IL TRIBUNALE

    Sentito    il    p.g.,   che   ha   espresso   parere   contrario
all'accoglimento,  nonche'  la  difesa,  ha  pronunciato  la seguente
ordinanza  di  remissione  degli  atti alla Corte costituzionale, nel
procedimento   avente  ad  oggetto  il  reclamo,  avanzato  ai  sensi
dell'art. 30-bis  o.p.  da  Autuori  Sabatino,  nato  a  Salerno il 3
ottobre  1938,  detenuto  presso  la  Casa di reclusione di Padova in
esecuzione  della  pena determinata con provvedimento di cumulo della
procura  generale  di  Torino  del  6 ottobre 1989, avverso i decreti
nn. 1053/2001  del  12 luglio 2001 e 1190/2001 del 1 agosto 2001, con
cui   il   magistrato   di   sorveglianza  di  Padova  ha  dichiarato
inammissibile l'istanza dell'interessato volta alla concessione di un
permesso-premio ex art. 30-ter o.p.
                        M o t i v a z i o n e
    Con  i  due  provvedimenti  reiettivi  indicati  in  epigrafe, il
magistrato  di  sorveglianza  di Padova dichiarava l'inammissibilita'
delle  istanze di permesso-premio, avanzate ai sensi dell'art. 30-ter
legge 26 luglio 1975, n. 354 dall'Autuori, a motivo della preclusione
sancita  dal  secondo e terzo comma dell'art. 58-quater stessa legge,
in quanto l'interessato era incorso nel provvedimento di revoca della
semiliberta' da meno di un triennio.
    Avverso  tali  provvedimenti  interponeva  tempestivo  reclamo il
condannato,  la cui difesa ha all'odierna udienza sollevato questione
di  legittimita'  costituzionale  del  secondo  comma  della norma in
questione  ove  interpretata  nel  senso della sua applicabilita' non
solo nei confronti dei condannati per uno dei delitti di cui al primo
comma dell'art. 4-bis o.p., ma nei confronti di tutti i condannati, a
prescindere  cioe'  dal  titolo del reato in espiazione, che si siano
per  l'appunto  visti  revocare una delle misure alternative indicate
nel secondo comma del citato art. 58-quater o.p.
    Ritiene  anzitutto  il  collegio che la prospettata questione sia
rilevante  nel  presente giudizio, giacche' - ove la norma sospettata
di  incostituzionalita'  non fosse riferibile anche ai condannati per
delitti  diversi  da  quelli indicati nel primo comma dell'art. 4-bis
o.p.  -  il  reclamo  dovrebbe  senza dubbio essere accolto, pacifico
essendo  che l'Autuori ha gia' espiato la parte di pena riferibile ai
delitti  ostativi,  e  che  dunque  le  proprie  istanze  volte  alla
concessione  di  permessi-premio  sarebbero ammissibili, nel senso di
produrre  l'effetto  di  costringere il magistrato di sorveglianza ad
una valutazione nel merito delle stesse.
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza, il ragionamento della
difesa non puo' che essere condiviso dal tribunale.
    Va  anzitutto  escluso che la norma possa interpretarsi nel senso
della  sua  riferibilita'  ai soli condannati per i delitti di cui al
primo  comma  dell'art. 4-bis  o.p.,  e che dunque un'interpretazione
costituzionalmente  adeguata  ed  orientata  possa  fugare i dubbi di
incostituzionalita' della medesima.
    Detta  scelta  normativa  e' ricavabile: 1) dall'applicazione del
canone  ermeneutico  ubi  lex voluit dixit, ubi tacuit noluit, che fa
leva sulla espressa enunciazione dei reati ostativi negli altri commi
dello stesso articolo, e sul silenzio sul punto nel comma sccondo; 2)
dalla  ricostruzione  della  genesi  della  disposizione, dalla quale
risulta  che  il  decreto-legge n. 152/1991, in origine, prevedeva un
divieto  generalizzato  (anche per l'ipotesi ora prevista dal comma 1
dell'art. 58-quater),  divieto poi corretto - con la delimitazione ai
condannati  per  i  reati  di  cui  all'art. 4-bis  -  dalla legge di
conversione  n. 203/1991, la quale lo ha consapevolmente circoscritto
ai  condannati  per  reati  del  4-bis  solo  nel  caso  di evasione,
mantenendo  invece  generale  il  divieto  associato  alla revoca dei
benefici;  3)  dall'individuazione  di  una  tendenza complessiva del
sistema, ravvisabile, da ultimo, nell'art. 4 della legge n. 165/1998,
il  quale,  modificando  l'art. 47-ter  o.p. con l'introduzione della
nuova  misura della c.d. detenzione domiciliare generica, ha previsto
che la revoca della stessa comporti l'impossibilita' di sostituire la
pena residua con altra misura.
