LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Sulla  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come  modificato  dall'art. 10,  legge  n. 46/2006,  e sulla
richiesta  di  declaratoria di inammissibilita' dell'appello proposto
da  talune  delle  parti  civili,  proposte  all'odierna  udienza dal
procuratore generale;

                   O s s e r v a   i n  f a t t o
    L'11 dicembre  1999  Battaglia Giuseppe presentava al Carabinieri
di  Bergamo  denuncia  nella quale, premesso di frequentare un locale
notturno sito in Parre, del quale era titolare certo Toto, che presso
lo stesso egli spendeva a volte anche cifre di L. 400.000 in una sola
serata e che in certe occasioni il Toto gli consentiva di non saldare
immediatamente  il  conto, riferiva che all'inizio del settembre 1999
tre  uomini,  fra  i quali tale Felice che aveva visto nel locale, si
presentavano  tre  volte  presso  la sua abitazione di Castione della
Presolana  richiedendogli  il  pagamento  di  un debito verso il Toto
dell'importo  di  L. 1.300.000,  facendosi  consegnare  la  somma  di
L. 800.000,   impossessandosi  di  un  telefono  cellulare,  capi  di
abbigliamento  e  dell'attrezzatura  che  egli  utilizzava per il suo
lavoro  di  muratore  e  minacciandolo  con un coltello da cucina per
ottenere la parte rimanente della somma.
    In  pari data il Battaglia riconosceva il Felice nella fotografia
di  La Spina Felice Giuseppe, e gli altri due uomini nelle fotografie
di  Popovic Slavko e Poggia Amerigo. A seguito di indagini, il locale
indicato dal Battaglia veniva identificato nel Lady Moon di Parre, ed
il titolare dello stesso in Sanna Salvatore.
    Con  sentenza  del  Tribunale di Bergamo in data 10 marzo 2003 si
dichiarava  non doversi procedere nei confronti di La Spina Felice, e
Popovic   Slavko   e  Poggia  Amerigo  in  ordine  al  reato  di  cui
all'art. 393  c.p.,  cosi'  modificate  le  originarie imputazioni di
estorsione e rapina, per mancanza di querela.
    Avverso  detta  sentenza  presentava appello il Procuratore della
Repubblica   presso   il   Tribunale   di   Bergamo,  contestando  la
derubricazione   del  reati  originariamente  contestati  e  comunque
l'affermazione di mancanza della querela.

                   O s s e r v a i n d i r i t t o
    Con la norma della cui legittimita' costituzionale il procuratore
generale   dubita   la   disciplina  dei  casi  di  appello  prevista
dall'art. 593   c.p.p.   e'   stata   profondamente   modificata  con
particolare    riguardo    all'appellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento  pronunciate  in  primo  grado,  con esclusione delle
sentenze   emesse  a  seguito  di  giudizio  abbreviato  e  di  altre
specificamente  indicate.  La  previgente  normativa  escludeva  tale
appellabilita'  al  terzo  comma  del  citato  art. 593,  sia  per il
pubblico  ministero che per l'imputato, con riferimento alle sentenze
relative a contravvenzioni punite con la pena dell'ammenda o con pena
alternativa, ed al secondo comma, limitatamente al solo imputato, per
le  sentenze  di  proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per
non aver commesso il fatto.
    Per   effetto  della  recentissima  modifica,  il  secondo  comma
dell'art. 593,  nell'attuale  formulazione,  consente ora al pubblico
ministero   ed  all'imputato  di  appellare  contro  le  sentenze  di
proscioglimento  solo  allorche'  con  i  motivi di appello, al sensi
dell'art. 603   cpv.   c.p.p.,   venga   richiesta   la  rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute
o  scoperte dopo il giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il
carattere,   della  decisivita';  prevedendosi  dal  punto  di  vista
procedurale  che  il giudice dell'appello, ove in via preliminare non
ammetta la rinnovazione dell'istruttoria, dichiari l'inammissibilita'
dell'appello,  e  che entro il termine di quarantacinque giorni dalla
notificazione  della  relativa  ordinanza  le  parti possano proporre
ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado.
    L'art. 10, legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi
applicazione  per  i  procedimenti in corso; disponendo che l'atto di
appello  proposto  avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  prima
dell'entrata   in   vigore   della  nuova  normativa  sia  dichiarato
inammissibile  con  ordinanza non impugnabile, e che entro il termine
di  quarantacinque  giorni  dalla notificazione di quest'ultima possa
essere  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso la decisione di
primo grado.
    Tanto  premesso,  e  richiamando  quanto  precedentemente esposto
sulla  vicenda  processuale,  e'  evidente  la rilevanza nel presente
giudizio  della  questione  proposta  dal  procuratore  generale.  Al
procedimento  in  esame,  per effetto della citata norma transitoria,
deve  senz'altro  applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di
conseguenza  l'appello  in  discussione  soggetto  a  declaratoria di
inammissibilita',  con  la  conseguente possibilita', per il pubblico
ministero  appellante,  di  esperire  il  ben  diverso  e  tutto piu'
delimitato rimedio del ricorso per cassazione 1).
