ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato,
sorto  a  seguito  della  nota  del  24 novembre 2004 con la quale il
Ministro  della  giustizia  ha  dichiarato  di  non  dare  corso alla
determinazione   del   Presidente   della  Repubblica  relativa  alla
concessione  della  grazia  ad Ovidio Bompressi, promosso con ricorso
del  Presidente  della  Repubblica  nei  confronti del Ministro della
giustizia,  notificato il 29 novembre 2005, depositato in cancelleria
il successivo 1° dicembre ed iscritto al n. 25 del registro conflitti
tra poteri dello Stato 2005, fase di merito.
    Udito nell'udienza pubblica del 2 maggio 2006 il giudice relatore
Alfonso Quaranta;
    Udito  l'avvocato  dello Stato Ignazio Francesco Caramazza per il
Presidente della Repubblica.

                          Ritenuto in fatto

    1.   -  Con  ricorso  del  10  giugno 2005  il  Presidente  della
Repubblica,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura generale dello
Stato,  ha  promosso  conflitto  di  attribuzione  nei  confronti del
Ministro della giustizia «in relazione al rifiuto, da questi opposto,
di  dare  corso  alla  determinazione,  da parte del Presidente della
Repubblica,  di  concedere  la  grazia  ad Ovidio Bompressi»; rifiuto
risultante  dalla  nota  del  24 novembre  2004  inviata dal medesimo
Ministro al Capo dello Stato.
    1.1.  -  Il  ricorrente  - sul presupposto di aver manifestato al
Guardasigilli,  con  nota  dell'8 novembre  2004  (emessa  dopo  aver
ricevuto  ed  esaminato  la  documentazione sull'istruttoria relativa
all'istanza   di   grazia   presentata  dal  Bompressi),  la  propria
determinazione  di  concedere il richiesto provvedimento di clemenza,
invitandolo pertanto a predisporre il relativo decreto di concessione
della  grazia,  per la successiva emanazione - si duole del fatto che
il  Ministro  gli  abbia  comunicato  «di  non poter aderire a questa
richiesta»   in  quanto  non  condivisibile  «ne'  sotto  il  profilo
costituzionale  ne'  nel  merito»,  atteso  che  -  a  suo dire - «la
Costituzione  vigente  pone  in  capo al  Ministro della giustizia la
responsabilita' di formulare la proposta di grazia».
    Il  Presidente della Repubblica assume, per contro, che il potere
di grazia - riservato «espressamente e in via esclusiva al Capo dello
Stato  dall'art. 87  della  Costituzione» - «verrebbe posto nel nulla
dalla  mancata  formulazione  della  proposta  da  parte dello stesso
Ministro», proposta, oltretutto, che ne' la Costituzione ne' la legge
richiedono  ai  fini della concessione del beneficio de quo. Ritiene,
pertanto,  il  ricorrente che qualora egli pervenga, come nel caso in
esame,  «alla determinazione di concedere la grazia ad un condannato,
tanto  la  predisposizione del relativo decreto, quanto la successiva
controfirma  costituiscono,  per  il  Ministro della giustizia, «atti
dovuti»».
    Su  tali basi, pertanto, il ricorrente ha promosso conflitto - ai
sensi  degli  artt. 37  e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 -
nei  confronti  del  Ministro  Guardasigilli,  «per  violazione degli
articoli 87 e 89 Cost.».
    1.2.   -   Indiscutibile   -  secondo  il  ricorrente  -  sarebbe
l'ammissibilita'  del  conflitto  sotto il profilo soggettivo, atteso
che  la  qualificazione  del  Presidente della Repubblica come potere
dello Stato «e' del tutto pacifica», come del resto la legittimazione
del  Ministro  della  giustizia  «ad  essere parte in un conflitto di
attribuzione  tra  poteri  dello Stato», e cio' «in ragione del ruolo
istituzionale»  che  la  Costituzione  riserva al Guardasigilli (sono
richiamate,  sul  punto, le pronunce di questa Corte n. 380 del 2003,
n. 216  del  1995,  n. 379  del  1992).  Cio' premesso, il ricorrente
assume  -  sotto  il  profilo  oggettivo - l'esistenza di una lesione
delle attribuzioni che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato
«nell'esercizio del potere di concessione della grazia».
    1.3.  - Nel merito, infatti, viene dedotta - come sopra precisato
- la violazione degli articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che
il rifiuto del Ministro «di formulare la proposta di grazia in favore
di  Ovidio  Bompressi,  ritenendola  presupposto  indispensabile  del
relativo  decreto  di  concessione»,  si  sostanzia  de  facto  nella
rivendicazione  del  «potere  di  interdire  con  la sua decisione (o
addirittura  con la sua inerzia) l'esercizio del potere presidenziale
di  concessione  della  grazia»,  e  quindi  nell'attribuzione «di un
sostanziale  potere  di  codecisione  che  e', viceversa, assente nel
vigente ordinamento costituzionale».
    Diversi  argomenti,  difatti,  «di ordine logico-giuridico, oltre
che sistematico», concorrono a confermare la titolarita' esclusiva di
tale  potere  in  capo al Presidente della Repubblica, secondo quanto
risulta gia' dalla lettera dell'art. 87 Cost.
    1.3.1.  - Rilevante in tal senso - secondo il ricorrente - e', in
primis,  la  ratio  dell'istituto  della  grazia,  e'  cioe'  la  sua
finalita'  «umanitaria  ed  equitativa» (riconosciuta anche da questa
Corte  nella  sentenza  n. 134  del  1976 e nell'ordinanza n. 388 del
1987)  che  e' quella di «attenuare l'applicazione della legge penale
in  tutte  quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con il
piu' alto sentimento della giustizia sostanziale».
