ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

    Nel   giudizio   di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 582,
comma 2,  codice  di  procedura  penale,  promosso  con ordinanza del
4 giugno 2002  dalla  Corte  di  assise  di  appello  di  Palermo nel
procedimento penale a carico di V.V., iscritta al n. 340 del registro
ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 33, 1a serie speciale, dell'anno 2002.
    Udito  nella  camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  la  Corte  di  assise  di  appello  di  Palermo ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 111, secondo
comma,   e   112   della   Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale   dell'art. 582,  comma 2,  del  codice  di  procedura
penale,  nella  parte  in  cui  non prevede che il pubblico ministero
possa  presentare l'atto di impugnazione "anche nella cancelleria ove
si trova il suo ufficio";
        che  il rimettente evidenzia come la norma impugnata consenta
alle   parti   private  ed  ai  difensori  di  presentare  l'atto  di
impugnazione  non  soltanto  presso la cancelleria del giudice che ha
emesso il provvedimento impugnato, ma anche presso la cancelleria del
tribunale  o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale
luogo  e' diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento oggetto
di  gravame:  facolta',  quest'ultima,  invece  non  prevista  per il
pubblico  ministero,  malgrado  si  realizzino  anche per tale organo
esigenze  non  dissimili  a seguito della istituzione delle direzioni
distrettuali antimafia, posto che per i magistrati ad esse addetti si
pone  "la  necessita ...  di  presentare atti di impugnazione avverso
provvedimenti  emessi  in  luoghi  diversi  da quelli in cui" il loro
ufficio si trova;
        che,  a  parere della Corte rimettente, la norma impugnata si
porrebbe  dunque  in  contrasto  con  l'art. 3 della Costituzione, in
quanto  non  sussisterebbero  fondate  ragioni per le quali "la parte
pubblica  debba  essere  trattata  in  modo  differente  dalla  parte
privata, a fronte della medesima situazione di fatto";
        che  risulterebbe violato anche l'art. 112 Cost., giacche' la
limitazione  di  cui  innanzi  si  e' detto inciderebbe sul potere di
impugnazione  del  pubblico  ministero, costituente, per tale organo,
"necessario atto di prosecuzione" della azione penale;
        che   un   ulteriore  contrasto  viene  ravvisato  anche  con
l'art. 97  Cost.,  in  quanto,  impedendo  al  pubblico  ministero di
presentare  l'impugnazione presso la cancelleria del tribunale ove ha
sede  il  suo  ufficio e consentendo, invece, tale facolta' solo alle
parti   private   ed   ai  difensori,  "si  limita  irragionevolmente
l'efficace  ed  efficiente  andamento  della  attivita'  giudiziaria,
imponendo all'ufficio del p.m. modalita' e forme procedimentali senza
alcun apprezzabile vantaggio in termini di economia processuale";
        che sarebbe violato, infine, anche il principio di parita' di
trattamento   fra  accusa  e  difesa  nel  processo  penale,  sancito
dall'art. 111,  secondo  comma,  Cost.,  trattandosi di principio non
circoscritto   al   solo   contraddittorio  ed  alla  acquisizione  e
formazione  della  prova, ma da "intendersi in senso piu' ampio, come
parita'   nell'esercizio   delle  facolta'  e  dei  diritti  inerenti
l'espletamento  di  tutte le attivita' riguardanti lo svolgimento del
processo";
        che   la   rilevanza  del  quesito  -  sottolinea  ancora  il
rimettente  -  sarebbe nella specie di tutta evidenza, in quanto, ove
la norma impugnata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima in
parte   qua,   l'appello  proposto  dal  pubblico  ministero  sarebbe
tempestivo e, dunque, ammissibile.
    Considerato che la Corte rimettente censura la previsione dettata
dall'art. 582,  comma 2,  del codice di procedura penale, nella parte
in  cui  consente soltanto alle parti private ed ai difensori - e non
anche  al  pubblico  ministero - di presentare l'atto di impugnazione
nella  cancelleria  del  tribunale o del giudice di pace del luogo in
cui  si  trovano, se tale luogo e' diverso da quello in cui fu emesso
il provvedimento impugnato;
        che  tale  previsione  -  di  tradizione  assai risalente, in
quanto gia' presente nell'art. 198, terzo comma, del codice abrogato,
come  sostituito  ad  opera  dell'art. 1  della  legge 21 marzo 1958,
n. 229  -  si giustifica agevolmente in considerazione delle evidenti
diversita'  di  condizioni  e  status  che  caratterizzano i soggetti
privati,  da  un  lato,  ed  i  magistrati  del  pubblico  ministero,
dall'altro,  potendosi  questi  ultimi  avvalere  delle strutture del
proprio  ufficio  e  risultando,  dunque, in concreto agevolati nella
presentazione,  eventualmente  anche a mezzo di incaricato, dell'atto
di impugnazione;
        che  tali  rilievi  non  possono  certo  dirsi  venuti meno a
seguito  della  istituzione delle direzioni distrettuali antimafia, e
della  conseguente  possibilita'  che i magistrati addetti si trovino
nella  necessita'  di  proporre  impugnazioni  avverso  provvedimenti
adottati  da autorita' giudiziarie aventi sede anche in luogo diverso
dal capoluogo del distretto, trattandosi, all'evidenza, di profili di
mero   fatto   che   in   nessun   modo   incidono  sulla  intrinseca
ragionevolezza della disposizione oggetto di impugnativa;
        che  appare  del  tutto  improprio  il  dedotto contrasto con
l'art. 112  Cost.,  non  soltanto  perche',  una  volta esclusa nella
specie qualsiasi irragionevole limitazione nei poteri processuali del
pubblico   ministero,   deve   altresi'   escludersi  la  prospettata
compromissione  delle  attribuzioni di quell'organo; ma anche perche'
il  potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce, in
se',  estrinsecazione  necessaria  dei  poteri inerenti all'esercizio
della azione penale (v., fra le altre, l'ordinanza n. 421 del 2001);
        che  e' palesemente infondato anche il dubbio di legittimita'
sollevato  in  riferimento  all'art. 111,  secondo  comma,  Cost., in
quanto  il  principio  di parita' tra accusa e difesa - pacificamente
gia' presente fra i valori costituzionali anche prima delle modifiche
apportate  dalla  legge  costituzionale  n. 2 del 1999 - non comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero  e  quelli  delle  altre  parti, giacche' una diversita' di
trattamento    puo'    essere,    come    nella   specie,   stabilita
ragionevolmente,   nell'ambito   delle   scelte   discrezionali   del
legislatore,   proprio   in   ragione   della   peculiare   posizione
istituzionale  del  pubblico  ministero e degli ausili strutturali di
cui,  ratione  officii,  puo'  avvalersi  (v., ex plurimis, ordinanza
n. 83 del 2002);
        che,  infine, deve ritenersi inconferente altresi' la dedotta
violazione   dell'art. 97  Cost.,  posto  che,  secondo  la  costante
giurisprudenza  di questa Corte, il principio di buon andamento della
pubblica   amministrazione   - pur   concernendo   anche  gli  organi
dell'amministrazione  della  giustizia  - si riferisce esclusivamente
alle  leggi  relative  all'ordinamento  degli uffici giudiziari ed al
funzionamento   di  questi  ultimi  sotto  l'aspetto  amministrativo,
risultando   di   per   se'  estraneo  all'esercizio  della  funzione
giurisdizionale (v. ordinanza n. 370 del 2002);
        che,  pertanto,  la questione proposta deve essere dichiarata
manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.