    Il   requisito   della   rilevanza   dell'eccezione   e'   dunque
sussistente.
    Altrettanto  deve  concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore
presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
    E'  opportuno  premettere  che, per quanto la novella legislativa
abbia  ad  oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
da  parte  sia  dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  e' nei
confronti  di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame
in  discussione  assume  portata  preponderante  e,  sostanzialmente,
rilievo centrale.
    All'imputato  era  invero gia' inibita dalla precedente normativa
la  possibilita' di appellare sentenze di proscioglimento con formula
piena.
    Ma,  a  prescindere  da  questa  pur  pregnante  circostanza, non
occorre  spendere  molte  parole  per evidenziare come in generale, a
fronte  di  una  pronuncia  assolutoria,  l'interesse ad impugnare si
concentri in concreto sul pubblico ministero piu' che sull'imputato.
    L'incidenza   di   una   siffatta   limitazione   sui  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  non  richiede,  a  sua volta,
particolare  commento.  E'  sufficiente osservare come per effetto di
essa   l'ufficio   della   pubblica  accusa  si  veda  privato  nella
grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza
di  proscioglimento  in  primo  grado.  L'esercizio  di  tale  potere
presuppone  infatti,  nell'attuale  previsione  normativa,  che nuove
prove  siano  emerse  dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta,
che esse si presentino come decisive per il giudizio.
    Ove  la marginalita' statistica di una situazione cosi' descritta
puo'   essere   agevolmente   apprezzata  da  chiunque  abbia  minima
esperienza delle cose giudiziarie.
    Una  deprivazione  di facolta' processuali di tale portata impone
un   controllo   sulla   ragionevolezza   della  relativa  previsione
normativa;  e  cio'  soprattutto  nel  momento  in  cui  le  predette
facolta',  in  quanto riferite alla figura istituzionale del pubblico
ministero,   si   ricollegano  a  valori  di  fondamentale  rilevanza
costituzionale.
    Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell'obbligatorieta'  dell'esercizio dell'azione penale, da parte del
pubblico ministero, di cui all'art. 112 Cost.
    La  centralita'  del  principio in parola nel sistema complessivo
della  giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non
solo dal suo contenuto specifico; ma altresi' dalla sua funzionalita'
alla  concreta  attuazione  di  valori a loro volta caratterizzati da
valenza costituzionale.
    E'   dato   acquisito   da   tempo  nella  stessa  giurisprudenza
costituzionale,  formatasi sulle norme del codice di procedura penale
ora  vigente  a  partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio
dell'azione  penale  da  parte  del pubblico ministero, ufficio non a
caso  interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del
legislatore   costituente,   sia   manifestazione   del  fondamentale
principio  di  legalita',  di  cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto
sostanziale;  in  quanto  esso esprime, cioe', la necessita' che alla
commissione  di  reati,  lesivi  di  interessi e valori spesso a loro
volta  di  rango  costituzionale  o  comunque  di  elevata  rilevanza
sociale, segua l'inflizione di una pena 2).
    Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del
diritti  di  difesa  garantito  dall'art. 24  Cost.  anche alle parti
offese  dei  reati. Diritto che non puo' ritenersi attuato dalle sole
norme  connesse  all'istituto  della costituzione di parte civile nel
processo  penale;  rispetto al quale, a dire il vero, l'art. 6, legge
n. 46/2006,   modificando   l'art. 576   c.p.p.  con  l'escludere  il
riferimento  operativo  della  facolta'  di  impugnazione della parte
civile  al  mezzo  di  gravame  previsto  per  il pubblico ministero,
continua  a  rendere possibile l'appello di essa parte civile avverso
la  sentenza  di  proscioglimento  di  primo  grado, sia pure ai soli
effetti  della responsabilita' civile. L'esercizio dell'azione penale
da  parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle vittime
dei  reati  l'essenziale  tutela  del  loro  legittimo  interesse  ad
ottenere  giustizia,  a  prescindere  dalle  possibilita'  che  dette
vittime  in  concreto  abbiano  di  accedere  al processo nelle forme
dell'azione civile ivi direttamente intrapresa.
    Detto  questo,  e'  ben  vero  che  la giurisprudenza della Corte
costituzionale  ha  affermato  come il potere di appello del pubblico
ministero  non  possa  essere  ricondotto  all'obbligo  di esercitare
l'azione  penale  3).  Ma  e' vero altresi' che il principio e' stato
dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la
facolta' di impugnazione non costituisca «estrinsecazione necessaria»
dell'esercizio  dell'azione  penale  4).  Detta  facolta' rappresenta
dunque  non  piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario
prolungamento   dell'azione   penale;   ma,  in  questa  prospettiva,
limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non
possono  che  riverberarsi  sulla  completezza  delle possibilita' di
esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto,
ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
    Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti
di  cui  le  opportunita'  di  esercizio dell'azione penale sono, per
quanto   esposto,   espressione,   diviene   assolutamente   doveroso
interrogarsi  sulla  possibilita',  per  il legislatore ordinario, di
apporre  a  detto  esercizio  limitazioni di tale entita' nell'ambito
della  normale  discrezionalita'  legislativa; e sulla necessita', di
contro,  che  una  scelta  di  questo  genere  debba  essere ancorata
rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.
