IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Letti gli atti del procedimento n. 16047/1998; Vista la istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere avanzata nell'interesse di Messina Gennaro; Tenuto conto del parere espresso dal p.m., sciogliendo la riserva formulata in data 25 luglio 2001. O s s e r v a A seguito della applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Messina Gennaro per i delitti di cui all'art. 416-bis c.p. (partecipazione alla associazione camorristica denominata clan dei casalesi) e 513 c.p., i difensori dell'indagato, dopo aver esperito i normali mezzi di impugnazione, proponevano istanza di revoca della ordinanza de quo adducendo, tra l'altro, il venir meno della gravita' indiziaria, determinato dalle nuove emergenze costituite dalle indagini difensive e, segnatamente, dalle dichiarazioni acquisite dalla difesa ex art. 391-bis e ss. c.p.p. Il pubblico ministero, cui l'istanza difensiva veniva sottoposta al fine di acquisire parere, chiedeva a questo giudice di sollevare eccezione di illegittimita' costituzionale delle norme introdotte dalla legge n. 397/2000 ed in particolare degli artt. 391-bis, ter, octies e decies c.p.p. per violazione degli articoli 2, 3 e 111 Cost. La difesa chiedeva breve termine per controdedurre ma non depositava alcunche'. I. - La proponibilita' della eccezione di illegittimita' costituzionale nella attuale fase procedimentale. Deve in primo luogo sottolinearsi come la questione posta dal p.m., sicuramente possa determinare la proposizione della eccezione da parte del g.i.p. alla Corte costituzionale laddove sussistano i presupposti di cui all'art. 23, legge cost. n. 87 del 1953. La norma dell'art. 23 legge cost., infatti, prevede che "nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale, una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza ...". Ripetutamente la Corte di cassazione ha affermato la proponibilita' di siffatte questioni nel corso di procedure incidentali endoprocessuali che determinino un "giudizio" con conseguente sospensione del procedimento stesso (cfr. Cass. sez. I n. 4211 del 3 dicembre 1993, Cass. sez. I n. 2317 del 16 giugno 1994; Cass. sez. VI n. 2090 del 7 luglio 1992, Cass. sez. I sent. n. 2594 del 3 luglio 1992). Tutte le pronunce richiamate hanno ad oggetto fattispecie verificatesi nel corso di procedimenti di impugnazione di provvedimenti restrittivi dinanzi al tribunale del riesame, ma e' ben evidente che i principi enunciati nelle stesse possono trovare applicazione nel caso in esame. La decisione di un'istanza, proposta ex art. 299 c.p.p., sicuramente costituisce espressione di potere giurisdizionale, cui deve applicarsi la definizione di "giudizio", ed inoltre il carattere ordinatorio del termine di cinque giorni dettato dall'art. 299 c.p.p. non pone alcun problema (che e' invece reiteratamente stato posto, con alterne soluzioni con riferimento al procedimento innanzi al tribunale del riesame) inerente la eventuale inefficacia della misura cautelare conseguente alla mancata decisione. II. - I termini ed i motivi della questione. Il pubblico ministero nell'esprimere parere sull'istanza formulata nell'interesse di Messina Gennaro sollevava dubbi di legittimita' costituzionale in ordine alle norme di cui agli artt. 391-bis, 391-ter, 391-octies e 391-decies del codice di procedura penale (introdotti a seguito della legge n. 397/2000). In particolare il rappresentante della pubblica accusa individuava un contrasto di dette norme con gli artt. 2, 3 e 111 della Costituzione in quanto, conferendo alle indagini compiute dai difensori, segnatamente alle dichiarazioni raccolte, la medesima valenza probatoria di quelle assunte dal p.m. non prevedeva pero', a carico del difensore, i medesimi doveri ed obblighi, non solo deontologici, ma normativi nella assunzione. Diretta conseguenza di tale omessa previsione sarebbe la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione nonche' dei diritti inviolabili dell'individuo di cui all'art. 2 Cost., con particolare riferimento ai diritti delle vittime ed infine il principio del giusto processo di cui all'art. 111 della Costituzione che si fonda sulla parita' di diritti e doveri tra le parti processuali. III. - La rilevanza. La questione prospettata dal