LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunziato la seguente ordinanza.

                              In fatto

    Con  sentenza  del  Tribunale  di  Como  in data 15 ottobre 2005,
Panacci  Albino  e'  stato  assolto perche' il fatto non sussiste dal
reato  di  cui all'art. 572 c.p., per fatto commesso in Fino Mornasco
da febbraio 2001 a 30 marzo 2002.
    Avverso  la sentenza presentava impugnazione il Procuratore della
Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Como,  chiedendo alla Corte di
affermare   la   penale   responsabilita'   dell'imputato  in  ordine
all'ascritto reato.
    All'udienza  in  data  26  aprile  2006, il Procuratore Generale,
facendo  propria  la  memoria  del  p.m. presso il Tribunale di Como,
considerate  le  modifiche  introdotte  dalla legge 20 febbraio 2006,
n. 46,  all'art. 593, comma 2, c.p.p., eccepiva, con riferimento agli
artt.   3,   24,  111  e  112  della  Costituzione,  l'illegittimita'
costituzionale  dell'art. 593 citato, nella parte in cui non consente
al pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione, con la
sola  eccezione  delle  ipotesi  di  cui all'art. 603, comma 2, se la
nuova prova e' decisiva;
    Sentito il difensore dell'imputato;

                         Osserva in diritto

    la   questione  di  costituzionalita'  proposta  dal  procuratore
generale e' rilevante poiche', non essendo state dedotte nuove prove,
la  Corte di appello dovrebbe dichiarare inammissibile l'impugnazione
e  dar  luogo alla procedure di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 10 della
legge n. 46/2006. Solo la dichiarazione di incostituzionalita', della
norma  in  esame  consentirebbe  alla Corte di appello di esaminare i
motivi di impugnazione proposti dal procuratore generale, residuando,
diversamente,   solo   la  possibilita'  che  lo  stesso  procuratore
generale,  nel  termine  di  quarantacinque giorni dalla notifica del
provvedimento  di  inammissibilita', proponga «ricorso per cassazione
contro la sentenza di primo grado» (art. 10 cit., comma 3).
    La questione non e' manifestamente infondata.
    In  questa  sede  la  valutazione  deve  essere  espressa in tali
termini  e  non deve, invece, accertare la fondatezza della questione
di   legittimita'   costituzionale   sollevata,   giudizio   che   la
Costituzione attribuisce alla Corte costituzionale, alla quale spetta
la  decisione  sulla  legittimita',  eventualmente anche alla luce di
altri  principi  di  rango  costituzionale  non considerati da chi ha
sollevato  la  questione  (art. 134 della Costituzione e art. 1 della
Legge Costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1). Peraltro, la circostanza
che,  con  riferimento  alla legge n. 46/2006, risultino gia' rimessi
alla  Corte  costituzionale  numerosi  rilievi di incostituzionalita'
attinenti  agli  aspetti  qui  in  esame,  consente di affrontare gli
argomenti al vaglio con opportuna sintesi e tenendo presenti solo gli
aspetti considerati rilevanti dalla Corte.
    L'art. 593 del c.p.p. (come sostituito dall'art. 1 della legge 20
febbraio  2006,  n. 46)  prevede,  per  l'imputato  e per il pubblico
ministero la possibilita' di appellare le sentenze di proscioglimento
solo se nell'atto di appello sia chiesta l'assunzione di nuove prove,
sopravvenute  o  scoperte  dopo  il  giudizio di primo grado, e nelle
ipotesi in cui la nuova prova e' decisiva.
    La  parita' di diritti prevista dalla norma a favore del pubblico
ministero  e  dell'imputato e' solo un artificio e il principio della
parita'  delle  parti  stabilito  dall'art. 111 della Costituzione e'
rispettato  solo  in  modo apparente e formale. E', infatti, evidente
come  sia  ben diverso l'interesse delle parti ad appellare contro le
sentenze  di  proscioglimento.  La  stessa  Corte  di  cassazione, in
conformita'  della  specifica  previsione  dell'art. 568  c.p.p.,  ha
sempre  interpretato in modo restrittivo l'interesse dell'imputato ad
impugnare   le   sentenze   di  proscioglimento.  L'esclusione  della
possibilita'  di  proporre  appello  contro una decisione assolutoria
pone in una posizione deteriore il solo pubblico ministero.
    Infatti,  di fronte ad un capo di sentenza di proscioglimento, il
p.m.  e' totalmente soccombente, mentre l'imputato e' sostanzialmente
vincitore, con eccezioni assolutamente marginali.
    Inoltre,  le  disposizioni  di  cui  al primo ed al secondo comma
dell'art. 593  del c.p.p. (come sostituito dall'art. 1 della legge 20
febbraio  2006,  n. 46)  sono  di  dubbia legittimita' costituzionale
anche   sotto   il   profilo   del  contrasto  con  il  principio  di
ragionevolezza,   implicito   in   quello   di  uguaglianza  previsto
dall'art. 3  della Costituzione. Infatti, il principio di uguaglianza
riguarda  il  trattamento  di  casi  uguali  e  trova un limite nella
ragionevolezza  di  disciplinare  in  modo  diverso casi che non sono
uguali o che lo sono solo in apparenza.
    In tal senso, non sembra ragionevole l'abolizione del diritto del
pubblico   ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze  di
proscioglimento,  mentre  e'  mantenuto  il  diritto dell'imputato di
proporre  appello  contro  le  sentenza  di  condanna.  E  non sembra
