente  comma  nell'ambito   delle   competenze   istituzionalmente
attribuite, con le risorse previste a legislazione vigente»; al comma
5 che: «[l]e disposizioni del presente articolo si applicano anche ai
provvedimenti di sequestro gia' adottati  alla  data  di  entrata  in
vigore del presente decreto e i  termini  di  cui  ai  commi  2  e  3
decorrono dalla medesima data». 
    Il giudice a quo ritiene che la diposizione impugnata  violi  una
pluralita' di parametri costituzionali e, segnatamente, gli artt.  2,
3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma,  41,  secondo  comma,  e  112
della Costituzione. 
    Piu' precisamente, l'art. 2 Cost. sarebbe violato  in  quanto  la
norma impugnata consentirebbe  l'esercizio  dell'attivita'  d'impresa
pur in presenza di impianti pericolosi per la  vita  o  l'incolumita'
umana, e cosi' comprometterebbe diritti  fondamentali  della  persona
definiti «inviolabili» dalla stessa Carta costituzionale. 
    Non  sarebbe  rispettato  il  principio  di  eguaglianza  di  cui
all'art. 3 Cost., in quanto il legislatore riserverebbe alle  imprese
di  interesse  strategico  nazionale  un  ingiustificato   privilegio
nell'adeguamento agli  standard  di  sicurezza  rispetto  agli  altri
operatori economici, esponendo altresi' i lavoratori di tali  aziende
a fattori di rischio piu' elevato. 
    Sarebbero violati anche gli artt. 4 e 35, primo comma, Cost.,  in
quanto il  diritto  al  lavoro  presuppone  condizioni  di  sicurezza
nell'esecuzione della prestazione, che  la  normativa  censurata  non
assicurerebbe. 
    Anche l'art. 32, primo comma, Cost., sarebbe inciso, in quanto la
disciplina in esame metterebbe in pericolo la  vita  e  l'incolumita'
individuale del cittadino-lavoratore, senza operare alcun ragionevole
bilanciamento con altri diritti coinvolti. 
    Ancora, la prosecuzione dell'attivita' d'impresa in  un  impianto
che  espone  i  lavoratori  a  pericolo  di  vita,  consentita  dalla
disposizione impugnata alla sola condizione che l'azienda predisponga
un progetto per la messa in sicurezza  delle  aree  interessate,  non
rispetterebbe il principio costituzionale di cui all'art.  41  Cost.,
che esige che l'attivita' economica privata si svolga in modo da  non
recare danno alla sicurezza, alla liberta' e alla dignita' umana. 
    Infine, la prosecuzione dell'attivita' di impresa  determinerebbe
il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante -  quanto  meno
ai sensi dell'art. 437 del codice penale e,  in  caso  di  incidenti,
degli artt. 589 e 590 cod. pen. - compromettendo cosi'  il  principio
di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost.,  che
deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei
reati, ma anche in quello  di  prevenzione  dei  medesimi,  quale  si
esplica  nell'adozione  di  misure  cautelari  reali   di   carattere
preventivo. 
    2.- In via preliminare occorre osservare che  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, e'  intervenuto  nel  giudizio  e  ha  eccepito
l'inammissibilita'  delle  questioni  sollevate   per   «sopravvenuta
carenza   di   interesse»,   determinata    dall'abrogazione    della
disposizione censurata. 
    2.1.-  Per  valutare  l'eccezione  di  inammissibilita'   occorre
ricostruire  l'anomalo  intreccio  di  interventi  normativi  che  ha
interessato la disposizione oggetto del presente giudizio. 
    A tal proposito si deve in primo luogo osservare che, prima della
scadenza del termine per la conversione del decreto-legge n.  92  del
2015, contenente la disposizione in esame, e' sopraggiunta la legge 6
agosto 2015, n. 132 (Conversione in  legge,  con  modificazioni,  del
decreto-legge 27 giugno  2015,  n.  83,  recante  misure  urgenti  in
materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione
e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria), che  e'  legge  di
conversione di altro decreto-legge: con una prima disposizione  (art.
