IL TRIBUNALE Ha pronunciato, mediante lettura in udienza, la seguente ordinanza all'udienza del 4 maggio 2000, nella causa civile di primo grado, iscritta al n. 20345 del ruolo generale dell'anno 2000, vertente tra Pannella Giacinto, detto Marco, elettoralmente domiciliato in Monterotondo, via Cavour n. 49, presso lo studio dell'avv. Giuseppe Rossodivita, che lo rappresenta e difende in virtu' di procura a margine del ricorso, ricorrente, e prefetto di Roma, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege, resistente, e comune di Roma, in persona del sindaco in carica, elettoralmente domiciliato in Roma, via del Tempio di Giove n. 21, presso gli uffici dell'Avvocatura comunale e rappresentato e difeso dall'avv. Sebastiano Capotorto, giusta procura generale alle liti per atto del notaio Mazza di Roma, rep. 46866 del 30 settembre 1999, resistente. Rilevato in fatto Con la sentenza pronunciata in primo grado il 18 gennaio 2000 il tribunale penale di Roma riconosceva l'on. Giacinto Pannella, detto Marco, membro del consiglio comunale di Roma, colpevole del reato previsto e punito dall'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere illegalmente detenuto per cederli a terzi tre involucri contenenti grammi 2,916 di hashish con una percentuale di thc del 3%, pari a grammi 0,146 ed a 5-6 dosi singole nel corso di una preannunciata manifestazione pubblica finalizzata a contestare l'attuale legislazione in materia di droghe cosiddette leggere. Il tribunale condannava l'imputato alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione (sostituita con la pena della multa di lire sei milioni) e di lire un milione di multa. La pena veniva determinata nella indicata misura a seguito della concessione al condannato delle attenuanti del fatto lieve (comma 5, art. 73 d.P.R. n. 309/1990), delle attenuanti generiche e dell'attenuante dell'azione commessa per motivi di particolare valore sociale (art. 62, n. 1, c.p.). Ricevuta la comunicazione del provvedimento giurisdizionale, il prefetto di Roma accertava la sussistenza della causa di sospensione dalla carica di consigliere comunale prevista dal combinato disposto dei commi 1, lettera A, 4-bis, lettera A e 4-ter dell'art. 15, legge 19 marzo 1990, n. 55 (come modificati, in ultimo, dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475), e comunicava il provvedimento di sospensione al presidente del consiglio comunale di Roma, che a sua volta lo comunicava all'interessato. Contro i provvedimenti del prefetto e del presidente del consiglio comunale ha proposto ricorso dinanzi a questo tribunale - ai sensi dell'art. 82 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, e successive modificazioni ed integrazioni - l'on. Pannella, lamentando sia l'erronea interpretazione della legge 19 marzo 1990, n. 55 da parte del prefetto e del presidente del consiglio comunale di Roma sia la mancata applicazione degli artt. 7 e segg. della legge n. 241 del 1990. In subordine il ricorrente ha chiesto che questo tribunale sollevi la questione di legittimita' costituzionale di dette norme per contrarieta' agli artt. 2, 3 e 51 della Costituzione. Nel costituirsi in giudizio il prefetto ed il comune di Roma hanno negato di avere emanato provvedimenti amministrativi ed hanno affermato che la sospensione dell'on. Pannella dalla carica di consigliere comunale discende in via diretta ed immediata dalla legge. Anche il comune di Roma ha sollevato dubbi in ordine alla costituzionalita' delle norme applicabili al caso di specie. Osserva in diritto Va premesso che nel presente procedimento, relativo alla impugnazione dei provvedimenti di sospensione dalla carica di consigliere comunale, va riconosciuta agli atti del prefetto, nella sua qualita' di organo istituzionalmente preposto a stimolare il controllo sulla legittimita' della funzione di consigliere comunale, e del presidente del consiglio comunale, natura provvedimentale, sia pure meramente ricognitiva (come recentemente affermato da Cass. civile sez. I, 12 aprile 1996, n. 3490). Ritiene il collegio che la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente e da uno dei resistenti sia rilevante ai fini del decidere. Ed invero non sembra che le norme in questione, che sono volte alla prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosita' sociale, possano essere interpretate nel senso indicato dal ricorrente in modo da ritenere inapplicabile al caso di specie la legge n. 55 del 1990. In particolare, non