    Se  e' vero, difatti, che la grazia mira a soddisfare un'esigenza
«correttivo-equitativa»  dei  rigori  della legge (oppure a fungere -
come  pure emerge dalla relazione governativa al progetto preliminare
del  codice  di procedura penale del 1988, a commento dell'art. 672 -
da  «strumento  di  risocializzazione» del condannato, «alla luce dei
risultati  del  trattamento  rieducativo»  al  quale  egli  sia stato
sottoposto),  appare allora «naturale» - assume il ricorrente - tanto
che  la  sua  concessione  esuli  del tutto «da valutazioni di natura
politica»,  quanto  che  «l'esercizio  di un potere di tale elevata e
delicata  portata  venga  riservato  in  via  esclusiva al Capo dello
Stato,   quale  organo  rappresentante  dell'unita'  della  Nazione»,
nonche'  «garante  super  partes della Costituzione», e dunque «unico
organo che offra la garanzia di un esercizio imparziale».
    In  questo  quadro,  dunque,  il  Ministro  della  giustizia  «e'
soltanto  il  Ministro  «competente»  che collabora con il Capo dello
Stato nelle varie fasi del procedimento, contribuendo alla formazione
della   volonta'   presidenziale  nell'ambito  delle  sue  specifiche
attribuzioni», destinate a sostanziarsi esclusivamente in «contributi
istruttori,  valutativi ed esecutivi», fermo restando che, proprio in
ragione  del  «ruolo  prevalentemente  e  essenzialmente istruttorio»
spettante  al  Guardasigilli,  in mancanza di accordo con il medesimo
«devono  comunque  prevalere  le  istanze  di  cui  e'  portatore  il
Presidente della Repubblica quale titolare del potere di grazia».
    1.3.2.  -  Il  riconoscimento dell'esistenza di «poteri di natura
sostanziale»  spettanti,  in  materia  di  grazia,  al Ministro della
giustizia   non   potrebbe,  d'altra  parte,  fondarsi  sul  disposto
dell'art. 89  Cost.,  secondo  cui  «nessun atto del Presidente della
Repubblica e' valido se non e' controfirmato dai ministri proponenti,
che se ne assumono la responsabilita».
    Tale  norma,  difatti,  non legittima affatto - per un verso - la
necessita'  che  in  subiecta materia la determinazione presidenziale
sia  preceduta  da  una  «proposta  ministeriale»,  giacche'  -  come
chiarito   in   dottrina   -   il   riferimento   in  essa  contenuto
all'espressione  «ministri proponenti», «in luogo della piu' corretta
«ministri  competenti»»,  sarebbe  da  imputare  ad un «uso improprio
della  locuzione»  (cio'  di  cui si sarebbe mostrata consapevole - a
dire  del  ricorrente  -  anche questa Corte, la quale nell'ordinanza
n. 388   del   1987,  «parafrasando  il  dettato  dell'art. 89  della
Costituzione  in  relazione  al  provvedimento  di  grazia  ha  fatto
riferimento   al   «Ministro   competente»   anziche'   al  «Ministro
proponente»»).
    Priva di fondamento costituzionale, pertanto, si presenterebbe la
pretesa del Guardasigilli di essere «titolare esclusivo del potere di
proposta».
    Ne',    d'altra   parte,   la   conclusione   relativa   ad   una
«compartecipazione»   del   Ministro  nella  decisione  presidenziale
relativa  alla  concessione  del  provvedimento  di clemenza potrebbe
trarre  argomento  dalla  necessita' della controfirma del decreto di
grazia.
    Se  e'  vero,  difatti,  che  in  relazione agli atti formalmente
presidenziali  ma  sostanzialmente  governativi la controfirma «ha il
significato  di  attestare  la  effettiva  paternita'  dell'atto e la
conseguente  assunzione  di  responsabilita'  politica»  da parte del
Ministro  (giacche'  qui  il  Capo dello  Stato «si limita ad un mero
controllo  di  legittimita', oltre che di provenienza» dell'atto), le
posizioni  dei due organi costituzionali appaiono, invece, «invertite
con  riguardo agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali»,
tra  i  quali  rientra  la  concessione della grazia. Ricorrendo tale
evenienza, invero, «la controfirma ministeriale si presenta come atto
dovuto, in quanto ha funzione, per cosi' dire, notarile», e cioe' «di
mera  attestazione  di  provenienza dell'atto da parte del Capo dello
Stato, oltre che di controllo della sua regolarita' formale».
    1.3.3.  - Ne', poi, la necessita' che la concessione della grazia
consegua  ad  una  «collaborazione» tra Presidente della Repubblica e
Ministro   Guardasigilli  potrebbe  essere  giustificata  in  ragione
dell'esistenza di una consuetudine costituzionale in tal senso.
    Rileva   in  proposito  il  ricorrente  come,  innanzitutto,  una
consuetudine  siffatta  abbia  assunto  nel  tempo «forme e modalita'
diverse»,   collegate   all'evoluzione  conosciuta  dalle  norme  del
cosiddetto  «ordinamento  penitenziario»;  di  talche' la progressiva
individuazione   di   «nuovi   percorsi   di   risocializzazione  dei
condannati»  (in  special  modo  attraverso «l'applicazione di misure
alternative  alla  detenzione,  ad  opera  della  magistratura»), nel
restituire     alla    grazia    la    sua    funzione    prettamente
«equitativo-umanitaria»,  ha  comportato  che l'istituto «perdesse le
finalita'   di  politica  penitenziaria  che  l'avevano  a  volte  in
precedenza  pervaso»  e  che  avevano giustificato l'affermarsi della
descritta  consuetudine  di  «collaborazione» tra i menzionati organi
dello Stato.
    Sempre sul piano delle relazioni «consuetudinarie» intercorrenti,
nella  materia  de  qua,  tra il Capo dello Stato e il Ministro della
giustizia,  rileva  il  ricorrente  come  non  sia  senza significato
l'esaurimento  di quella prassi seguita dal Ministro, nel caso in cui
ritenesse   insussistenti   i  presupposti  per  la  concessione  del
provvedimento  di  clemenza,  di  ««archiviare»  la relativa pratica,
senza  neppure  informare  il  Capo dello Stato». All'esito, infatti,
dell'invio  della  nota  del  15 ottobre  2003  -  con  la  quale  il
Presidente  della  Repubblica  ha  chiesto «di essere informato della
conclusione di tutte le istruttorie relative ad istanze di grazia, ai
fini   delle   sue  decisioni»  (nota  alla  quale  il  Ministro  «ha
immediatamente  aderito», come da sua comunicazione del successivo 17
ottobre)  -  deve  ritenersi  venuta  meno  quella  prassi in passato
invalsa  che  «finiva  per  attribuire  in qualche misura al Ministro
della giustizia dei poteri di decisione sostanziale in materia».