    E'  noto del resto come la giurisprudenza - e segnatamente quella
di  legittimita'  - si sia orientata nel senso che la disposizione in
parola sia da riferirsi ai soggetti condannati per qualsiasi reato.
    La Corte di cassazione, con la decisione n. 4823 del 30 settembre
1996, Diofebo, I sez. penale, ha affermato a chiare lettere, infatti,
che  tale  disposto  "opera  con  riguardo  a  qualsiasi  condannato,
indipendentemente  dal titolo del reato cui la condanna si riferisce,
e  non  riguardo  soltanto  ai condannati per taluno dei reati di cui
all'art. 4-bis  dell'ordinamento  penitenziario,  cui si riferisce il
comma primo del citato art. 58-quater".
    Tale  indirizzo e' stato confermato anche successivamente, con la
decisione  della  sez. I penale, n. 4730 del 30 giugno 2000, Mbaye, e
ad  esso  si e' oggi uniformata anche la giurisprudenza di merito (si
veda,  ad  esempio,  l'ordinanza  del  Tribunale  di  sorveglianza di
Genova, n. 158 del 12 gennaio 2000, Costa).
    L'art  58-quater  dell'ordinamento penitenziario individua invero
quattro  categorie  di  soggetti  che non possono godere dei benefici
extramurali:
        a)  i  condannati ad uno dei delitti indicati nel primo comma
dell'art. 4-bis che abbiano posto in essere una condotta di evasione;
        b)  i  condannati  che  si  siano  visti  revocare una misura
alternativa  ai sensi dell'art. 47, comma 11, dell'art. 47-ter, comma
6, o dell'art. 51, comma 1;
        c)  i  condannati per i reati di cui agli artt. 289-bis e 630
c.p.,  che  abbiano cagionato la morte del sequestrato, salvo abbiano
espiato  i  due terzi della pena espiata (o almeno ventisei, nel caso
dell'ergastolo);
        d)  i condannati ad uno dei delitti previsti nell'art. 4-bis,
quando si procede o e' pronunciata una condanna per un delitto doloso
punito  con  pena  non inferiore nel massimo ai tre anni, commesso da
chi  ha  posto  in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385
c.p.  o  ha  compiuto il fatto di reato durante il lavoro esterno, la
fruizione  di  un  permesso  premio  o di una misura alternativa alla
detenzione.
    Nei  casi indicati sub-a) e sub-b), il divieto opera per tre anni
(decorrenti,   rispettivamente,   dal   momento  in  cui  e'  ripresa
l'esecuzione  della  custodia  e dalla data di revoca del beneficio);
nel  caso  sub-c),  il divieto opera, come s'e' visto, fino a che non
siano  stati  scontati  effettivamente  2/3 della pena, o 26 anni nel
caso  dell'ergastolo;  nel caso sub-d), infine, la durata del divieto
e' di cinque anni.
    Appare  pero'  al  tribunale evidente che le fattispecie non sono
omogenee.
    In  tre  casi,  infatti,  il  divieto  di concessione opera per i
condannati  a  taluni gravi delitti - quelli indicati nell'art. 4-bis
o.p. e negli artt. 289-bis e 630 c.p. (e, per i sequestri di persona,
solo quando il colpevole abbia cagionato la morte del sequestrato) -;
nel  quarto,  previsto  dal  secondo  comma dell'art. 58-quater e qui
descritto  sub-b),  la  legge ricollega il divieto di concessione dei
benefici al mero fatto che il condannato, indipendentemente dal reato
in esecuzione, si sia visti revocati i benefici gia' concessi.