sembra che l'uso dell'articolo indeterminativo "un" nel testo dell'art. 15, comma 1, lettera a), legge n. 55/1990 equivalga alla locuzione "solo alcuni dei delitti di cui...". Ne' l'uso nel comma 1, lettera a), dell'art. 15, legge n. 55/1990 di una congiunzione diversa ("o" anziche' "e") da quella che appare nel titolo dell'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sembra indice della volonta' del legislatore di creare con la legge n. 55 del 1990 due nuove fattispecie tipiche, rilevanti non ai fini del diritto penale ma solo del diritto civile ("produzione" di sostanze stupefacenti e "traffico" di sostanze stupefacenti), anziche' richiamare il titolo di una norma che prevede una pluralita' di condotte delittuose tipiche e tra loro alternative. Quanto alla impossibilita' di applicare al caso di specie l'art. 7 della legge n. 241 del 1990, bastera' richiamare le note pronunce della Corte costituzionale ("...la declaratoria di decadenza ha carattere meramente ricognitivo, che esclude di per se' qualsiasi problematica procedimentale" - sentenza n. 295 del 1994) e, di recente, del Consiglio di Stato (sentenza n. 319 del 22 marzo 1999, sezione quinta). Va, infine, evidenziato che con la gia' citata sentenza n. 295 del 1994 la Corte costituzionale ha espressamente affermato la legittimita' costituzionale dell'automatismo, creato dal legislatore, tra sentenza di condanna per determinati reati e ineleggibilita' a determinate cariche (o decadenza o sospensione da tali cariche): "E' evidente, scrive la Corte, che la previsione di casi di ineleggibilita' non puo' che essere tassativa, non comportando per sua natura alcuna valutazione discrezionale da parte di qualsivoglia organo o autorita'". Non ignora il collegio, inoltre, che la Corte costituzionale ha gia' stabilito l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 4-quinquies, legge 19 marzo 1990, n. 55 (testo previgente), laddove si prevede la decadenza di diritto da cariche elettive, per talune condanne penali, senza consentire la valutazione, caso per caso, della gravita' dei fatti commessi, mentre la destituzione dei pubblici impiegati non puo' essere stabilita ex lege, ma va disposta, caso per caso, previa valutazione della compatibilita' dei fatti commessi con l'esercizio di un pubblico ufficio (ritenendo che la destituzione di diritto degli impiegati pubblici, penalmente condannati, e la decadenza dagli uffici elettivi, per effetto di condanne penali, non sono istituti fra loro assimilabili). Parimenti, la Corte - sotto il diverso profilo connesso con la dichiarazione di decadenza ex lege dalle cariche elettive - ha affermato che il diritto dei cittadini di accedere ai pubblici uffici, garantito dall'art. 51 della Costituzione, non e' vulnerato dalla legge che, nel rispetto della ragionevolezza, prescrive i requisiti occorrenti per l'esercizio di tali diritti e dichiari decaduti dalle cariche elettive i soggetti che non ne siano piu' in possesso (Corte costituzionale 13 luglio 1994, n. 295). Con la stessa sentenza, la Corte costituzionale ha stabilito, inoltre, che non configge con i principi di razionalita' e ragionevolezza la legge che, al fine della decadenza de jure da cariche elettive, accomuni i condannati per delitti che destano minore allarme sociale, ma che sono stati commessi con abuso di poteri e con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ai condannati per reati ben piu' gravi, tra cui il peculato, la concussione e la corruzione, non essendo irragionevole che, ai fini della valutazione dell'idoneita' ad esercitare cariche pubbliche, il legislatore accomuni i piu' gravi delitti con fattispecie ben piu' lievi, poiche' "non puo' essere tacciata d'irragionevolezza una norma improntata certamente a severita' ma coerente con le finalita' dalla legge in esame ... che sono quelle di salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni" (ibidem). Ritiene - tuttavia - il collegio che, con riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, la (diversa) questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto del comma primo, lettera a, del comma 4-bis e del comma 4-ter dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, nel testo attualmente vigente, non sia manifestamente infondata, laddove le norme richiamate non escludono la decadenza per cariche elettive anche nel caso di condanna per reati attenuati dalla circostanza dell'avere, il reo, agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Ed invero