    1.3.4.  -  La  «natura esclusivamente presidenziale del potere di
concedere  la  grazia»  sarebbe,  infine,  desumibile  -  secondo  il
ricorrente - dalla stessa giurisprudenza costituzionale.
    Si  richiama, difatti, da un lato, l'indirizzo espresso da questa
Corte in ordine alla «necessaria «giurisdizionalizzazione» della fase
esecutiva   delle   sanzioni   penali»,   per  sottolineare  come  la
declaratoria    di   illegittimita'   costituzionale   «di   numerose
disposizioni  che  contemplavano  competenze  dell'esecutivo (e cioe'
quindi  del  Ministro della giustizia) nella fase di esecuzione della
pena»  (sono richiamate le sentenze n. 274 del 1990; n. 192 del 1976;
n. 114  del  1979;  n. 204  e n. 110 del 1974) rischierebbe di essere
contraddetta   dal   riconoscimento   al   Guardasigilli  di  «poteri
decisionali  veri  e propri in ordine alla concessione della grazia»,
giacche',  pur  trattandosi  di  istituto «connotato da una ratio del
tutto  peculiare»,  esso  «incide  certamente  sull'esecuzione  della
pena».
    D'altro  canto,  poi, si sottolinea come la tesi della «esclusiva
pertinenza presidenziale del potere di concedere la grazia» sia stata
«implicitamente  condivisa» da questa Corte nella sentenza n. 274 del
1990.
    Difatti,    con    tale    pronuncia    e'    stato    dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 589, terzo comma, del codice di
procedura  penale  del  1930,  norma che attribuiva al Ministro della
giustizia  (e non al Tribunale di sorveglianza) il potere di disporre
il  differimento  della  esecuzione  della  pena  nel  caso  previsto
dall'art. 147,  primo  comma, n. 1, del codice penale, quello, cioe',
della presentazione della domanda di grazia da parte del condannato.
    In  particolare,  osserva  il ricorrente, la citata decisione «ha
disatteso   apertis   verbis   la   tesi  affermata  nella  Relazione
ministeriale  al  progetto definitivo del codice di procedura penale»
del 1930, secondo cui la prevista competenza ministeriale deriverebbe
dalla  necessita'  che  la  prognosi  in  ordine alla concessione del
provvedimento  di  clemenza  sia effettuata «soltanto dall'organo che
nella   prassi   costituzionale   esercita  il  relativo  potere»  di
concessione.   Cosi'  argomentando,  pertanto,  e  nell'ulteriormente
precisare  che  non esistono, per contro, «vincoli costituzionalmente
determinati  per  l'esercizio  del  potere  di  grazia  da  parte del
Presidente della Repubblica», questa Corte avrebbe dunque chiaramente
escluso  «l'esistenza di qualsivoglia potere decisionale da parte del
Ministro della giustizia».
    1.4.  -  Cio' premesso, il ricorrente evidenzia che nella materia
de  qua  il  Ministro  della  giustizia  «e' sicuramente titolare dei
poteri  istruttori», con la conseguenza che - in base al principio di
leale collaborazione - il parere che esso esprime al Presidente della
Repubblica   consente  al  piu'  «di  pervenire  a  un  provvedimento
condiviso»,   fermo  pero'  restando  che,  «nel  caso  in  cui  tale
condivisione  non  si  verificasse»,  e'  innegabile che «la volonta'
prevalente e quindi la decisione finale non possono che essere quelle
del   titolare  del  potere  costituzionale  di  grazia  e  cioe'  il
Presidente della Repubblica».
    Su  tali  basi,  pertanto, il ricorrente ha concluso affinche' la
Corte  dichiari «che non spetta al Ministro della giustizia il potere
di  rifiutare  di  dare  corso  alla  determinazione,  alla  quale il
Capo dello  Stato  e'  pervenuto,  di  concedere  la grazia ad Ovidio
Bompressi  e  che,  conseguentemente, annulli l'atto di cui alla nota
24 novembre 2004 del Ministro della giustizia».
    2.  -  Il  presente  conflitto e' stato dichiarato ammissibile da
questa Corte con ordinanza n. 354 del 2005, con cui e' stato disposto
che,  a cura del ricorrente, il ricorso e la stessa ordinanza fossero
notificati  al  Ministro  della  giustizia; notificazione avvenuta il
29 novembre 2005.
    3.  -  Non  si  e'  costituito  in  giudizio  il  Ministro  della
giustizia.

                       Considerato in diritto

    1. - Il presente conflitto e' occasionato dal rifiuto opposto dal
Ministro della giustizia di «dare corso alla determinazione, da parte
del  Presidente  della  Repubblica,  di concedere la grazia ad Ovidio
Bompressi»,  rifiuto  risultante  dalla  nota  del  24 novembre  2004
inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato.
    Con  il  ricorso  -  muovendosi  dal presupposto che il potere di
grazia  sia riservato «espressamente e in via esclusiva al Capo dello
Stato   dall'art. 87   della   Costituzione»  -  si  lamenta  che  il
Guardasigilli si sia rifiutato «di formulare la proposta di grazia» e
di  predisporre  il  relativo  decreto  di  concessione,  malgrado il
Presidente  della  Repubblica,  con nota dell'8 novembre 2004, avesse
manifestato  la  propria  determinazione di volere concedere a favore
dell'interessato  il  provvedimento  di  clemenza.  Da qui la dedotta
violazione  degli  articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che la
mancata  «formulazione  della  proposta  da  parte  del  Ministro» si
sostanzierebbe,  di  fatto,  nella rivendicazione di una attribuzione
costituzionalmente  spettante  al  Capo dello Stato, laddove, invece,
sia  la  predisposizione del decreto che la successiva controfirma da
parte del Guardasigilli costituirebbero «atti dovuti».
