IL TRIBUNALE

    Sciogliendo  la riserva di cui all'udienza del 18 settembre 2003,
nell'ambito del procedimento indicato in epigrafe, a carico di Sunday
Abuedefie,  meglio identificato in atti; indagato per il reato di cui
all'art. 14,  comma  5-ter  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, cosi' come
modificato  dalla  legge  30  luglio  2002,  n. 189, in quanto, senza
giustificato  motivo,  si  tratteneva  nel  territorio dello Stato in
violazione  dell'ordine  di  espulsione  impartitogli dal Questore di
Brindisi  in  data  18  agosto  2003, commesso in Prato, il 31 agosto
2003.
    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Il  sedicente  Sunday  Abuedefie  e'  stato  tratto in arresto da
personale della Questura di Prato in data 31 agosto 2003 in relazione
al  reato  previsto  dalla norma sopra citata. Il pubblico ministero,
dopo   aver   disposto   la   liberazione   dell'indagato   ai  sensi
dell'art. 121  disp. att. c.p.p. (ritenendo che non si dovesse ne' si
potesse  richiedere  l'applicazione  di  una misura cautelare, tenuto
conto  dei  limiti  edittali  della  pena  prevista  per  il reato in
questione),   ha  richiesto  la  convalida  dell'arresto  in  data  3
settembre 2003.
    Considerato dunque che la vicenda esaminata e' riconducibile alla
fattispecie  di  reato  contestata  dal p.m., deve essere valutata la
questione  della  legittimita'  costituzionale  della  norma  che  ha
imposto  l'arresto  in  flagranza,  sulla cui convalida il giudice e'
adesso  chiamato  a  decidere;  tale  questione,  del resto, e' stata
proposta dallo stesso difensore.
    L'art. 14,  comma  5-quinquies della legge citata dispone infatti
che,  per  le  condotte  previste  dai  commi  5-ter  e 5-quater, sia
obbligatorio l'arresto del responsabile in flagranza di reato.
    Tale  disciplina,  applicabile  al  caso di specie e rilevante ai
fini   della  decisione  sulla  convalida  dell'arresto  -  giacche',
difettando   la  norma  di  copertura,  l'operata  restrizione  della
liberta'  personale  sarebbe  sfornita  di  titolo  giuridico  e  non
potrebbe superare il vaglio di questo giudice - effettivamente non si
sottrae  al  dubbio  di  legittimita' costituzionale, in relazione ai
parametri costituzionali e per le ragioni che seguono.
    1. - Violazione dell'art. 13, comma 3 Cost.
    La  possibilita'  di  derogare  alla  regola generale dettata dal
secondo  comma  dell'art. 13,  che  impone  il  preventivo intervento
dell'autorita'  giudiziaria  in materia di restrizione della liberta'
personale, si collega, alla stregua dell'art. 13, comma 3 Cost., alla
verifica  della  sussistenza  di  «casi  eccezionali  di necessita' e
urgenza».
    Gli   estremi   della   necessita'  e  dell'urgenza,  secondo  le
indicazioni  della Corte costituzionale, possono essere valutati come
sussistenti   in   relazione   all'esigenza   di  acquisizione  e  di
conservazione  delle  prove  (Corte  cost.  3/1972;  79/1982) nonche'
all'assoggettabilita'  dell'arrestato  a giudizio direttissimo (Corte
cost.  126/1972;  173/1971),  finalita' tutte perseguibili attraverso
l'immediato  intervento  dell'autorita' di polizia in temporanea vece
dell'autorita' giudiziaria.
    Tali esigenze sono, per un verso, insussistenti, per altro verso,
legate ad un quadro normativo radicalmente mutato.
    Non  sono,  in  effetti,  ragionevolmente  configurabili esigenze
probatorie,  in  relazione al fatto illecito commesso dallo straniero
che nonostante l'espulsione sia rientrato nel territorio dello Stato,
destinate  ad  essere  soddisfatte  nel breve lasso di tempo che deve
intercorrere   tra   l'arresto   e  l'immediata  liberazione  imposta
dall'art. 121 disp. att c.p.p.
    Quanto  alla  connessione tra arresto e giudizio direttissimo, va
rilevato  che  sino all'entrata in vigore del nuovo c.p.p., l'ipotesi
normale  era  quella  del  giudizio  direttissimo  nei  confronti  di
imputato  in  vinculis  (art. 502  c.p.p. previgente). Cio' era tanto
vero  che  il  primo  comma  dell'art. 502  prevedeva che, qualora il
tribunale  non  fosse  attualmente  impegnato  in  udienza penale, il
Procuratore  della  Repubblica  disponesse  perche'  l'arresto  fosse
mantenuto.  Con  l'introduzione  del terzo comma dell'art. 502 c.p.p.
1930,  ad  opera dell'art. 17 della legge 12 agosto 1982, n. 532, che
prevedeva l'applicabilita' del giudizio direttissimo anche al caso in
cui  l'arrestato,  dopo  essere  stato  presentato all'udienza, fosse
stato  liberato  ai  sensi  dell'art. 263-ter,  il  sistema non venne
completamente  scardinato,  in quanto, come reso palese dalla lettera
della  norma,  comunque  era  necessario  che  l'imputato fosse stato
presentato all'udienza prima della liberazione ad opera del tribunale
della  liberta'.  Soltanto  nei  casi,  definiti atipici, di giudizio
direttissimo  previsti  dalle  leggi  speciali, l'imputato non era in
stato di arresto.