ragionevole  neppure  mantenere  il diritto del pubblico ministero di
proporre  appello  avverso  le  sentenze  di condanna (che accolgono,
almeno in parte, le richieste del pubblico ministero) e non prevedere
analoga   facolta'   avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  (che
rigettano   totalmente   le   richieste   del   pubblico  ministero).
Diversamente,   l'art. 593  c.p.p.  stabilisce  la  possibilita'  del
pubblico  ministero  e  dell'imputato  di proporre appello avverso la
sentenza di condanna, salvo quanto previsto dagli artt. 443, comma 3,
448,  comma 2, 579 e 680. In questo modo, nel processo penale, che e'
finalizzato  all'accertamento  della  responsabilita'  dell'imputato,
l'imputato   puo'   trovare   sostanziale  soddisfazione  al  proprio
interesse,  mentre  il  p.m.,  che  agisce  a  tutela  dell'interesse
generale  all'osservanza  della  legge,  di fronte ad una sentenza di
assoluzione  non  puo'  tutelare  quei  fini di giustizia che sarebbe
chiamato a fare valere.
    Un'ulteriore  incongruenza della nuova legge, come rilevato anche
dal  Presidente  della  Repubblica, nel messaggio con cui ha rinviato
alle  Camere  la  prima  versione  della  legge, sta nel fatto che il
pubblico  ministero  totalmente soccombente (sentenza di assoluzione)
non  puo'  proporre  appello, mentre cio' gli e' consentito quando la
sua  soccombenza  sia  solo  parziale,  avendo  ottenuto una condanna
diversa da quella richiesta.
    La  parita'  tra  le parti potrebbe, quindi, ritenersi realizzata
solo  se  il  legislatore, con l'obiettivo di una maggiore speditezza
processuale,  anche  se  a  prezzo della impossibilita' di correggere
eventuali  errori  del  giudizio  di  merito  di  primo grado, avesse
introdotto  la non impugnabilita' di tutte le sentenze, di condanna o
di   proscioglimento,   sia  da  parte  del  pubblico  ministero  che
dell'imputato. Peraltro, il doppio grado di giudizio di merito non e'
espressione  di  un  diritto  di  rango  costituzionale  (Corte cost.
n. 280/1995;  585/2000).  Infatti, la Carta costituzionale garantisce
solo  la  possibilita'  di  ricorrere in Cassazione per violazione di
legge  contro  le  sentenze  e  contro i provvedimenti sulla liberta'
personale.
    La  rilevata  differenza  di  trattamento  per le parti non trova
nessuna  ragionevole  giustificazione nella tutela di altri interessi
di  rilievo  costituzionale,  cosi'  violando il precetto dell'art. 3
della  Costituzione.  Infatti,  il diritto (terzo comma dell'art. 111
della  Cost.)  alla  rapida  definizione del processo potrebbe essere
meglio  realizzato,  senza  pregiudicare  esclusivamente il potere di
appello   del  p.m.,  con  l'abolizione  del  grado  di  appello.  La
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  (adottata  a  Strasburgo il 22 novembre 1984,
ratificata  dall'Italia  con  la  legge  9  aprile  1990, n. 98), nel
protocollo  addizionale n. 7, garantisce che chi sia stato dichiarato
colpevole  da  un  Tribunale  ha  il  diritto  di  fare  esaminare la
dichiarazione  di  colpevolezza  da  un tribunale della giurisdizione
superiore. Tuttavia, il comma 2 dell'art. 2 di tale protocollo recita
che  «tale  diritto  puo'  essere  oggetto  di  eccezioni per i reati
minori,  quali  sono  definiti dalla legge, o quando l'interessato e'
stato  giudicato in prima istanza da un tribunale della giurisdizione
piu'  elevata  o e' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito
di  un  ricorso  avverso  il  suo  proscioglimento». In sostanza, non
risulta  legittima  una interpretazione che ritenga che il riesame ad
opera  di  un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di
merito e non possa, invece, sostanziarsi nella previsione del riesame
da  parte  della  Corte  di  cassazione,  come  gia'  previsto  dalla
Costituzione italiana.
    Ne'   la   rilevata   disparita'   di  trattamento  puo'  trovare
ragionevole  giustificazione  nel  principio, collegato ad esperienze
totalmente accusatorie, che un individuo, gia' riconosciuto innocente
da  un  giudice,  non  puo'  essere  assoggettato  ai patimenti di un
ulteriore  giudizio  per consentire al pubblico ministero di provare,
davanti  ad un altro giudice, che quello precedente si era sbagliato.
L'affermazione  che  la  sentenza  di proscioglimento pronunziata dal
primo giudice darebbe comunque luogo ad un «ragionevole dubbio» sulla
colpevolezza   dell'imputato,   con   conseguente  preclusione  della
sentenza  di condanna (art. 533 c.p.p.), e' una semplice petizione di
principio,  perche'  e' vero, invece, che una diversa e piu' adeguata
valutazione   dei  fatti  e  delle  risultanze  processuali  potrebbe
condurre  ad  una  decisione  basata  su  una  motivazione  non  solo
logicamente coerente ma anche assolutamente convincente.
    In  conclusione,  poiche',  sotto  i profili sopra menzionati, la
questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata da procuratore
generale  non  e'  manifestamente infondata, deve essere rimessa alla
Corte costituzionale per la sua decisione.
    Conseguentemente,  gli  atti  devono  essere trasmessi alla Corte
costituzionale ed il presente giudizio deve essere sospeso.