    Il  sistema  delineato  dall'art. 58-quater,  comma  2, si espone
pero'  ai  pesanti dubbi di costituzionalita' sollevati dalla difesa,
per  sospetta  violazione  degli  artt. 27,  terzo  comma, e 3, primo
comma, Cost.
    Iniziando  dal  contrasto  con  l'art. 3,  primo comma, Cost., la
violazione del parametro e' ravvisabile sotto un duplice profilo.
    Da   un  lato,  l'assimilazione  di  situazioni  diverse  importa
violazione  del  principio  generale  di  eguaglianza, che impone non
soltanto  di  trattare  in modo eguale situazioni eguali, ma anche di
disciplinare in modo diverso situazioni diverse.
    E'  chiaro  che il legislatore, nel momento in cui disciplina una
materia,   dispone   del  potere  di  tipizzare  la  realta'  secondo
fattispecie   astratte,   essendo  impensabile  che  la  legge  possa
inseguire l'infinita varieta' dei fatti.
    A  fronte  di  casi  che  esprimono  esigenze regolative diverse,
tuttavia,  il legislatore non puo' limitarsi a dettare una disciplina
uniforme,   assimilando  situazioni  che  pretendono  una  normazione
differenziata.  Cio'  e'  tanto  piu'  vero quanto piu' la legge va a
incidere  su  valori  costituzionali, come la liberta' personale e la
funzione  rieducativa  della pena, i quali possono essere sacrificati
solo  nella  misura  strettamente  necessaria  al conseguimento degli
scopi  (di  prevenzione generale e di difesa sociale) che la legge si
propone.
    Proprio  in materia di esecuzione penale, la Corte costituzionale
ha  sottolineato  piu' volte come il principio di eguaglianza imponga
le  necessarie differenziazioni: per esempio, nella sent. n. 418/1998
si  legge  che "anche se non puo' dirsi preclusa in senso assoluto al
legislatore   la  potesta'  di  assumere  determinate  condanne  come
criterio  per  escludere  l'ammissione  del  condannato a determinati
benefici  o per sancire la revoca dei benefici gia' ottenuti, occorre
tuttavia  che  tali  criteri  siano sufficientemente circoscritti, in
modo  da  non  dar  luogo  a  irragionevoli  parificazioni  e  da non
precludere,  nelle  ipotesi meno gravi, la funzione rieducativa della
pena".
    Dall'altro  lato, la disciplina posta dal legislatore nel secondo
comma dell'art. 58-quater pare porsi in contrasto con l'imperativo di
ragionevolezza   o   di   razionalita'   normativa,   che   la  Corte
costituzionale legge nello stesso art. 3, primo comma, Cost.
    E'  lo  stesso legislatore, infatti, ad incentrare il sistema del
divieto  dei  benefici  su  una  tipizzazione  per  titoli  di reato,
ricollegando  -  in  tutti  i  casi,  salvo, inspiegabilmente, quello
previsto  dal  secondo  comma  dell'art. 58-quater - l'esclusione dei
benefici   alla   commissione   di   fatti  di  reato  specificamente
individuati,  caratterizzati da una particolare pericolosita' sociale
sul  presupposto  dell'inserimento  del  soggetto  in  organizzazioni
criminali stabili.
    Il  collegamento  tra  la  revoca  di una misura alternativa e il
divieto  triennale di concessione di nuovi benefici appare allora, se
esteso    ai   condannati   per   qualsiasi   reato,   manifestamente
irragionevole e sproporzionato, potendo comportare, in molti casi, il
pregiudizio  della  finalita'  rieducativa della pena, e cio' proprio
laddove,  per  la  lieve entita' del fatto sanzionato, non sussistono
esigenze   di  prevenzione  generale  e  di  tutela  della  sicurezza
collettiva.