p.m. e' rilevante, non potendo provvedersi sull'istanza difensiva indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale delle norme citate. Secondo il costante orientamento della C.c. "la pregiudizialita' della questione medesima, conditio sine qua non ai fini del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, si concreta solo allorche' il dubbio investa una norma dalla cui applicazione, ai fini della definizione del giudizio innanzi a lui pendente, il giudice a quo dimostri di non poter prescindere" C.c. sent. n. 190/1984. Nel caso di specie giova sottolineare, sia pure in estrema sintesi, come il grave quadro indiziario posto a base della ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell'indagato Messina Gennaro, si fonda sulle dichiarazioni plurime di collaboratori di giustizia cui si aggiungono una serie di riscontri oggettivi relativi alla condotta del Messina che, nella ricostruzione della accusa, svolgeva funzioni di strettissima collaborazione con il capo del clan Zagaria Vincenzo curandone, in veste di commercialista gli interessi finanziari. In particolare, per quanto attiene all'ipotesi di reato di cui all'art. 513 c.p., la collaborazione del Messina, si sarebbe concretata nell'agevolare la acquisizione del controllo monopolistico del mercato lattiero-caseario nel territorio casertano da parte del gruppo dello Zagaria. A fronte di tali emergenze la difesa produceva, con l'istanza oggetto del presente giudizio, una serie di dichiarazioni assunte ai sensi delle norme richiamate (art. 391-bis e ss. c.p.p.). Il contenuto di tali dichiarazioni, provenienti da coindagati nel procedimento e da persone informate dei fatti, smentirebbe in modo sostanziale l'assunto accusatorio. Discende da cio' il carattere imprescindibile della applicazione delle norme sulle indagini difensive e, segnatamente delle norme di cui all'art. 391-octies e decies c.p.p. che prevedono la utilizzabilita' delle dichiarazioni assunte ex art. 391-bis e ter c.p.p. sia nella fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare ("... il difensore puo' presentare al giudice direttamente gli elementi di prova a favore del proprio assistito") che in quella dibattimentale ("le parti possono servirsi delle dichiarazioni a norma degli artt. 500, 512, e 513 c.p.p.") equiparandole quanto ad utilizzabilita' e forza probatoria a quelle assunte dalla pubblica accusa. III. - La non manifesta infondatezza. Le norme introdotte dalla legge n. 397 del 2000 (c.d. indagini difensive), nel prevedere un'amplissima possibilita' per i difensori e le altre parti private di assumere prove, conferiscono alle stesse la medesima valenza di quelle assunte dalla pubblica accusa (si vedano le gia' richiamate norme di cui agli artt. 391-octies e decies c.p.p.). Cio' sarebbe la ovvia conseguenza, ad una superficiale lettura, dei principi ispiratori della legge, del principio costituzionale di parita' fra le parti processuali fatto proprio dall'art. 111 Cost. Tuttavia non sembra alla scrivente che le norme richiamate godano della copertura costituzionale dell'art. 111 Cost. Tale norma infatti prevede testualmente che la persona accusata abbia facolta', davanti al giudice, di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico e di ottenere la convocazione di testi a discarico. A fronte della legittima aspettativa dell'accusato di avere un processo che gli consenta una difesa effettiva sussiste il dovere dello Stato di garantire una genuina acquisizione della prova. Dal contemperamento di tali esigenze ed al fine di realizzare un processo penale teso all'effettivo accertamento della verita', deriva la norma costituzionale che ha previsto che il difensore, allorquando si instaura il rapporto processuale abbia gli stessi diritti, poteri e doveri della pubblica accusa. Conseguenza logica di tale previsione e' che, proprio al fine di realizzare la posizione di parita' delle parti, vi sia il potere della persona sottoposta ad indagini, attraverso il suo difensore, di svolgere indagini che possano poi in sede dibattimentale e di udienza preliminare consentire il concreto esercizio di tale potere. Cio' che appare pero' esulare dal dettato costituzionale e' l'attribuzione di poteri investigativi ai difensori, dotati di eguali effetti processuali e giuridici