1, comma 2), essa ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92  del
2015 e contestualmente previsto una  clausola  di  salvezza  per  gli
effetti giuridici nel frattempo prodottisi; nello stesso  tempo,  con
l'art. 21-octies, ha reintrodotto la previsione abrogata,  nella  sua
letterale identita'. 
    Dunque, la legge n.  132  del  2015  ha  formalmente  abrogato  e
simultaneamente salvaguardato  e  riprodotto  il  precetto  normativo
contenuto nell'impugnato art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015. 
    La norma introdotta dalla disposizione  impugnata  ha,  pertanto,
continuato ininterrottamente a  esplicare  effetti  nell'ordinamento,
dalla entrata in vigore del decreto-legge  impugnato  fino  ad  oggi,
assicurando una copertura  legislativa  al  protrarsi  dell'attivita'
d'impresa  nello  stabilimento  ILVA  di  Taranto,  compresa   quella
dell'altoforno, nonostante l'intervenuto sequestro. 
    2.2.- Non e', quindi,  fondata  l'eccezione  di  inammissibilita'
prospettata dall'Avvocatura generale  dello  Stato  per  sopravvenuta
carenza di interesse, dato che la norma oggetto del presente giudizio
e' rimasta nell'ordinamento senza variazioni  di  contenuto  e  senza
soluzione di continuita', pur sotto la  specie  di  diversi  precetti
legislativi concatenati fra loro. 
    Questa Corte ha gia' affermato che «la norma contenuta in un atto
avente forza di legge vigente al momento  in  cui  l'esistenza  della
norma stessa e' rilevante ai fini  di  una  utile  investitura  della
Corte, ma non piu' in vigore nel momento in cui  essa  rende  la  sua
pronunzia, continua ad essere  oggetto  dello  scrutinio  alla  Corte
stessa  demandato  quando  quella  medesima  norma  permanga  tuttora
nell'ordinamento -  con  riferimento  allo  stesso  spazio  temporale
rilevante per il giudizio - perche' riprodotta nella sua  espressione
testuale o comunque nella sua  identita'  precettiva  essenziale,  da
altra disposizione successiva» (sentenza n. 84  del  1996).  In  tale
occasione, la Corte ha inteso sottolineare «la  funzione  servente  e
strumentale della disposizione rispetto alla norma», specificando che
«e' la  immutata  persistenza  di  quest'ultima  nell'ordinamento  ad
assicurare   la   perdurante   ammissibilita'   del    giudizio    di
costituzionalita'» (sentenza n. 84 del 1996). 
    Nel caso ora in esame, la tecnica normativa  -  a  seguito  della
quale,  dopo  che  e'  stata  sollevata  questione  di   legittimita'
costituzionale, e' stata solo apparentemente abrogata la disposizione
contenente la norma in giudizio (la quale,  infatti,  ricompariva  in
un'altra disposizione del medesimo atto  legislativo)  e  sono  stati
fatti salvi gli  effetti  pregressi  prima  ancora  che  scadesse  il
termine per  la  conversione  del  decreto-legge  originario  che  la
conteneva - reca  pregiudizio  alla  chiarezza  delle  leggi  e  alla
intelligibilita' dell'ordinamento, in conseguenza dell'uso del  tutto
anomalo  della  legge  di  conversione.  Ai  fini  della  valutazione
sull'ammissibilita' della questione  sollevata  deve  osservarsi  che
l'effetto finale e' stato quello di assicurare,  pur  nel  succedersi
delle disposizioni, una piena continuita' normativa della  disciplina
oggetto dei dubbi di legittimita' costituzionale.  Pertanto,  in  una
tale evenienza, il susseguirsi delle disposizioni non fa  venir  meno
la   perdurante   rilevanza   della   questione    di    legittimita'
costituzionale sollevata e non ne pregiudica l'esame  nel  merito  da
parte di questa Corte. Diversamente, si consentirebbe al  legislatore
di dilazionare, ostacolare o  addirittura  impedire  il  giudizio  di
questa Corte, in contrasto con il principio di economia  dei  giudizi
(sent. 84 del 1996) e a  scapito  della  pienezza,  tempestivita'  ed
effettivita'  del  sindacato  di   costituzionalita'   delle   leggi,
compromettendo  in  modo   inaccettabile   la   tutela   di   diritti
fondamentali, specie se connessi, come nel caso in esame, alla tutela
della vita. 