    In   particolare,   si   sostiene   nel   ricorso  che  la  ratio
dell'istituto della grazia sia «umanitaria ed equitativa», assolvendo
alla  funzione  di  «attenuare  l'applicazione  della legge penale in
tutte quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con il piu'
alto  sentimento  della  giustizia  sostanziale». Da questa peculiare
connotazione  del  potere di grazia, da cui esula ogni valutazione di
«natura  politica»,  deriverebbe  la  sua  «naturale» attribuzione al
Capo dello Stato «quale organo rappresentante dell'unita' nazionale»,
nonche' «garante super partes della Costituzione».
    2.  -  Con  ordinanza n. 354 del 2005 questa Corte ha dichiarato,
prima facie, ammissibile il conflitto che ha dato origine al presente
giudizio   e,   lasciando   impregiudicata  ogni  diversa  successiva
determinazione  in ordine alla sua stessa ammissibilita', ha disposto
la notificazione del ricorso al Ministro Guardasigilli.
    3.   -   Cio'   premesso,   sul   piano   processuale,  ferma  la
legittimazione   del   Presidente  della  Repubblica  a  proporre  il
conflitto,  deve essere confermata la legittimazione passiva del solo
Ministro della giustizia, il quale - competente, ratione materiae, ad
effettuare  l'istruttoria  sulla  grazia,  a  predisporre il relativo
decreto  di concessione, a controfirmarlo ed a curarne l'esecuzione -
e' il legittimo contradditore. E' dal Ministro, infatti, che proviene
l'atto,  la  nota  datata 24 novembre 2004, con cui viene rivendicata
una compartecipazione sostanziale nella determinazione di concedere o
negare  l'atto  di  clemenza  e  dunque,  nello  stesso  tempo, viene
implicitamente   limitato   l'ambito  di  autonomia  decisionale  del
Capo dello  Stato.  La  legittimazione  passiva  del  Ministro  della
giustizia  trova  il  suo fondamento direttamente nella previsione di
cui all'art. 110 Cost., atteso che, delle attribuzioni contemplate da
tale norma, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente escluso
la  necessita'  di  «un'interpretazione restrittiva» (sentenze n. 142
del  1973  e  n. 168  del  1963).  In tali attribuzioni devono essere
inclusi  tutti  i  compiti spettanti al suddetto Ministro in forza di
precise  disposizioni  normative,  purche'  essi siano in rapporto di
strumentalita' rispetto alle funzioni «afferenti all'organizzazione e
al  funzionamento  dei  servizi  relativi  alla  giustizia», comprese
dunque  quelle  concernenti  «l'organizzazione  dei  servizi relativi
all'esecuzione  delle pene e delle misure detentive» (sentenza n. 383
del  1993), e cosi', per quel che qui specificamente interessa, anche
l'attivita'  di  istruttoria  delle domande di grazia e di esecuzione
dei  relativi provvedimenti secondo quanto previsto dall'art. 681 del
codice di procedura penale.
    Alla  luce di tale premessa puo', pertanto, ribadirsi quanto gia'
affermato  da  questa  Corte,  sia pure in riferimento ad una diversa
fattispecie,  e  cioe' che il Ministro della giustizia deve ritenersi
legittimato  a  resistere  nei  giudizi  per conflitto quale «diretto
titolare    delle    competenze   determinate   dall'art. 110   della
Costituzione»,   il   cui  esercizio  venga  assunto  come  causa  di
menomazione  delle attribuzioni di altri poteri dello Stato (sentenza
n. 379 del 1992).
    4.  -  Cosi'  determinata  la  legittimazione a stare in giudizio
delle  parti,  in  relazione  alla  esatta  individuazione  del thema
decidendum,   deve   preliminarmente  osservarsi  come  la  questione
all'esame di questa Corte concerna non gia' la titolarita' del potere
di  grazia,  espressamente  attribuita  dalla  Costituzione (art. 87,
penultimo  comma)  al Presidente della Repubblica, bensi' le concrete
modalita'  del  suo esercizio. Nel ricorso si assume, in particolare,
che   il   ruolo   del  Ministro  si  risolverebbe  in  una  doverosa
collaborazione   con   il  Capo dello  Stato  nelle  varie  fasi  del
procedimento. Il Ministro in tal modo sarebbe chiamato a contribuire,
nel  segno  di  una  leale collaborazione tra poteri, alla formazione
della volonta' presidenziale mediante lo svolgimento di attivita' cui
dovrebbe essere attribuita valenza essenzialmente «istruttoria».
    5.  -  Cio'  precisato,  il  ricorso,  nel merito, deve ritenersi
fondato sulla base delle considerazioni che seguono.
    5.1. - Prerogativa personale dei sovrani assoluti, la concessione
della  grazia  ha sostanzialmente mantenuto tale carattere anche dopo
l'avvento   della   Monarchia   costituzionale,   essendo  quello  di
dispensare  dalle  pene  il  segno massimo del potere, che attribuiva
particolare autorita' e prestigio alla figura del Monarca.
    E',  dunque,  in  tale  contesto  storico - quanto all'esperienza
italiana  -  che,  dapprima, nell'art. 5 del Proclama dell'8 febbraio
1848  (atto  con  il  quale  veniva  preannunciata  da  Carlo Alberto
l'emanazione  dello  Statuto),  e, successivamente, nell'art. 8 dello
Statuto  stesso,  venne riconosciuto al Re il potere di «far grazia e
commutare  le pene». Prerogativa, evidentemente, concepita in stretta
connessione con i caratteri della «inviolabilita» e «sacralita» della
persona del Monarca. Non irrilevante, tuttavia, appare la circostanza
che,  mentre  nel  primo  dei  citati testi normativi l'esercizio del
potere  de  quo  veniva  ascritto  alla  sfera  del «giudiziario» (il
predetto  art. 5, difatti, recitava: «ogni giustizia emana dal Re, ed
e'  amministrata  in  suo  nome.  Egli puo' far grazia e commutare le
pene»),  nel  secondo,  viceversa,  si  recideva  tale  legame.  Alla
previsione,  difatti,  dell'art. 8  dello  Statuto  («il  Re puo' far
grazia,   e   commutare   le  pene»)  corrispondeva  quella  autonoma
dell'art. 68   (secondo  cui  «la  Giustizia  emana  dal  Re,  ed  e'
amministrata  in  suo  Nome  dai Giudici ch'Egli istituisce»), e cio'
quasi  a sottolineare che l'adozione del provvedimento di clemenza si
poneva, gia' allora, come l'esito di un giudizio equitativo del tutto
diverso  da  quello  riservato  agli organi giurisdizionali; cio' che
rendeva l'esercizio del potere di grazia non idoneo ad essere gestito
dalla  magistratura  il cui compito e' «fare giustizia» applicando la
legge.