    In  definitiva,  esisteva ordinariamente uno stretto collegamento
tra arresto e giudizio direttissimo.
    Il  vigente  codice di rito ha scisso i due momenti, imponendo al
p.m,  pur  in  presenza  dei  presupposti  per  procedere al giudizio
direttissimo,  di  disporre  l'immediata liberazione dell'arrestato o
del  fermato,  quando ritiene di non dovere richiedere l'applicazione
di misure coercitive (art. 121 disp. att. c.p.p.).
    Non  casualmente,  con previsione innovativa, l'art. 450, comma 2
c.p.p.  contempla  espressamente  la  possibilita'  di  celebrare  il
giudizio direttissimo nei confronti dell'imputato libero.
    In  astratto,  nulla  esclude,  s'intende, che il legislatore, in
specifici  settori,  possa  reintrodurre  un arresto strumentale alla
celebrazione  di  un  giudizio direttissimo, altrimenti difficilmente
realizzabile  nei  confronti  di  soggetti  che,  ove  non ristretti,
potrebbero  agevolmente  far  perdere  le  proprie  tracce.  Ma  tale
obiettivo, ove pure intuibile nelle intenzioni del legislatore che ha
emanato  le  norme in esame, non si e' tradotto in atto, in quanto le
innovazioni  normative  del  2002,  non  hanno  alterato la struttura
portante  del  codice  di procedura penale: infatti il p.m., al quale
l'esecuzione  dell'arresto  va  comunicata  immediatamente (art. 386,
comma  1  c.p.p.)  e a disposizione del quale l'arrestato deve essere
posto  al  piu'  presto  e  comunque  non  oltre  le ventiquattro ore
(art. 386,  comma  3  c.p.p.),  ha  l'obbligo di disporre l'immediata
liberazione.  Ne  consegue che, solo disattendendo il chiaro precetto
normativo  dell'art. 121  disp. att. c.p.p. e' possibile celebrare un
giudizio  direttissimo  nei  confronti di un imputato per il reato di
cui  all'art. 14,  comma  5-ter  della  legge 30 luglio 2002, n. 189,
ristretto nella propria liberta'.
    Se  cosi'  e',  deve  escludersi  che  la misura dell'arresto sia
sorretta  dal  nesso di strumentalita' rispetto alla celebrazione del
giudizio direttissimo.
    Le  considerazioni sovra esposte rivelano, inoltre, che la misura
dell'arresto  non  e'  funzionale neppure all'esecuzione di una nuova
espulsione  prevista  dall'art. 14,  comma  5-ter  legge citata. Tale
conclusione si fonda sulla mancata previsione di qualunque meccanismo
di  coordinamento  fra  le  iniziative  dell'autorita' amministrativa
chiamata  a disporre e a dare attuazione all'espulsione e l'autorita'
giudiziaria,   investita   non  solo  del  giudizio  sulla  convalida
dell'arresto  ma,  prima, anche del dovere di porre immediatamente in
liberta'  l'arrestato  nei  confronti  del  quale non sia, come nella
specie,  possibile  richiedere  fondatamente l'applicazione di misure
coercitive.
    Va  aggiunto  che,  essendo  assente  nella  struttura normativa,
l'indicato  coordinamento  non  puo'  nemmeno  realizzarsi, di fatto,
attraverso    la   mancata   adozione   del   provvedimento   imposto
dall'art. 121  disp.  att.  c.p.p.  sino al giudizio di convalida, in
quanto cio' si tradurrebbe nell'ingiustificata disapplicazione di una
norma  vigente  posta  a  presidio  di  un  fondamentale  diritto  di
liberta'.
    Ne'  e'  ragionevolinente  pensabile che, nel brevissimo lasso di
tempo  imposto  al  p.m.  per  porre in liberta' l'arrestato, possano
essere   adottati   i  provvedimenti  con  i  quali  si  dispone  che
quest'ultimo  sia  accompagnato  immediatamente  alla frontiera o sia
trattenuto presso un centro di permanenza.
    Difetta,  pertanto,  in  radice  il  requisito  della  necessita'
dell'arresto    rispetto   a   qualunque   obiettivo   di   rilevanza
pubblicistica  tale da giustificare la sia pur temporalmente limitata
restrizione della liberta' personale.
    Del  resto proprio il limite di pena previsto, inidoneo a fondare
l'adozione  di  qualunque  misura  coercitiva  ai sensi dell'art. 280
c.p.p.,  dimostra  infatti il limitato rilievo che, nell'intendimento
del  legislatore,  il fatto di per se' considerato riveste in termini
di tutela della collettivita' (e, infatti, solo la reiterazione della
condotta  giustifica  il  ben  piu'  elevato  limite  di  pena di cui
all'art. 14, comma 5-quater, legge 30 luglio 2002, n. 189).
    2. -Violazione degli artt. 2 e 3 della Cost.
    La   normativa   contestata   appare   finalizzata  a  conseguire
l'effettiva  espulsione  dello  straniero dal territorio italiano: e'
del  tutto incongrua la previsione di un meccanismo repressivo dotato
di  sanzione  penale,  giacche'  lo  stesso  obiettivo  sarebbe stato
raggiungibile  utilizzando  il  solo strumento amministrativo, quindi
senza  far ricorso alla privazione della liberta' personale, sia pure
per un periodo brevissimo.