    2.3.- Posto che, come affermato dalla medesima sentenza n. 84 del
1996 (e da ultimo ribadito dalla sentenza n. 44 del 2018),  la  Corte
costituzionale «giudica su  norme,  ma  pronuncia  su  disposizioni»,
occorre ora chiarire quali  siano  le  disposizioni  sulle  quali  si
riverberano gli esiti del sindacato di costituzionalita',  alla  luce
della  particolare  sequenza  di  interventi  legislativi  che  hanno
riguardato la norma in giudizio. 
    Sotto questo profilo, il caso odierno si  differenzia  da  quello
giudicato con la citata sentenza n. 84  del  1996.  Allora  la  Corte
ritenne che la questione potesse  essere  «trasferita»,  seppure  «in
senso figurato», sulla disposizione che veicolava gli  effetti  della
norma nell'ordinamento al momento del giudizio. All'epoca si trattava
di un caso di reiterazione di  decreti-legge  dopo  la  scadenza  del
termine per la conversione, con  salvezza  degli  effetti  pregressi,
secondo una prassi che sarebbe stata di li' a  poco  censurata  dalla
Corte stessa con sentenza n. 360 del 1996. Pertanto, con la  sentenza
n. 84 del 1996, la Corte si pronuncio' sulla disposizione che  sanava
gli effetti del decreto-legge non convertito. 
    Nel caso che questa Corte e' chiamata oggi a  giudicare,  invece,
la disposizione originaria  e'  stata  solo  apparentemente  abrogata
prima della scadenza del termine di conversione, con una disposizione
che contemporaneamente faceva altresi' salvi  gli  effetti  giuridici
nel  frattempo  prodottisi  e,   dunque,   prima   che   l'originario
decreto-legge impugnato decadesse con effetti  retroattivi  divenendo
inapplicabile nel giudizio a  quo.  Inoltre,  diversamente  da  altri
casi, la norma in  apparenza  abrogata,  in  realta',  e'  stata  nel
contempo trasfusa in altra disposizione di quella medesima legge  che
ne disponeva l'abrogazione. L'iter seguito dal legislatore e'  dunque
tortuoso e del tutto anomalo: non si  tratta,  infatti,  ne'  di  una
semplice mancata conversione, ne' di una reale abrogazione e  neppure
di una abrogazione con  successiva  diversa  regolamentazione.  Nella
specie, sotto l'apparenza  di  una  abrogazione,  la  successione  di
disposizioni legislative dissimula (attraverso un uso improprio della
legge  di  conversione)  una  effettiva  continuita'   di   contenuti
normativi  che,   traendo   origine   dalla   disposizione   iniziale
"abrogata", permangono grazie alla sanatoria  e  si  protraggono  nel
tempo in virtu'  dell'articolo  che  li  riproduce.  In  tale  quadro
normativo, la norma oggetto del  giudizio  vive  nell'ordinamento  in
forza di una inscindibile combinazione di  disposizioni  strettamente
interconnesse tra loro. Pertanto, il  giudizio  di  costituzionalita'
non  potra'  che  investire  tutte  le  disposizioni  considerate  in
combinazione tra loro: vale a dire l'art. 3 del decreto-legge  n.  92
del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge n.  132  del
2015. 
    3.- Nel merito la questione e' fondata. 