di quelli della pubblica accusa. E' opportuno sottolineare in via preliminare come, intanto puo' assegnarsi eguale valore giuridico, eguale forza probatoria a diversi atti, (quali quelli del p.m. e della difesa) in quanto tali atti siano il risultato di attivita' regolamentate in modo omogeneo, il cui svolgersi sia egualmente assistito da obblighi, sanzioni, forme che siano in grado di garantire in modo eguale, la genuinita' ed affidabilita' dell'atto. Ad eguali doveri e regole devono e possono corrispondere eguali poteri. Nel caso in esame non si verifica una siffatta simmetria laddove invece l'effetto della normativa richiamata e' quello di sbilanciare in modo inammissibile il processo penale in favore dell'indagato/imputato, riverberando i suoi effetti sul diritto-dovere dello Stato di garantire, anche attraverso il processo penale, i diritti fondamentali ed inviolabili dell'uomo e delle collettivita' lesi dalla attivita' delittuosa, che, sicuramente devono ritenersi beni di rilievo costituzionale ex art. 2 Cost. L'esame della normativa vigente consente di individuare una serie ben precisa di obblighi e doveri in capo al p.m. nello svolgimento della sua attivita' di indagini cui corrisponde un altrettanto preciso sistema di sanzioni, anche penali, laddove nulla di analogo e' previsto per il difensore delle parti private. L'attivita' del p.m. durante le investigazioni e' regolata dagli artt. 326 e 358 c.p.p. ed agli artt. 73 e ss. ord. giud. Dal complesso di tali norme si desume che il p.m., nell'esercizio delle sue funzioni e' un pubblico ufficiale che ha, sempre e comunque, un obbligo di assoluta imparzialita', che non ha il dovere di sostenere comunque l'accusa, che deve ricercare anche le prove in favore dell'indagato/imputato e che, soprattutto, una volta che ha trovato tali prove a discarico, le deve usare dando loro ingresso nel procedimento. Quanto poi ai verbali redatti dal p.m. o dai suoi ausiliari la loro caratteristica di atti pubblici, facenti fede sino a querela di falso impone al pubblico ufficiale che li redige (p.m. o p.g.) un obbligo di assoluta completezza e fedelta'. Diretta conseguenza, in caso di volontaria e dolosa inosservanza di tali obblighi, e' la configurabilita' di responsabilita' penale ex art. 323 c.p. nonche', in caso di non corrispondenza del verbale redatto dal p.m. alla dichiarazione resa, determinata da una volontaria inesatta verbalizzazione, dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 476 c.p. Analoga disciplina non e' dato rinvenire per quanto attiene alle investigazioni difensive. Le uniche disposizioni relative alle modalita' di documentazione dell'attivita' difensiva sono contenute nell'art. 391-ter che, quanto alla forma rinvia al titolo III del libro II del codice di procedura penale, applicabile, recita la norma in questione, in quanto compatibile. Tale richiamo pero' certamente non puo' conferire ai verbali redatti dai difensori il carattere di atti pubblici, ma ha l'unico effetto di imporre una serie di formalita' nella materiale redazione quanto alla indicazione dei soggetti che partecipano all'atto, alla data ora e luogo dello stesso, alla sottoscrizione, oltre agli specifici avvertimenti previsti dal 391-bis c.p.p. Nessuna norma pero', ne' nella nuova legge in esame ne' nel sistema normativo previgente in cui si e' inserita, prevede alcunche' sul contenuto dell'atto, sulla necessita' che la verbalizzazione sia completa e fedele e, conseguentemente, nessuna sanzione e' ipotizzabile nel caso in cui un difensore ometta di verbalizzare particolari che potrebbero nuocere al suo assistito. Conferma di tale assunto deriva dalla lettura del primo comma dell'art. 391-ter c.p.p. che, con riferimento alla sola sottoscrizione del dichiarante, prevede un potere di certificazione del difensore che autentica esclusivamente la identita' di chi sottoscrive, laddove nessuna garanzia di autenticita' e' prevista in relazione alla corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto verbalizzato. Ne' potrebbe, al riguardo richiamarsi il comma 6 dell'art. 391-bis c.p.p. che si riferisce alla sola inosservanza delle disposizioni dettate da tale articolo nella prima parte (relative alla modalita' di convocazione della parte e alla necessita' di formulare una serie di