    Non  e'  quindi  casuale, nella medesima prospettiva, che gia' il
primo  codice  di  rito  penale  del Regno d'Italia (quello del 1865)
prevedesse  -  all'art. 826  -  che  le «suppliche per grazia di pene
pronunziate»  fossero  «dirette  al  re,  e presentate al Ministro di
grazia e giustizia», dettando cosi' una norma che, se non dirimeva la
questione  circa  la  natura  della  grazia  (e  la  sua titolarita),
indicava  tuttavia il luogo opportuno della sua trattazione, distinto
dalla sede giurisdizionale.
    5.2.-  Mutato  il  quadro  istituzionale  con  il passaggio dalla
Monarchia  alla  Repubblica,  va  ricordato  il  punto  saliente  del
dibattito   svoltosi   nell'Assemblea   costituente,   che  porto'  a
riconfermare  - nel testo della Costituzione del 1948 - il Capo dello
Stato  quale titolare di un potere intimamente connesso, almeno da un
punto   di   vista  storico,  alla  figura  del  Monarca.  L'art. 87,
undicesimo  comma,  della  Costituzione,  dettando  una  disposizione
sostanzialmente  identica  all'art. 8  dello  Statuto  albertino,  ha
infatti  stabilito che il Presidente della Repubblica «puo' concedere
grazia e commutare le pene».
    Si  discusse, allora, in ordine alle implicazioni di tale scelta,
ponendosi prevalentemente l'accento sull'evoluzione conosciuta - gia'
nella  prassi statutaria - dall'istituto in esame. In particolare, si
sottolineo'  nella seduta assembleare del 22 ottobre del 1947 come il
potere  di  concedere  la  grazia,  rientrante  in origine tra quelle
«attribuzioni  (...)  ancora di natura personale, residui dei diritti
propri   dei   monarchi,   senza   alcun  concorso  di  altri  organi
costituzionali»,  avesse progressivamente mutato natura gia' sotto il
vigore   del  regime  monarchico.  Dalla  affermazione  secondo  cui,
allorche'  «il  re  fa  la  grazia,  la fa come persona, non la fa in
quanto  rappresenta  lo  Stato»,  si  era progressivamente passati al
riconoscimento  che  «il Capo dello Stato della monarchia, secondo lo
Statuto  albertino,  non  ha  nessun  potere  personale; tutti i suoi
poteri  sono  esercitati in quanto rappresentante dello Stato e tutti
sottoposti al principio generale della responsabilita' ministeriale».
    Non  casualmente,  quindi,  nel  medesimo impianto costituzionale
configurato nel 1948, venne ribadita la necessita' che tutti gli atti
del  Presidente  della  Repubblica,  a pena di invalidita', dovessero
essere   controfirmati   dai   ministri   «proponenti»   (espressione
equivalente,  secondo  l'interpretazione  successivamente  invalsa, a
quella di ministri «competenti»), respingendo l'Assemblea costituente
la  proposta  -  avanzata  nel  corso  di  quella  stessa  seduta del
22 ottobre  1947  -  di  escludere dall'obbligo della controfirma gli
atti presidenziali adottati «in via di prerogativa».
    6.   -  Inquadrato  storicamente  l'istituto,  diventa  rilevante
stabilire  - ai fini della risoluzione del presente conflitto - quale
tipo  di  relazione  intercorra tra il Capo dello Stato, titolare del
potere   di  grazia,  ed  il  Ministro  della  giustizia,  il  quale,
responsabile  dell'attivita'  istruttoria  e  quindi  a  tale  titolo
partecipe  del procedimento complesso in cui si snoda l'esercizio del
potere  in  esame, e' chiamato a predisporre il decreto che da' forma
al   provvedimento   di   clemenza,   nonche'   a  controfirmarlo  e,
successivamente, a curarne l'esecuzione.
    Sul  punto, come e' noto, si e' sviluppato un ampio dibattito nel
corso  del  quale sono emersi diversi orientamenti che, sulla base di
percorsi   argomentativi   anche  molto  diversificati,  vanno  dalla
configurazione   della  grazia  come  atto  costituente  «prerogativa
presidenziale»  a  quella di un «atto complesso», alla cui formazione
dovrebbero  concorrere,  in  modo  paritario,  le  due  volonta'  del
Presidente  della  Repubblica e del Ministro Guardasigilli, non senza
passare    attraverso    altre   distinte   ed   intermedie   opzioni
interpretative.
    E',  dunque,  rilevante,  per la soluzione della questione posta,
individuare la funzione propria del potere di grazia, anche alla luce
della  prassi sviluppatasi, nel periodo repubblicano, nelle relazioni
tra Capo dello Stato e Ministro Guardasigilli.
    6.1.  -  Orbene, deve ritenersi, al riguardo, che l'esercizio del
potere  di  grazia risponda a finalita' essenzialmente umanitarie, da
apprezzare  in  rapporto  ad  una  serie  di  circostanze (non sempre
astrattamente  tipizzabili),  inerenti  alla persona del condannato o
comunque  involgenti  apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a
giustificare  l'adozione di un atto di clemenza individuale, il quale
incide   pur   sempre  sull'esecuzione  di  una  pena  validamente  e
definitivamente inflitta da un organo imparziale, il, con le garanzie
formali e sostanziali offerte dall'ordinamento del processo penale.
    La  funzione  della  grazia  e', dunque, in definitiva, quella di
attuare   i   valori   costituzionali,  consacrati  nel  terzo  comma
dell'art. 27 Cost., garantendo soprattutto il «senso di umanita», cui
devono  ispirarsi  tutte  le  pene, e cio' anche nella prospettiva di
assicurare  il  pieno  rispetto  del principio desumibile dall'art. 2
Cost.,  non  senza  trascurare  il  profilo di «rieducazione» proprio
della pena.