    Questo  profilo  conduce all'esame del secondo parametro invocato
dalla difesa: il principio rieducativo della pena di cui all'art. 27,
terzo  comma, della Costituzione. La disciplina che qui si censura e'
caratterizzata  da  un'assoluta  rigidita',  in quanto e' impedito al
magistrato   di  sorveglianza,  cui  e'  proposta  la  richiesta  del
beneficio,  ogni  valutazione,  dovendo  egli  limitarsi a dichiarare
l'inammissibilita'  dell'istanza  qualora  accerti  che  nel triennio
precedente e' stata revocata una misura alternativa.
    E'  noto come la Corte costituzionale abbia piu' volte dichiarato
illegittime   disposizioni   che  prevedevano  meccanismi  di  revoca
automatica dei benefici concessi.
    Con   la   sentenza   n. 306/1993,  la  Corte  costituzionale  ha
sottolineato  che  in  materia  di  benefici  penitenziari  vige  "il
principio   che   l'effetto   della   revoca   di  essi  deve  essere
proporzionato  (oltre  che al quantum di afflittivita' che da essi e'
derivato)  alla gravita' oggettiva e soggettiva del comportamento che
ha  determinato  la  revoca",  ed  ha ritenuto che tale principio sia
derivabile     dagli     imperativi     di     "proporzionalita'    e
individualizzazione della pena, i quali a loro volta discendono dagli
artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione".
    Nella   decisione   n. 186/1995,   relativa   alla  questione  di
legittimita'     costituzionale     dell'art. 54,     terzo     comma
dell'ordinamento  penitenziario,  che  prevedeva la revoca automatica
della  liberazione  anticipata in conseguenza di condanna per delitto
non   colposo   commesso   nel   corso   dell'esecuzione  della  pena
successivamente alla concessione del beneficio, la Corte ha ravvisato
l'incostituzionalita'  di  un  meccanismo  improntato  ad  un  rigido
automatismo  sanzionatorio  che  esclude  ogni valutazione "in ordine
alla  compatibilita'  o  meno  degli  effetti  che scaturiscono dalla
liberazione anticipata rispetto al valore sintomatico che in concreto
puo' assumere l'intervenuta condanna".
    La  Corte,  nella  sentenza citata, ha rilevato inoltre che "tale
indifferenza normativa per qualsiasi tipo di apprezzamento ... lascia
quindi  presupporre  che al fondo di una simile rigorosa opzione stia
nulla  piu' che un preciso disegno volto ad assicurare, attraverso un
meccanismo  di  tipo meramente sanzionatorio, la sola "buona condotta
del  soggetto  in  espiazione  di  pena,  relegando  cosi' nell'ombra
proprio  quella  funzione  di  impulso  e  di stimolo ad una efficace
collaborazione  nel trattamento rieducativo che costituisce l'essenza
stessa dell'istituto".
    Ancora,  la  medesima ratio e' alla base della sent. n. 418/1998,
con  la  quale  il  giudice  delle leggi ha censurato, per violazione
dell'art. 27, terzo comma, Cost., il disposto dell'art. 177, comma 1,
c.p.,  nella  parte  in  cui  prevedeva  la  revoca della liberazione
condizionale  nel  caso  di  condanna  per reato della stessa indole,
anziche'  stabilire che la liberazione condizionale e' revocata se la
condotta  del  soggetto,  in  relazione  alla condanna subita, appare
incompatibile con il mantenimento del beneficio.
    E anche quando ha fatto salva la legittimita' della disciplina in
materia   di   permessi-premio,  caratterizzata  dall'esclusione  del
beneficio per un periodo di due anni dalla commissione di altro fatto
reato  -  commesso  durante  l'espiazione  della  pena - del quale il
soggetto  sia  imputato  (art. 30-ter, quinto comma, dell'ordinamento
penitenziario),   la  Corte  costituzionale  ha  argomentato  con  la
"particolare natura" dell'istituto, "caratterizzato dall'essere parte
integrante del trattamento e ancorato alla regolarita' della condotta
quale  delineata  nell'art. 30-ter,  ottavo  comma"  dell'ordinamento
penitenziario;  ma,  nello  stesso  tempo, si e' sentita obbligata ad
indirizzare  un  monito  al  legislatore  affinche'  questi rivedesse
"l'impiego  dell'assoluto  automatismo  ... non tanto in relazione al
momento  processuale  che  determina  l'effetto preclusivo, quanto in
relazione  alle  tipologie  di  delitti  dolosi  la  cui  commissione
effettivamente   comprometta  il  giudizio  sulla  regolarita'  della
condotta  e,  conseguentemente, faccia presumere la pericolosita' del
condannato,  nonche'  in  relazione  all'indifferenziata  durata  del
periodo di esclusione dal beneficio" (sent. n. 296/1997).
