P. Q. M. Visto l'art. 113 c.p.p., Dispone la ricostituzione dell'ordinanza in data 25 maggio 2006 secondo il tenore della allegata minuta; Manda alla cancelleria per l'esecuzione e l'annotazione sull'atto ricostituito degli estremi della presente ordinanza ex art. 41 d. d'att. c.p.p. Bologna, addi' 20 luglio 2006 Il Presidente: Romeo Il consigliere estensore: Candi Allegato N. 1726/04R.G. App. Corte di appello DI BOLOGNA Ordinanza ex art. 23 della legge 87/1953 La Corte di appello di Bologna, Sezione I penale, riunita in camera di consiglio e composta dai Sigg. dott. Giovanni Romeo - Presidente dott. Alberto Candi - Consigliere dott. Francesco Rosetti - Consigliere ha pronunciato la seguente Ordinanza nel procedimento a carico di: MARUSI GUARESCHI Rodolfo n. a Salsomaggiore Terme il 20/1/1950, MARUSI GUARESCHI Valerio n. a Parma il 14/10/1972, FRANCESCHI Cheti n. a San Benedetto del Tronto il 24/7/1964. Il tribunale di Parma ha assolto gl'imputati dal delitto di atti fraudolenti, sui beni propri o altrui, tali da rendere inefficace l'esecuzione esattoriale, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, previsto dall'art. 97, comma 6, del d.p.r. 602/1973. La vicenda riguarda tre societa', rispettivamente denominate Maguro s.p.a., Carisma s.p.a., e Karman Holding S.A. (societa' lussemburghese). MARUSI GUARECHI Rodolfo, all'epoca dei fatti, era presidente del consiglio di amministrazione delle prime due e vicepresidente dell'organo amministrativo della terza; MARUSI GUARECHI Valerio, figlio di Rodolfo, era amministratore delegato della seconda; FRANCESCHI Cheti era amministratore delegato della terza. Stando alla ricostruzione dei fatti operata dall'accusa e fatta propria dal tribunale, dopo che la societa' di riscossione dei tributi per la provincia di Reggio Emilia, Riscoservice s.p.a., aveva iniziato una procedura esecutiva nei confronti della Carisma s.p.a., sottoponendo a pignoramento i beni immobili di questa societa' a tutela di un credito tributario maturato di oltre cento miliardi di lire, gl'imputati, in concorso tra loro, al fine di sottrarre gli immobili della Carisma s.p.a. all'esecuzione, simularono una vendita degli stessi alla Karman, cosi' violando la norma contestata. Il tribunale ha ritenuto che il d.l.vo 74/2000 non abbia abrogato la disposizione dell'art. 97 cit, poiche' - rispetto a quest'ultima - il reato ora previsto dall'art. 11 del citato decreto legislativo si trova in rapporto di continuita' normativa. Ha ritenuto, altresi', provato che la vendita di cui si tratta fosse un atto simulato, rientrante nella condotta fraudolenta prevista e punita dall'art. 97, comma 6, del d.p.r. 602/1973. Ha, tuttavia, affermato l'insussistenza del reato, poiche' non si era verificato l'evento previsto dalla norma, consistente nell'avere - la condotta contestata - cagionato l'inefficacia della esecuzione esattoriale. In particolare, ha osservato il primo giudice che, nonostante la Corte di appello di Bologna, in data 16/10/2001, avesse dichiarato l'inefficacia del pignoramento ed estinta la procedura d'esecuzione, questa procedura ed il pignoramento dovevano ritenersi ancora validi ed efficaci in considerazione del ricorso per cassazione promosso dalla societa' creditrice, a seguito del quale la causa era tuttora pendente. Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, infatti, ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario, avevano trasmesso gli atti al Presidente per l'assegnazione della causa ad una sezione semplice. Di qui, il proscioglimento di tutti gl'imputati per insussistenza del fatto. Contro la sentenza di primo grado, ha proposto appello il procuratore della Repubblica di Parma, il quale deduce l'erroneita' della sentenza del tribunale e chiede che la stessa sia riformata, con condanna degl'imputati alle pene ritenute di giustizia. In particolare, il rappresentante della pubblica accusa osserva che il primo giudice ha errato nel ritenere non verificatosi l'evento dell'inefficacia della esecuzione esattoriale. In realta', la societa' concessionaria del servizio di riscossione dei tributi, dopo la sentenza della Corte di appello, si era trovata nell'impossibilita' di procedere alla vendita dei beni pignorati e la procedura esecutiva era stata estinta. Ne' sarebbe stato possibile un nuovo pignoramento, in considerazione della intervenuta simulata vendita degli immobili. Nonostante la vicenda civilistica non fosse ancora terminata, essendo ancora in corso il giudizio di cassazione, una eventuale decisione di annullamento della sentenza della Corte di appello di Bologna non avrebbe potuto, in ogni caso, cancellare il fatto storico della intervenuta paralisi della procedura esecutiva in corso, integrante l'evento del reato. Questo, pertanto, doveva intendersi pienamente