la Corte costituzionale ha piu' volte affermato che il legislatore, nell'esercizio di un potere discrezionale che gli e' proprio, nelle varie ipotesi di cui alla legge in questione, ha preso in considerazione la condanna penale "come un mero presupposto oggettivo cui e' ricollegato un giudizio di "indegnita' morale a ricoprire determinate cariche elettive" (sentena n. 118 del 1994). Anche nella sentenza n. 295 del 1994, piu' volte citata, il giudice delle leggi ha rilevato come "la circostanza di avere riportato condanna per una delle fattispecie criminose previste sia stata configurata dalla normativa in esame quale requisito negativo, quasi come una sorta di "indegnita' morale". Sullo stesso piano, del resto, e' attestata la Corte di cassazione, secondo la quale l'ineleggibilita', la decadenza, la sospensione costituiscono conseguenze negative che il legislatore pone a carico di coloro che, a causa della commissione di determinati reati, e in considerazione della natura significativa di questi, ritiene indegni di acquisire e mantenere la carica elettiva" (Cassazione civile sez. I, 12 aprile 1996, n. 3490 e, con riferimento a reati non caratterizzati da abuso dei poteri o da violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, Cass. n. 1713 del 18 febbraio 1998). E' evidente, quindi, che il legislatore ha ritenuto che l'avere riportato una condanna per determinati reati costituisca (a volte solo se la pena supera una determinata misura ed a volte, come nella fattispecie che ci occupa, indipendentemente dall'entita' della pena in concreto comminata) un indice attendibile di "indegnita' morale" e, quindi, di difetto di uno dei requisiti essenziali per continuare a ricoprire l'ufficio elettivo. La stessa Corte (vedi sempre la sentenza n. 295 del 1994) ha ritenuto, tuttavia, di poter sindacare la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore quando quest'ultimo ha stabilito che determinati reati costituiscono, al pari di altri, un indice attendibile di "indegnita' morale" a ricoprire determinate cariche elettive, solo se caratterizzati da abuso dei poteri o da violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, sia quando tale abuso o tale violazione costituiscono la componente materiale in fatto del reato sia quando discendono solo dall'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 9, c.p., accedendo, quindi, a qualsiasi delitto diverso da quelli catalogati dalla legge medesima (vedi anche, con riferimento al non piu' vigente testo della lettera c) del comma 1 dell'art. 15, legge n. 55/1990, la sentenza della Corte di Cassazione n. 8270 del 1996). La Corte costituzionale ha affermato, dunque, che non e' irragionevole ritenere indice di indegnita' morale reati che, pur essendo tra loro molto distanti sotto il profilo della gravita', sono pero' "tutti accomunati dalla connotazione di essere stati commessi con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o a un pubblico servizio" e cioe', sostanzialmente, accomunati o dalla sussistenza dall'aggravante prevista al n. 9 dell'art. 61 c.p. o dalla materialita' obiettiva del reato. Tale valutazione la Corte ha compiuto in funzione dello scopo perseguito dalla legge n. 55/1990, che e', come dalla stessa Corte ripetutamente affermato, quello di "assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela e la libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale, coinvolgente interessi dell'intera collettivita', connessi a valori costituzionali di primario rilievo" (vedi, tra le tante, la sentenza n. 118 del 1994). Orbene, ritiene il collegio che sia legittimo dubitare della ragionevolezza della scelta di utilizzare, quale indice di "indegnita' morale" a ricoprire determinate cariche elettive, anche condanne per reati di minore gravita', caratterizzati dal riconoscimento della circostanza attenuante dell'azione commessa per motivi di particolare valore morale o sociale. Va sottolineato che la costante giurisprudenza della Corte di cassazione ha da sempre ritenuto molto ristretto il campo di applicabilita' di tale norma, precisando che: "... perche' l'attenuante possa trovare applicazione occorre che l'agente sia stato spinto alla commissione del fatto delittuoso da un sentimento di spiccata nobilta' ed elevatezza e, precisamente, da uno di quegli impulsi e stati affettivi che, nella generalita' dei casi inducono a comportamenti altamente apprezzabili dal punto di vista etico o sociale perche' di valore assolutamente