    Questa  peculiare  connotazione  funzionale  del potere di grazia
appare,  del  resto,  coerente  con  quanto  affermato  dalla  stessa
giurisprudenza  costituzionale.  Questa  Corte  nello  scrutinare, in
particolare,  l'istituto  della  grazia  «condizionata», ha osservato
come   esso   assolva  ad  un  compito  «logicamente  parallelo  alla
individualizzazione  della  pena,  consacrata  in  linea di principio
dall'art. 133    c.p.»,    tendendo   «a   temperare   il   rigorismo
dell'applicazione pura e semplice della legge penale mediante un atto
che  non  sia  di  mera  clemenza,  ma  che,  in  armonia col vigente
ordinamento  costituzionale,  e  particolarmente con l'art. 27 Cost.,
favorisca  in  qualche  modo l'emenda del reo ed il suo reinserimento
nel tessuto sociale» (sentenza n. 134 del 1976).
    E' evidente, altresi', come - determinando l'esercizio del potere
di grazia una deroga al principio di legalita' - il suo impiego debba
essere  contenuto  entro  ambiti circoscritti destinati a valorizzare
soltanto  eccezionali  esigenze  di  natura  umanitaria.  Cio' vale a
superare il dubbio - al quale ha sostanzialmente fatto riferimento lo
stesso  Guardasigilli nella nota 24 novembre 2004, che ha occasionato
il  conflitto  -  che  il  suo  esercizio  possa  dare  luogo  ad una
violazione  del principio di eguaglianza consacrato nell'art. 3 della
Costituzione.
    6.2.   -   La   stessa  disamina  della  prassi  formatasi  sulla
concessione   della   grazia   dopo   l'avvento   della  Costituzione
repubblicana,   pone   in   evidenza,   in  base  a  dati  statistici
ministeriali,  l'esistenza di una ulteriore evoluzione dell'istituto,
o meglio della funzione assolta con il suo impiego.
    Se  infatti  molto  frequente, fino alla meta' degli anni '80 del
secolo appena concluso, si e' presentato il ricorso a tale strumento,
tanto  da  legittimare  l'idea  di  un  suo  possibile  uso a fini di
politica  penitenziaria,  a partire dal 1986 - ed in coincidenza, non
casualmente,  con  l'entrata  in  vigore della legge 10 ottobre 1986,
n. 663  (Modifiche  alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta) - si e'
assistito  ad  un ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a
titolo  esemplificativo,  il  raffronto  tra i 1.003 provvedimenti di
clemenza  dell'anno 1966  e  gli  appena 104 adottati nel 1987, ma il
dato  numerico  e'  ulteriormente  diminuito  negli  anni successivi,
riducendosi fino a poche decine.
    Un'evenienza,  quella  appena  indicata,  da  ascrivere - come si
notava  -  all'introduzione  di  una apposita legislazione in tema di
trattamento carcerario ed esecuzione della pena detentiva. Cio' nella
convinzione  che  le ordinarie esigenze di adeguamento delle sanzioni
applicate  ai  condannati  alle  peculiarita'  dei  casi  concreti  -
esigenze  fino a quel momento soddisfatte in via pressoche' esclusiva
attraverso  l'esercizio  del potere di grazia - dovessero realizzarsi
mediante  l'impiego,  certamente  piu'  appropriato anche per la loro
riconduzione  alla  sfera  giurisdizionale,  degli  strumenti  tipici
previsti  dall'ordinamento  penale, processual-penale e penitenziario
(ad   esempio,   liberazione  condizionale,  detenzione  domiciliare,
affidamento ai servizi sociali ed altri).
    Cio'  ha fatto si', dunque, che l'istituto della grazia sia stato
restituito  -  correggendo  la  prassi,  per  certi versi distorsiva,
sviluppatasi  nel  corso  dei  primi  decenni  di  applicazione della
disposizione  costituzionale  di  cui  all'art. 87, undicesimo comma,
Cost.  -  alla  sua  funzione  di  eccezionale  strumento destinato a
soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria.
    7.  -  L'evoluzione  legislativa e della prassi appena illustrata
concorre   a  meglio  definire  i  rispettivi  ruoli  esercitati  dal
Presidente   della   Repubblica  e  dal  Ministro  Guardasigilli  nel
procedimento  complesso  che  culmina  nell'emanazione del decreto di
concessione della grazia o di commutazione della pena.
    7.1.  -  In  particolare, una volta recuperato l'atto di clemenza
alla  sua funzione di mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio
per eccezionali ragioni umanitarie, risulta evidente la necessita' di
riconoscere  nell'esercizio di tale potere - conformemente anche alla
lettera   dell'art. 87,   undicesimo  comma,  Cost.  -  una  potesta'
decisionale   del   Capo dello  Stato,  quale  organo  super  partes,
«rappresentante  dell'unita'  nazionale», estraneo a quello che viene
definito  il «circuito» dell'indirizzo politico-governativo, e che in
modo  imparziale e' chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto
dei   presupposti   umanitari   che   giustificano   l'adozione   del
provvedimento di clemenza.
    Infine,  si deve rilevare come l'indicata conclusione risponda ad
un'ulteriore  esigenza, quella cioe' di evitare che nella valutazione
dei  presupposti  per l'adozione di un provvedimento avente efficacia
«ablativa»  di  un  giudicato  penale  possano  assumere  rilievo  le
determinazioni di organi appartenenti al potere esecutivo.
    L'esame  della  giurisprudenza  della  Corte (sentenze n. 274 del
1990,  n. 114  del  1979,  n. 192 del 1976, n. 204 e n. 110 del 1974)
induce a ritenere ormai consolidato l'orientamento che, con implicito
riferimento  al  principio  di  separazione  dei poteri, esclude ogni
coinvolgimento  di  esponenti  del Governo nella fase dell'esecuzione
delle   sentenze   penali   di   condanna,   in   ragione  della  sua
giurisdizionalizzazione  ed in ossequio al principio secondo il quale
solo   l'autorita'   giudiziaria  puo'  interloquire  in  materia  di
esecuzione penale.