avvertimenti al dichiarante) e che, in ogni caso, prevede unicamente una segnalazione, da parte del giudice alla autorita' titolare del potere disciplinare. Ma la lettura della disciplina consente di prospettare la non manifesta infondatezza della questione prospettata dal p.m. anche sotto un ulteriore profilo. Si e' gia' sottolineato che l'attivita' investigativa del p.m. e' disciplinata, in via generale, dalla norma dell'art. 358 c.p.p. che prevede l'obbligo per l'accusa di ricercare tutte le prove, anche quelle a favore dell'accusato. Inoltre, tutte le emergenze investigative devono, essere messe a disposizione delle altre parti processuali ed essere sottoposte alla attenzione del giudice. Tale obbligo e' previsto espressamente dal combinato disposto degli artt. 416 c.p.p., (cui corrisponde, per quanto attiene all'ipotesi in cui le indagini si concludano con richiesta di archiviazione, l'art. 408, comma 1, c.p.p.) e l'art. 130 disp att., che impongono al pubblico ministero, nella formazione del fascicolo da trasmettere al giudice, l'inserimento di tutti gli atti di indagine. Tale obbligo e' rafforzato dalla norma dell' art. 419 c.p.p. che prevede la trasmissione di eventuali indagini successive alla richiesta di rinvio a giudizio. La necessita' che al giudice siano sottoposti tutti gli atti e la assenza di discrezionalita' da parte del p.m. nella scelta degli atti da sottoporre all'organo giudicante e', peraltro, stata affermata in modo chiarissimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 14 del 5 aprile 1991 avente ad oggetto la pretesa incostituzionalita' della norma dell'art. 41 comma 2 c.p.p. (La Corte nel dichiarare infondata la questione affermava che vi e' un dovere del p.m. di trasmettere tutti gli atti di indagine al giudice.). Anche in tal caso, il sistema normativo non prevede alcunche' di analogo per il difensore che abbia svolto investigazioni in favore del suo assistito. Espressamente, infatti, l'art. 391-octies stabilisce che il difensore puo' esibire al giudice i risultati della sua attivita' ma non ha alcun dovere in tal senso, trattandosi di una scelta dettata dalla necessita' di tutelare al meglio interessi di natura squisitamente privatistici quali quelli del suo assistito. Le conseguenze della applicazione di tale normativa sono facilmente ipotizzabili nel loro effetto che non e' esagerato definire devastante sul regolare svolgimento del processo. Ed infatti il difensore che venga in possesso di una dichiarazione che non ritenga utile se non addirittura sfavorevole per il proprio cliente ben puo' omettere di depositarla o, farlo solo in parte e cio', sia con riferimento a tutte le dichiarazioni rese da un testimone o da un imputato al difensore (che acquisite le dichiarazioni di un teste oculare che dice di aver visto il suo cliente sul luogo del delitto e di un altro che dice di non averlo visto, deposita solo quelle del teste che non ha visto), sia con le dichiarazioni rese da uno stesso teste o imputato. Sarebbe infatti ben possibile, che un teste, escusso piu' volte, in diverse occasioni sul medesimo argomento e su argomenti connessi offra al difensore dichiarazioni contrastanti tra loro o fornisca, in momenti diversi, particolari che letti complessivamente consentano una comprensione dei fatti diversa. Anche in tal caso nulla vieta al difensore di utilizzare ed inserire nel fascicolo depositato, solo le dichiarazioni, fra le diverse rese e contenute in diversi documenti, che piu' sono funzionali per dimostrare la tesi difensiva e distruggere o conservare quelle contrarie. Orbene non e' necessario sottolineare ancora come si determini attraverso tale meccanismo, previsto dalla normativa degli artt. 391-bis, ter, octies e decies c.p.p., una gravissima disparita' tra le parti processuali, con violazione degli artt. 3 e 111 Cost. e con lesione dei principi di ragionevolezza e di tutela dei diritti fondamentali delle vittime dei reati, stravolgendo il processo penale quale strumento di accertamento della verita'. Alla luce di quanto sin qui esposto va dichiarata la rilevanza nel presente giudizio e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sopra esposta e formalizzata come nel dispositivo che segue e che vanno altresi' adottati i conseguenti provvedimenti ordinatori.