consumato e gl'imputati dovevano essere considerati responsabili dello stesso. In subordine, doveva in ogni caso ritenersi perpetrato il tentativo del delitto contestato. Dal 9/3/2006 e' in vigore la legge 46/2006 sulla inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento. L'art. 593 c.p.p., come riformulato dalla legge, esclude che l'imputato e il pubblico ministero possano presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, se non nell'ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2, di nuova prova decisiva sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado. A sua volta, l'art. 10 della legge 46/2006, dedicato alla disciplina transitoria, dichiara le nuove norme applicabili ai giudizi in corso sin dalla entrata in vigore della legge; e aggiunge, poi, che l'appello proposto dall'imputato o dal pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento prima della entrata in vigore della legge, viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, con facolta' - per la parte impugnante - del ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento d'inammissibilita'. Stando a queste disposizioni, la corte dovrebbe dichiarare inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza del tribunale di Parma di cui in premessa. Esistono, pero', dei profili della nuova normativa' che legittimano il dubbio di' contrarieta' della stessa alla Costituzione, come meglio si dira'. E nel caso in cui il giudice delle leggi dovesse ritenere fondata la questione di legittimita' costituzionale e pronunciarsi nel senso che gli artt. 593 c.p.p., nella nuova formulazione, e 10 della legge 46/2006 sono contrari alla Carta fondamentale nella parte in cui impediscono (al di la' delle limitate ipotesi tuttora ammesse) l'appello del pubblico ministero contro il proscioglimento del giudice di primo grado, estendendo l'inappellabilita' anche alle impugnazioni proposte prima del 9 marzo 2006, allora questa corte potrebbe entrare nel merito del gravame proposto e decidere per la conferma o la riforma della sentenza del tribunale. Di qui la rilevanza della questione per il presente procedimento. Gli aspetti che rendono non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 593 c.p.p., come novellato, sono i seguenti. L'avere fortemente limitato la facolta' d'appello dell'imputato e del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rimasta in piedi in casi del tutto marginali, ha prodotto un grave ed irragionevole squilibrio tra le parti del processo; in particolare, infrangendo la cosiddetta «parita' delle armi» loro offerte. Difficilmente l'imputato ha da dolersi del proscioglimento, che va nel senso del suo interesse; e' naturale, invece, che del proscioglimento si dolga il pubblico ministero, che ha promosso l'azione penale convinto di poter sostenere l'accusa ed ottenere la condanna dell'imputato. La lettera della nuova norma, che sembra rivolgersi, indifferentemente all'una e all'altra parte dei processo, tradisce percio' un forte ridimensionamento delle facolta' d'appello del solo pubblico ministero. La Corte costituzionale ha insegnato, in materia di limiti all'appello del pubblico ministero contro le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato, che «il principio della parita' fra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo difensore» 1). Ma non ha mancato di aggiungere che un eventuale diverso trattamento delle facolta' processuali - e, quindi, anche del potere d'appello - del pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, deve trovare una ragionevole motivazione nella peculiare posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad esso affidata, o nelle esigenze di una corretta amministrazione della giustizia 2). Nulla di tutto cio' si riscontra nella novella in esame ai sensi della quale - diversamente dal caso di cui, all'epoca, si occupo' la Corte - non si impedisce al pubblico ministero di appellare contro delle sentenze di condanna. bensi' contro delle sentenze di proscioglimento. Cio' sembra configurare una violazione della par condicio tra le parti. Non si vede come possa rientrare nel processo «ad armi pari» la facolta', per l'imputato, di proporre appello contro la decisione a lui negativa ed il divieto, per il pubblico ministero, di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di sentenza a lui sfavorevole. Ne' sembrano ravvisabili esigenze di corretta amministrazione della giustizia, o fattori legati alla posizione o alla funzione tipica del pubblico ministero, che possano giustificare il diniego a quest'ultimo dell'appello contro le sentenze di proscioglimento. Al contrario, sia la funzione affidata al pubblico ministero come organo di giustizia, sia un'adeguata amministrazione di quest'ultima, dovrebbero indurre a garantire, attraverso