    L'art. 58-quater,  secondo  comma,  che  si riferisce a qualsiasi
condannato,  e  non  solo  a  quelli  responsabili dei delitti di cui
all'art. 4-bis  o.p.,  appare dunque in contrasto con i corollari del
principio rieducativo di cui all'art. 27, terzo comma, Cost.
    L'automatismo   del   divieto,  infatti,  non  consente  che  sia
garantita  la  proporzionalita'  della  revoca,  in quanto - in primo
luogo - la stessa risulta ultrattiva, per tre anni, indipendentemente
dalla  condotta  che  ha giustificato l'adozione del provvedimento di
revoca.  E  se proporzionalita' significa commisurazione dell'effetto
giuridico al fatto, una disciplina che prescinde totalmente dal fatto
medesimo  non puo', per definizione, apparire proporzionata (ne', per
la   stessa  ragione,  "individualizzata",  come  pure  richiederebbe
l'art. 27 Cost., terzo comma).
    In  secondo  luogo,  il  divieto e' sproporzionato sotto un altro
profilo,  in quanto la revoca di una delle misure alternative diventa
ostativa  alla  concessione di benefici anche di natura diversa. Puo'
accadere, infatti, che la revoca di un beneficio, disposta in seguito
all'adozione  da  parte  del  detenuto di un comportamento che appaia
incompatibile  con  quel beneficio, determini l'impossibilita' per il
condannato  di  essere  ammesso ad altre misure alternative, rispetto
alle  quali  non  sussiste  -  ne'  e' indiziata dal provvedimento di
revoca del diverso beneficio - alcuna incompatibilita'.
    In  terzo  luogo, 1a violazione del principio di proporzionalita'
si manifesta nel fatto che il divieto triennale rischia di precludere
totalmente  la  possibilita'  di fruire nuovamente dei benefici per i
condannati  che  abbiano  subito  pene  detentive brevi; e quindi, la
durata  rigida  dello  stesso  comporta  una  maggiore  afflittivita'
proprio  per  quei  soggetti  che  hanno posto in essere condotte che
esprimono una minore pericolosita' sociale.
    Anzi,   in   molti   casi   il   divieto   puo'  trasformarsi  in
quell'esclusione  assoluta  e  definitiva  che,  a detta della Corte,
"compromette    l'osservanza   dell'art   27,   terzo   comma   della
Costituzione" (sent. n. 403/1997).
    La  disposizione  della  cui  legittimita'  qui si dubita e' gia'
stata  oggetto  di  esame  da parte della Corte costituzionale per un
aspetto particolare.