    Significativa,  a  tale  proposito,  e'  la  gia' citata sentenza
n. 274   del   1990   con   la   quale  questa  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita'   costituzionale  dell'art. 589,  terzo  comma,  del
codice di procedura penale del 1930, il quale stabiliva che «nel caso
previsto   dall'art. 147,  primo  comma,  n. 1,  del  codice  penale»
(presentazione  della  domanda  di grazia), spettasse «al Ministro di
Grazia  e  Giustizia  e non al Tribunale di sorveglianza il potere di
differire    l'esecuzione   della   pena».   Alla   declaratoria   di
illegittimita'  della  norma censurata questa Corte perveniva in base
al  rilievo  secondo  cui  l'ipotesi contemplata nell'art. 147, primo
comma,  n. 1,  del  codice  penale  e', unitamente ad altre analoghe,
«espressione  d'uno  stesso  principio,  attinente  all'ingerenza del
potere  esecutivo,  dopo  la  pronuncia  di  sentenza  definitiva  di
condanna, in decisioni riservate all'autorita' giudiziaria», e dunque
evidenziando la necessita' «che i residui poteri ministeriali in tema
di  differimento  dell'esecuzione  della  pena  detentiva» venissero,
invece,   «rimessi  alla  competenza  dell'autorita'  giudiziaria  di
sorveglianza».
    7.2. - Detto cio', rimane da chiarire - ai fini della risoluzione
del   presente  conflitto  -  quali  siano  i  compiti  spettanti  al
Guardasigilli nell'ambito dell'attivita' finalizzata all'adozione del
provvedimento di clemenza.
    In  via  preliminare,  occorre  puntualizzare  che  il decreto di
grazia  e' la risultante di un vero e proprio procedimento - cosi' e'
qualificato nella stessa rubrica dell'abrogato art. 595 del codice di
procedura penale del 1930 - che si snoda attraverso una pluralita' di
atti  e di fasi. Tale procedimento e' stato tenuto ben presente dallo
stesso  legislatore  costituente  nel  momento in cui, con l'art. 87,
undicesimo  comma,  Cost.  ha  annoverato tra i poteri del Capo dello
Stato quello di concedere la grazia e commutare le pene.
    7.2.1. - L'analisi di tale complessa procedura deve muovere dalla
lettura   dell'art. 681   cod.   proc.   pen.,   il   quale  prevede,
innanzitutto,  che  l'«iniziativa» - salva l'ipotesi della «proposta»
proveniente  dal  presidente  del consiglio di disciplina (comma 3) -
possa  essere  assunta  dal  condannato  ovvero  da  un  suo prossimo
congiunto,  dal convivente, dal tutore, dal curatore, da un avvocato,
che  sottoscrivono  la  «domanda»  di  grazia, «diretta al Presidente
della  Repubblica»  e «presentata» al Ministro della giustizia (comma
1).
    La  medesima  disposizione  -  con  un'innovazione  significativa
rispetto  alle  previgenti  discipline  contenute  nei codici di rito
penale  del 1865 (artt. da 826 a 829), del 1913 (art. 592), ed infine
del  1930  (art. 595)  -  ha, peraltro, riconosciuto espressamente la
possibilita'  che la grazia sia «concessa anche in assenza di domanda
o  proposta»  (art. 681,  comma 4,  cod.  proc.  pen.).  In ogni caso
l'iniziativa  potra' essere assunta direttamente dal Presidente della
Repubblica al quale da tempo si e' riconosciuto tale potere.
    E  si  e' anche chiarito quanto era dato per presupposto sotto il
vigore   della   legislazione   previgente,   cioe'   nell'esperienza
costituzionale  statutaria:  gia' da allora si riteneva, infatti, che
la  presentazione  della  domanda  non fosse indispensabile affinche'
potesse  esplicarsi  la  prerogativa regia prevista dall'art. 8 dello
Statuto,  giacche'  altrimenti,  sarebbe  stata introdotta, con legge
ordinaria, una limitazione incompatibile con la natura dell'istituto.
    7.2.2.  -  Instaurato,  dunque, il procedimento, la prima fase e'
quella  dell'«istruttoria», che ai sensi dell'art. 681, comma 2, cod.
proc.  pen.  prevede  uno  svolgimento differenziato a seconda che il
condannato risulti, o meno, detenuto o internato.
    Nel  primo  caso  e' il magistrato di sorveglianza che, acquisiti
tutti   gli   elementi  di  giudizio  utili  e  le  osservazioni  del
Procuratore  generale presso la competente Corte di appello, provvede
alla  loro trasmissione al Ministro della giustizia, unitamente ad un
motivato parere.
    Nella  seconda  ipotesi  e',  invece, direttamente il Procuratore
generale a trasmettere al Guardasigilli le opportune informazioni con
le proprie osservazioni.
    La   prassi   delle  relazioni  tra  il  Ministro  e  gli  organi
giurisdizionali  ha  poi  portato  a  meglio precisare quali siano le
«informazioni»  e  gli  «elementi  di giudizio» da utilizzare ai fini
della determinazione circa la concessione, o meno, della clemenza nei
singoli casi.
    Tra  tali  elementi  vanno  ricompresi  - oltre ovviamente quelli
desumibili    dalla    sentenza    di    condanna,   dai   precedenti
dell'interessato  e dai procedimenti in corso a suo carico - anche le
dichiarazioni  delle  parti  lese  o  dei  prossimi  congiunti  della
vittima,  circa  il  risarcimento  del  danno  e  la  concessione del
perdono,  nonche',  in  relazione alla valutazione della personalita'
del  soggetto, le informazioni inerenti alle condizioni familiari e a
quelle  economiche,  alla  condotta  dell'interessato, richiedendosi,
infine,  per  i detenuti anche l'estratto della cartella personale ed
il c.d. rapporto di condotta.
    7.2.3.  -  La valutazione di suddetti elementi, ed in particolare
dei  pareri  espressi  dagli organi giurisdizionali, e' effettuata in
sede ministeriale. A conclusione della istruttoria il Ministro decide
se  formulare  motivatamente  la  «proposta»  di grazia al Presidente
della   Repubblica   ovvero   se   adottare   un   provvedimento   di
archiviazione.  E  delle  avvenute  archiviazioni e' da qualche tempo
data notizia periodicamente al Capo dello Stato.