strumenti congrui, e non deboli, il ripristino della legge violata e la punizione dei colpevoli. Non si puo' dimenticare che, alla base del processo penale, vi e' l'esigenza dello Stato di garantire il ripristino dei diritti della persona offesa; diritti che non sono puramente e semplicemente quelli relativi al risarcimento del danno cagionato dal reato, ma che si spingono alla garanzia dell'interesse della vittima di vedere tutelata dallo Stato, nella sede penale a cio' deputata, la violazione della propria sfera personale, colpita da una condotta costituente reato. E' certamente vero che, nel presente caso, il danneggiato dal reato e' il fisco e non una persona privata, ma la tutela dell'offeso non appare, per cio' solo, di minore dignita'. Va, infatti, considerato che le disposizioni relative all'imposizione tributaria sono, pur sempre, dettate in funzione della solidarieta' che lega tra loro tutti i cittadini e del piu' adeguato sviluppo che lo Stato deve offrire, a ciascuno di costoro, in seno alla comunita' (artt. 53, 2 e 3 Cost.). Appare, percio', non manifestamente infondata la questione di violazione dell'art. 111 della Costituzione. La par condicio tra le parti non si limita al contraddittorio che avviene in primo grado, ma necessariamente si estende al giudizio in grado d'appello. Il contraddittorio tra le parti in condizioni di parita' di cui parla il secondo comma dell'art. 111 Cost., non sembra coincidere col contraddittorio sulla prova di cui al quarto comma dello stesso articolo, ne' limitarsi ad esso. Ed, allora, restringere, senza ragionevoli e giustificati motivi, i casi d'appello solo, per una parte del processo, e non per l'altra, appare lesivo della norma costituzionale. Va aggiunto che il riferimento che viene da taluno invocato, per giustificare la nuova disciplina, alla Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali non appare fondato. Infatti, se e' vero che l'art. 2 del protocollo 11 della citata Convenzione prevede che chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un giudice di primo grado ha il diritto di sottoporre ad un ufficio della giurisdizione superiore la dichiarazione di condanna, e' vero altresi' che il secondo comma dello stesso articolo consente eccezione a detto principio nel caso in cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione piu' elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento; e questo era, appunto, cio' che avveniva in caso di accoglimento dell'appello contro il proscioglimento in primo grado, prima dell'intervento riformatore. La violazione dell'art. 111 della Costituzione sembra prospettarsi anche per contrasto della nuova disciplina con il principio della ragionevole durata del processo. L'impossibilita' di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento e l'allargamento dei casi del ricorso per cassazione mediante la possibilita', affidata alla Suprema corte, di scrutinare la logicita' della motivazione sulla scorta degli atti processuali, determinera' un aumento esponenziale del lavoro di quest'ultima ed, in caso di accoglimento del ricorso, un regresso alla fase del primo grado, con evidente dilatazione dei tempi processuali, scarsamente compatibile con il dettato costituzionale. Prospettandosi, altresi'. il rischio, palese nel presente caso, che - se fondata - l'istanza punitiva portata avanti dal pubblico ministero si trovi frustrata per il decorso dei termini massimi di prescrizione, certamente calcolati dal legislatore quando il meccanismo processuale prevedeva altre scansioni temporali ed una diversa disciplina dei gradi del processo. Quest'ultimo rilievo permette di introdurre il ragionamento relativo ad un'altra disposizione della Costituzione. la cui non manifesta violazione e' prospettabile: l'art. 112. La corte e' consapevole che non sempre il giudice delle leggi ha ricollegato la facolta' d'appello del pubblico ministero al principio di obbligatorieta' della azione penale 3). Tuttavia. vi e' un altro, anche se piu' datato, indirizzo della Corte costituzionale, secondo cui l'esercizio del potere d'appello della pubblica accusa non e' altro che un'emanazione del principio fissato dall'art. 112 Cost. Se, nell'interpretazione di cui la Consulta e' organo sovrano, dovesse prevalere questo secondo indirizzo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come novellato, sarebbe non manifestamente infondata anche con riguardo all'art. 112 della Carta fondamentale. A favore di questo secondo indirizzo milita anche l'osservazione teste' accennata. La dilatazione dei tempi processuali che si e' ottenuta con l'abolizione della facolta' d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rende assai verosimile - in ragione degli attuali tempi della giustizia - che l'istanza punitiva dello Stato, anche