    3.1.-  La  disposizione  impugnata   prevede   che   «l'esercizio
dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse  strategico
nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro [...] quando
lo stesso di riferisca ad ipotesi di reato  inerenti  alla  sicurezza
dei lavoratori»  (art.  3,  comma  1).  Essa  e'  stata  adottata  al
dichiarato fine di «garantire  il  necessario  bilanciamento  tra  le
esigenze di continuita' dell'attivita'  produttiva,  di  salvaguardia
dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e
dell'ambiente salubre, nonche' delle finalita' di giustizia» (art. 3,
comma 1) e intende porsi in linea di continuita'  con  la  precedente
normativa in  materia  di  esercizio  dell'attivita'  di  impresa  in
stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, contenuta
nel decreto-legge 3 dicembre 2012, n.  207  (Disposizioni  urgenti  a
tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di  occupazione,  in
caso di crisi di stabilimenti  industriali  di  interesse  strategico
nazionale), convertito, con modificazioni, dalla  legge  24  dicembre
2012, n. 231. Tale normativa, esplicitamente richiamata  nell'incipit
della disposizione in esame, e'  stata  oggetto  della  decisione  di
questa Corte n. 85  del  2013  ed  e'  alla  luce  dei  principi  ivi
stabiliti che la odierna  questione  di  legittimita'  costituzionale
deve essere esaminata. 
    In tale pronuncia questa Corte ha affermato che  «e'  considerata
lecita  la  continuazione  dell'attivita'   produttiva   di   aziende
sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate  [...]  le
regole che limitano,  circoscrivono  e  indirizzano  la  prosecuzione
dell'attivita' stessa» secondo un percorso di risanamento - delineato
nella  specie  dalla  nuova  autorizzazione  integrata  ambientale  -
ispirato  al  bilanciamento  tra   tutti   i   beni   e   i   diritti
costituzionalmente protetti, tra  cui  il  diritto  alla  salute,  il
diritto all'ambiente salubre e il diritto al lavoro. 
    Non puo' infatti ritenersi astrattamente precluso al  legislatore
di intervenire per salvaguardare la continuita' produttiva in settori
strategici per l'economia  nazionale  e  per  garantire  i  correlati
livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi  disposti
dall'autorita'  giudiziaria  nel  corso  di   processi   penali   non
impediscano la prosecuzione dell'attivita' d'impresa;  ma  cio'  puo'
farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei
valori costituzionali in gioco. 
    Per essere tale, il  bilanciamento  deve  essere  condotto  senza
consentire  «l'illimitata  espansione  di  uno   dei   diritti,   che
diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni  giuridiche
costituzionalmente riconosciute e protette,  che  costituiscono,  nel
loro insieme, espressione della dignita' della persona» (sent. n.  85
del 2013). Il bilanciamento deve, percio', rispondere  a  criteri  di
proporzionalita' e di ragionevolezza, in modo tale da non  consentire
ne' la prevalenza assoluta  di  uno  dei  valori  coinvolti,  ne'  il
sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita
una tutela  unitaria,  sistemica  e  non  frammentata  di  tutti  gli
interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n.  264
del 2012). 
    Nel caso allora in giudizio, questa Corte, con la citata sentenza
n. 85 del 2013, rigetto' la questione di legittimita' costituzionale,
ritenendo che il  legislatore  avesse  effettuato  un  ragionevole  e
proporzionato bilanciamento predisponendo la  disciplina  di  cui  al
citato art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 207 del 2012. In  quella
ipotesi,  infatti,  la  prosecuzione  dell'attivita'  d'impresa   era
condizionata  all'osservanza  di  specifici   limiti,   disposti   in
provvedimenti amministrativi  relativi  all'autorizzazione  integrata
ambientale, e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di
controllo e sanzionatoria. 
    3.2.- Nel caso oggi portato all'esame di questa Corte, invece, il
legislatore non  ha  rispettato  l'esigenza  di  bilanciare  in  modo
ragionevole  e  proporzionato  tutti  gli  interessi   costituzionali
rilevanti, incorrendo in un vizio  di  illegittimita'  costituzionale
per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di  tutela
della salute, sicurezza e incolumita' dei  lavoratori,  a  fronte  di
situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita. 
    Infatti,   nella   normativa   in   giudizio,   la   prosecuzione
dell'attivita'   d'impresa   e'   subordinata   esclusivamente   alla
predisposizione unilaterale di un "piano" ad opera della stessa parte
privata  colpita  dal  sequestro  dell'autorita'  giudiziaria,  senza
alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. 