positivo per il raggiungimento del bene comune" (Cass., sez. I, 14 ottobre 1970, Tagliorenzi, in Giust. Pen. 1971, Il, 584); che "... per la sussistenza della circostanza attenuante comune dei motivi di particolare valore morale o sociale non e' sufficiente che il movente della condotta sia suscettibile di una valutazione etica positiva, ma e' necessario che l'agente abbia commesso il reato per realizzare uno scopo spiccatamente nobile e altruistico, oggettivamente conforme alla morale ed ai costumi della collettivita'; il fondamento ideologico dell'attenuante va, pertanto, ravvisato nel movente etico, che spinge l'agente a commettere il delitto con la convinzione di ristabilire un principio morale o sociale offeso." (Cass. pen.., sez. I, 22 marzo 1991); che "... la circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale puo' essere riconosciuta non quando l'imputato abbia agito per una qualsiasi ragione socialmente o moralmente apprezzabile in genere, ma quando sia stato mosso da motivi di sociale rilevanza etico-sociale, come tali riconosciuti dalla collettivita'" (Cass. pen., sez. III, 18 aprile 1994). E' bene sottolineare che in tutti i casi appena citati la Corte di cassazione ha ritenuto non concedibile all'autore del reato l'attenuante in questione. Persino il movente politico e' di per se' insufficiente a giustificare la concessione dell'attenuante: "L'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 c.p. (l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale) non puo' essere riconosciuta se non quando il fatto criminoso risulti motivato da pulsioni suscettibili di riscuotere, per la loro valenza morale o sociale, incondizionato e generale apprezzamento nel comune sentire; il che non puo' dirsi quando ci si trovi in presenza di fatti criminosi che, seppure propagandisticamente presentati come momenti di "lotta per la realizzazione di un miglior assetto sociale, in realta' ad altro non siano finalizzati se non al conseguimento dell'obiettivo, puramente "politico (e, pertanto, per sua stessa natura, non certo universalmente esistente per sostituirlo con un altro, piu' rispondente alle personali visioni ideologiche dell'agente)." Cass. pen., sez. I, 10 maggio 1993. Orbene, se la concessione dell'attenuante di cui al n. 1 dell'art. 62 c.p. rappresenta l'affermazione giurisdizionale che una condotta e' stata espressione di sentimenti "di spiccata nobilta' ed elevatezza", appare non manifestamente infondato il dubbio che non sia ragionevole ritenere la medesima condotta, ai fini dell'applicazione della misura della decadenza automatica da cariche elettive, come indice di sicura indegnita' morale. Tale dubbio si rafforza, per i reati di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, nella mancata previsione di un limite minimo di pena per l'applicazione della misura di prevenzione, nei casi in cui il reato caratterizzato dalla circostanza in questione viene considerato lieve dal giudice penale e punito con una pena estremamente contenuta, di molto inferiore a quella che, per reati di pari allarme sociale (come il porto, la detenzione ed il trasporto di armi, munizioni o materie esplodenti), non prevede l'applicazione della decadenza automatica ai sensi della medesima legge (art. 15 comma 1, lettera a legge n. 55/1990 cit.). Ritiene il collegio che il parametro della ragionevolezza deve essere, nel caso in esame, calibrato sia sulle caratteristiche e sulla gravita' degli altri reati ai quali la legge ricollega, nel caso di condanna non definitiva del loro presunto autore, l'emanazione del medesimo provvedimento cautelare di sospensione dalla carica elettiva, sia sullo scopo perseguito dal legislatore, che e', come detto in precedenza, quello di assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela e la libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale, coinvolgente interessi dell'intera collettivita', connessi a valori costituzionali di primario rilievo. Ritiene infine il collegio che la natura cautelare del provvedimento di sospensione non costituisca motivo di inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale. Ed invero, proprio il meccanismo assolutamente automatico costruito dalla legge comporta che, a differenza di quanto avviene nei casi inerenti ai rapporti di pubblico impiego, qualora la sentenza che ha dato origine ai provvedimenti impugnati dal ricorrente diventi definitiva, la decadenza dalla carica di consigliere comunale consegua di diritto.