    7.2.4.  -  Se  il Guardasigilli formula la «proposta» motivata di
grazia e predispone lo schema del provvedimento mostra ovviamente con
cio'  di  ritenere sussistenti i presupposti, sia di legittimita' che
di merito, per la concessione dell'atto di clemenza.
    Spettera',   poi,   al   Presidente   della  Repubblica  valutare
autonomamente  la  ricorrenza, sulla base dell'insieme degli elementi
trasmessi   dal   Guardasigilli,  di  quelle  ragioni  essenzialmente
umanitarie  che giustificano l'esercizio del potere in esame. In caso
di  valutazione positiva del Capo dello Stato seguira' la controfirma
del decreto di grazia da parte del Ministro, che provvedera' a curare
anche gli adempimenti esecutivi.
    Quanto,  segnatamente,  alla  controfirma,  pur necessaria per il
completamento  della  fattispecie, e' da rilevare - in via generale -
come  essa assuma un diverso valore a seconda del tipo di atto di cui
rappresenta  il  completamento  o,  piu' esattamente, un requisito di
validita'.  E'  chiaro,  infatti,  che alla controfirma va attribuito
carattere   sostanziale  quando  l'atto  sottoposto  alla  firma  del
Capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle
potesta'  che sono proprie dell'Esecutivo, mentre ad essa deve essere
riconosciuto valore soltanto formale quando l'atto sia espressione di
poteri  propri  del Presidente della Repubblica, quali - ad esempio -
quelli  di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita
o  dei  giudici  costituzionali.  A  tali atti deve essere equiparato
quello  di  concessione della grazia, che solo al Capo dello Stato e'
riconosciuto dall'art. 87 della Costituzione.
    7.2.5.  -  Qualora,  invece,  il  Ministro valuti negativamente i
risultati  della  istruttoria  effettuata e ritenga non sussistenti i
necessari  requisiti di legittimita' e/o di merito per la concessione
della grazia, l'esito della procedura puo' conoscere talune varianti,
dipendenti dalle peculiarita' delle circostanze concrete.
    Innanzitutto,   come   si   e'   detto,   puo'   essere  disposta
l'archiviazione.  Ma  se  il  Capo dello Stato abbia, a seguito della
comunicazione   e/o  conoscenza  della  decisione  di  archiviazione,
sollecitato,   previa   eventuale   acquisizione   di   una  apposita
informativa   orale   o  scritta  (c.d.  «relazione  obiettiva»),  il
compimento  dell'attivita'  istruttoria, il Ministro non ha il potere
di impedire la prosecuzione del procedimento.
    Qualora,  invece, l'iniziativa sia direttamente presidenziale, il
Capo dello Stato puo' chiedere al Ministro l'apertura della procedura
di concessione della grazia; anche in questo caso il Guardasigilli ha
l'obbligo   di   iniziare   e   concludere   la  richiesta  attivita'
istruttoria, formulando la relativa proposta.
    Nelle  suddette  ipotesi,  un  eventuale  rifiuto  da  parte  del
Ministro  precluderebbe,  sostanzialmente,  l'esercizio del potere di
grazia,  con  conseguente  menomazione  di  una  attribuzione  che la
Costituzione  conferisce  -  quanto  alla  determinazione finale - al
Capo dello Stato.
    In  definitiva,  qualora  il  Presidente  della  Repubblica abbia
sollecitato  il  compimento  dell'attivita'  istruttoria ovvero abbia
assunto   direttamente   l'iniziativa  di  concedere  la  grazia,  il
Guardasigilli, non potendo rifiutarsi di dare corso all'istruttoria e
di  concluderla,  determinando  cosi' un arresto procedimentale, puo'
soltanto  rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimita'
o  di  merito  che,  a  suo parere, si oppongono alla concessione del
provvedimento.
    Ammettere  che  il  Ministro  possa  o  rifiutarsi di compiere la
necessaria  istruttoria  o  tenere  comunque un comportamento inerte,
equivarrebbe  ad  affermare  che  egli  disponga  di un inammissibile
potere  inibitorio,  una  sorta  di  potere  di  veto, in ordine alla
conclusione  del  procedimento  volto  all'adozione  del  decreto  di
concessione della grazia voluto dal Capo dello Stato.
    Il  Presidente  della  Repubblica, dal canto suo, nella delineata
ipotesi in cui il Ministro Guardasigilli gli abbia fatto pervenire le
sue   motivate   valutazioni   contrarie  all'adozione  dell'atto  di
clemenza,  ove  non  le  condivida,  adotta  direttamente  il decreto
concessorio,  esternando nell'atto le ragioni per le quali ritiene di
dovere  concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso
dal Ministro.
    Cio'  significa  che, a fronte della determinazione presidenziale
favorevole  alla  adozione  dell'atto di clemenza, la controfirma del
decreto   concessorio,   da   parte  del  Ministro  della  giustizia,
costituisce l'atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la
completezza  e  la  regolarita'  dell'istruttoria  e del procedimento
seguito.
    Da  cio'  consegue  anche  che l'assunzione della responsabilita'
politica   e   giuridica   del   Ministro   controfirmante,  a  norma
dell'art. 89  della  Costituzione,  trova  il suo naturale limite nel
livello di partecipazione del medesimo al procedimento di concessione
dell'atto di clemenza.
    8.-  Sulla  base  delle  considerazioni  che  precedono,  facendo
applicazione di tali principi al caso di specie, deve concludersi per
l'accoglimento del ricorso proposto dal Presidente della Repubblica.
    Il Ministro della giustizia, difatti, ha omesso di dar corso alla
procedura  per  la  concessione  della  grazia  ad  Ovidio Bompressi,
sebbene,  con  nota  dell'8 novembre 2004, l'odierno ricorrente abbia
manifestato   la   propria  determinazione  di  volere  concedere  il
provvedimento di clemenza.
    Va,  pertanto,  dichiarato  che  non  spettava  al Ministro della
giustizia  impedire  la  prosecuzione  del  procedimento  volto  alla
adozione della determinazione presidenziale relativa alla concessione
della   grazia,   con   la   conseguenza  che  deve  essere  disposto
l'annullamento  della  impugnata  nota  ministeriale  del 24 novembre
2004.