    Il legislatore  concede  un  termine  di  trenta  giorni  per  la
predisposizione del  piano,  il  quale  peraltro  puo'  anche  essere
provvisorio: dunque, manca del tutto la richiesta di misure immediate
e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione  di  pericolo
per l'incolumita' dei lavoratori. Tale mancanza e' tanto  piu'  grave
in considerazione del fatto che durante la pendenza  del  termine  e'
espressamente consentita  la  prosecuzione  dell'attivita'  d'impresa
"senza  soluzione  di  continuita'",  sicche'  anche   gli   impianti
sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza
modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi,  senza
che neppure il piano sia adottato. L'unico limite temporale effettivo
e' posto al comma 2, che stabilisce che l'attivita'  di  impresa  non
puo' protrarsi per un  periodo  di  tempo  superiore  a  dodici  mesi
dall'adozione del provvedimento di sequestro. 
    Quanto al contenuto, il piano deve  recare  «misure  e  attivita'
aggiuntive, anche di tipo provvisorio», non meglio definite,  neppure
attraverso  un  rinvio,  che  pure  sarebbe  stato  possibile,   alla
legislazione  in  materia  di  sicurezza  sul  lavoro.   Il   mancato
riferimento a specifiche  disposizioni  delle  leggi  in  materia  di
sicurezza  sul  lavoro  o  ad  altri  modelli  organizzativi   e   di
prevenzione lascia sfornito l'ordinamento di  qualsiasi  concreta  ed
effettiva possibilita' di reazione per le violazioni che si dovessero
perpetrare durante la prosecuzione dell'attivita'. 
    Nella formazione del piano non e' prevista alcuna  partecipazione
di  autorita'  pubbliche,  le  quali  devono  essere  informate  solo
successivamente. Tale comunicazione  assume  la  forma  di  una  mera
comunicazione-notizia, per quanto  riguarda  l'autorita'  giudiziaria
procedente (art. 3, comma 3) e si  traduce  nell'attribuzione  di  un
generico potere di  monitoraggio  e  ispezione  per  quanto  riguarda
INAIL, ASL e Vigili del Fuoco; tale potere, peraltro, si limita  alla
verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive  indicate  nel
piano e quelle in concreto attuate dall'impresa,  cosi'  da  renderne
ambigua e indeterminata l'effettiva possibilita' di  incidenza  (art.
3, comma 4). 
    3.3.- Considerate queste caratteristiche della  norma  censurata,
appare chiaro che, a differenza  di  quanto  avvenuto  nel  2012,  il
legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo  l'interesse
alla prosecuzione dell'attivita' produttiva, trascurando del tutto le
esigenze di diritti costituzionali  inviolabili  legati  alla  tutela
della salute e della vita stessa (artt.  2  e  32  Cost.),  cui  deve
ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in  ambiente
sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.). 
    Il  sacrificio  di  tali  fondamentali  valori   tutelati   dalla
Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti
i limiti che la Costituzione impone all'attivita' d'impresa la quale,
ai sensi dell'art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da  non
recare danno alla sicurezza,  alla  liberta',  alla  dignita'  umana.
Rimuovere  prontamente  i  fattori  di  pericolo   per   la   salute,
l'incolumita' e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione
minima e indispensabile perche' l'attivita' produttiva si  svolga  in
armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto  alle
esigenze basilari della persona. 
    In proposito questa Corte ha del resto gia'  avuto  occasione  di
affermare che l'art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso  che
esso  «limita  espressamente  la  tutela  dell'iniziativa   economica
privata  quando  questa  ponga  in  pericolo   la   "sicurezza"   del
lavoratore» (sentenza n. 405 del 1999). Cosi'  come  e'  costante  la
giurisprudenza  costituzionale  nel  ribadire  che  anche  le   norme
costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di
lavoro la  massima  attenzione  per  la  protezione  della  salute  e
dell'integrita' fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996). 
    4.- Considerato assorbito ogni ulteriore profilo e chiarite quali
siano le disposizioni  sulle  quali  si  riverberano  gli  esiti  del
sindacato di costituzionalita' per le ragioni esposte  al  precedente
punto  2.3,  si  deve  dichiarare   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e degli artt.  1,  comma
2, e 21-octies della legge n. 132 del 2015. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87 e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi  davanti  alla
Corte costituzionale.