se fondata, non trovi soddisfazione in ragione del decorso della prescrizione. Evento - questo - che rischia di svilire l'obbligo di esercizio dell'azione penale da precetto costituzionale a stentorea, quanto vacua, proclamazione di potere destinata a non avere alcuna concreta incidenza nella pratica. La terza norma costituzionale, con la quale il nuovo art. 593 c.p.p. sembra confliggere, e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se il principio di ragionevolezza si sostanzia nella necessita' di trattamento dei casi simili in modo simile, e dei casi disuguali in modo disuguale, si stenta a comprendere perche' la norma attuale permetta al pubblico ministero - la cui funzione nel perseguimento dei colpevoli e' sempre la stessa - di appellare le sentenze di condanna chiedendo l'aumento di una pena ritenuta troppo blanda, e gl'impedisca, invece, di appellare le sentenze di proscioglimento, che ben piu' gravemente disattendono l'aspettativa di punizione dello Stato. Non sembra manifestamente infondata neppure la questione di legittimita' relativa alla violazione dell'articolo 97 della Costituzione, che presidia i beni del buon andamento e dell'imparzialita' della pubblica amministrazione. La Corte costituzionale si e' espressa piu' volte nel senso di ritenere applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia 4). Ove si intenda il riferimento al «buon andamento» e all'«imparzialita» dell'amministrazione in termini non solamente di efficienza della macchina giudiziaria, ma anche di assicurazione a tutti gl'interessati, tra cui le parti lese, del piu' completo ed imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati, allora si deve ritenere che una norma che lede le opportunita' del pubblico ministero di emendare l'erroneo proscioglimento dell'imputato e che mortifica, al tempo stesso, le legittime aspettative di giustizia delle persone offese, violi il disposto della norma costituzionale indicata. In ordine all'art. 10, comma 1, della legge 46/2006, osserva la corte che anch'esso sembra violare gli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost., laddove afferma applicabile l'attuale art. 593, comma 2, c.p.p. ai procedimenti in corso. Le ragioni di questa violazione sono le stesse esposte sopra. Si profila, altresi', un'ulteriore disparita' di trattamento sotto il seguente aspetto. Non e' ragionevole l'estensione della nuova disciplina al caso degli appelli gia' proposti. E' privo di ragionevolezza (e, percio', contrario all'art. 3 della Costituzione), oltre che contrario al principio del «giusto processo» con «parita' delle armi» (e, quindi, contrario all'art. 111 della Carta), privare di uno specifico mezzo di gravame la parte che vi aveva riposto congruo affidamento perche', al momento dell'impugnazione, quel mezzo le era garantito dall'ordinamento. Si sottrae, cosi', ad uno solo dei contendenti, mentre e' in corso il contraddittorio processuale, un'arma sin li' giudicata pienamente conforme con il principio del giusto processo, e sin li' garantita ad entrambe le parti. Anche i commi 2 e 3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i principi costituzionali. Tali commi - nell'interpretazione piu' restrittiva - impongono al giudice di dichiarare in ogni caso l'inammissibilita' degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge 46/2006 (anche nei casi in cui lo consentirebbe l'attuale art. 593, comma 2, c.p.p.). L'unica possibilita' concessa al ricorrente e' di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla declaratoria d'inammissibilita' dell'appello. Le ragioni d'incostituzionalita' sopra esposte valgono anche per queste disposizioni. La corte, 1) Cost. Corte costituzionale. sent. 363/1991. 2) V. la sentenza della Corte costituzionale di cui alla nota che precede. 3) Questa connessione e' stata negata, ad esempio, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 280, 1995. 4) Cfr. le sentenze n. ri 18/1989 e 86/1982. P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, DICHIARA rilevante ai fini del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della legge 46/2006, per violazione degli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione; rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge 46/2006, nella parte in cui limita l'appello dell'imputato e del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento alle sole ipotesi ivi previste, nonche' dalle parole «Qualora il giudice» sino alla fine del comma, per violazione degli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione; DISPONE la trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso; ORDINA che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Bologna, li' 25 maggio 2006 Il Presidente Dr. Giovanni Romeo Il Consigliere estensore Dr. Alberto Candi 07C0180