    Con    sent.    n. 436/1999,    infatti,    il    secondo   comma
dell'art. 58-quater  e'  stato  dichiarato illegittimo nella parte in
cui  si  riferisce  al condannato minorenne. Le argomentazioni svolte
dalla  Corte  a  sostegno  della  declaratoria d'incostituzionalita',
tuttavia,  per  quanto  avessero  ad  oggetto  la situazione del solo
minorenne  (tale  era  il  thema decidendum prospettato dal giudice a
quo),  sembrano svolgersi su un piano piu' generale e sono riferibili
anche  alla condizione del condannato maggiorenne. La Corte, infatti,
rileva   che  "un  divieto  generalizzato  e  automatico,  di  durata
triennale,  di concessione di tutti i benefici penitenziari elencati,
in conseguenza della revoca di una qualunque delle misure alternative
dell'affidamento  in  prova,  della  detenzione  domiciliare  e della
semiliberta',    contrasta    in    effetti    con    il    criterio,
costituzionalmente    vincolante,   che   esclude   siffatti   rigidi
automatismi, e richiede che sia resa possibile invece una valutazione
individualizzata  e  caso  per  caso,  in  presenza  delle condizioni
generali  costituenti  i presupposti per l'applicazione della misura,
della  idoneita'  di  questa  a conseguire le preminenti finalita' di
risocializzazione   che   debbono  presiedere  all'esecuzione  penale
minorile";   ma,   se   si   tiene   conto  che  la  finalita'  della
risocializzazione  e'  costituzionalmente prescritta per l'esecuzione
penale  in  genere,  e  non  soltanto per quella minorile, la portata
universale  dell'affermazione  della  Corte  puo'  essere agevolmente
apprezzata. Anche le considerazioni, contenute nella sentenza citata,
secondo le quali "puo' ben essere ... che, nonostante la revoca della
misura  alternativa,  intervenuta  in  quanto  il  comportamento  sia
apparso  "incompatibile  con  la  prosecuzione  della prova (art. 47,
comma   11)   o  "incompatibile  con  la  prosecuzione  delle  misure
(art. 47-ter,  comma  6)  ovvero  in  quanto  il  soggetto non si sia
palesato  "idoneo  al  trattamento  di  semiliberta'  (art. 51, primo
comma) - a seguito dunque di valutazioni inerenti alla compatibilita'
della  singola  misura revocata -, la situazione concreta del giovane
condannato  faccia  ritenere utile ed adatta l'applicazione di una od
altra  delle  misure previste dall'ordinamento al fine di favorire il
reinserimento  sociale  dei  detenuti, che sarebbero invece precluse,
per  un  lungo  periodo, dall'operare della norma censurata in questa
sede",   non   possono   considerarsi   limitate   al  solo  "giovane
condannato",  valendo - dal punto di vista logico - per il condannato
di qualsiasi eta'.
    Razionalita'  ed  uguaglianza nella commisurazione della qualita'
della   pena   da   irrogare  in  concreto  imporrebbero  dunque  che
l'automatismo  del divieto fosse applicabile soltanto a quei soggetti
i  quali, nel sistema dell'esecuzione quale risulta dalle innovazioni
legislative  del 1991, sono sottoposti a periodi di osservazione piu'
lunghi rispetto alla generalita' dei condannati.
    L'ammissione alla semiliberta', per esempio, e' riconosciuta dopo
che  sono  stati  espiati  2/3,  e non la meta', della pena (art. 50,
comma  2,  o.p.); la concessione dei permessi premio e' prevista dopo
meta',  e  non un quarto, di pena espiata (art. 30-ter, comma 4). Nei
confronti  delle  persone  che si sono rese responsabili dei reati di
cui   all'art. 4-bis   il   legislatore   dispone   una  prognosi  di
pericolosita'  che puo' essere corretta qualora sia dimostrato che il
condannato  ha  collaborato  con  la  giustizia  ovvero  che  non  ha
collegamenti  in  atto  con  la criminalita' organizzata (art. 4-bis,
primo  comma,  o.p.): e configurare un periodo di osservazione di una
certa  entita'  dopo la revoca dei benefici appare non irragionevole,
se tale scelta e' limitata solo a questi soggetti.
    Cosi'  circoscritto,  il  meccanismo dell'art. 58-quater, secondo
comma,  non  potrebbe dirsi incostituzionale, perche' esso si innesta
su una valutazione compiuta direttamente dal legislatore con riguardo
ad  una  tipologia  determinata  di  reati  precisamente individuati,
valutazione  che  la  stessa Corte costituzionale non ha mai ritenuto
illegittima.
    Non si puo', del resto, ignorare che la disposizione in questione
e'  stata  introdotta  dal  decreto-legge  12 gennaio 1991 n. 5 (piu'
volte  reiterato  fino  alla  conversione nella legge 12 luglio 1991,
n. 203),  che  recava  "Provvedimenti  urgenti  in tema di lotta alla
criminalita'   organizzata   e   di   trasparenza  e  buon  andamento
dell'attivita' amministrativa" e che si salda, pertanto, ad una serie
di  misure  adottate per fronteggiare l'allarme sociale destato dalla
recrudescenza  del  crimine  organizzato  nella contingenza in cui il
decreto  fu  adottato  (come  la  Corte  costituzionale,  nella sent.
n. 306/1993, non ha mancato di osservare).