    Vi  e'  pero'  anche un altro profilo di rilevanza costituzionale
che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; che attiene
al  principio  del  contraddittorio  processuale  posto dall'art. 111
Cost.
    E'  appena  il  caso  di  precisare  che  qui non si intende fare
riferimento  al  principio del contraddittorio nella formazione della
prova,  di  cui  al  quarto  comma  della norma costituzionale appena
citata.
    Oggetto  di  attenzione  deve  essere  invece  il  piu'  generale
richiamo  del  secondo  comma  dell'articolo  alla  necessita' che il
processo  si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni
di parita' delle stesse.
    Il  contraddittorio,  invero, assurge qui a valore che pervade il
processo  nella  sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la
fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale.
Ed  e',  soprattutto,  valore  in  se' considerato, a prescindere dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla fase dell'appello; e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l'appello
in  caso  di  esito  assolutorio del giudizio di primo grado, laddove
nell'opposto risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa
all'imputato piena facolta' di impugnazione.
    Questa   corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  5)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato
escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi.  Rimane  tutto  da  valutare,  quindi,  se  in  concreto la
disparita'  fra  determinati  poteri, a cagione della loro rilevanza,
non  alteri  in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma
costituzionale;  e,  soprattutto,  se  di  tale  disparita'  non vada
pretesa una giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Anche  per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente
esaminato,  occorre  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la   modifica  dell'art. 593  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano dunque a quello
che  a  questo  punto  si presenta come il cuore del problema; vale a
dire,  la  compatibilita'  della  norma esaminata con il principio di
ragionevolezza,   desumibile,   come   e'   noto,  dall'art. 3  Cost.
Ragionevolezza che deve pero' essere valutata nella prospettiva della
tollerabilita'  del  sacrificio che la norma impone agli altri valori
costituzionali   fin   qui   menzionati;  segnatamente  il  principio
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale, nel suo profilo di stretta
funzionalita'  al valori del principio di legalita' sostanziale e del
diritto  di  difesa  delle  vittime  dei  reati,  ed il principio del
contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da' forma al giusto
processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi
ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato
da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  da  escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie
di  ragioni  corrispondenti  o  similari  a  quelle  che  ispirano la
previsione  di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del
pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale,
sotto  il  profilo  del  principio  del  contraddittorio,  dalle gia'
segnalate  decisioni  della  Corte costituzionale. Quali l'esclusione
della  possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di
impugnazione  nella  cancelleria  del tribunale, diversa dal luogo di
emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui
all'art. 582  c.p.v.  c.p.p.  6), evidentemente sorretta da motivi di
celerita'  processuale;  o  l'inappellabilita',  anche in prospettiva
incidentale, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a
seguito  di  giudizio  abbreviato,  di  cui all'art. 443, comma terzo
c.p.p.,  ove  ad analoghe ragioni di speditezza si aggiunge l'intento
di  favore  per l'adozione di riti deflattivi 7). Nel caso di specie,
non  e'  ravvisabile  alcun  risultato  di  accelerazione  del l'iter
processuale  che  giustifichi  la  scelta  legislativa la sostanziale
soppressione  di  un  mezzo  di  impugnazione disponibile al pubblico
ministero.
    Neppure  puo'  attribuirsi  rilievo  alla  particolare  posizione
istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento
giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove
favorevoli  all'imputato  in  sede  di  indagine  e  da  un'obiettiva
considerazione  degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non
vincola  l'ufficio  dell'accusa a richieste che siano necessariamente
intese  a  sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi
rilievi  sono  infatti  superati nel momento in cui ci si trovi nella
fase   processuale  a  cui  attiene  la  norma  in  discussione;  che
presuppone  la  conseguita  determinazione  del pubblico ministero di
impugnare  la  pronuncia  assolutoria di primo grado per ottenere una
sentenza  di  condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella
particolare  prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa,
nel  giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
Il  che  da  un  lato  pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire  in  secondo  grado  nell'esercizio  dell'azione penale in
attuazione  dei  valori  di  legalita'  e difesa sociale di cui si e'
ampiamente  detto;  e  dall'altro  esige  che il processo mantenga un
equilibrato  contraddittorio  fra  tali ragioni e quelle della difesa
dell'imputato,  perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita'
venga ad essere sottratta al giudizio.
    Non puo' infine essere invocata, come correttamente osservato dal
procuratore  generale,  la previsione del primo comma dell'art. 2 del
protocollo 11   della  Convenzione  europea  sulla  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato con legge
n. 296/1997.  Se  e'  vero infatti che la citata disposizione prevede
che  chiunque  venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da
un  tribunale  ha  il  diritto  di  sottoporre  ad un tribunale della
giurisdizione  superiore  la dichiarazione di colpa o la condanna, e'
vero  altresi'  che  il  secondo comma dello stesso articolo consente
eccezione  al  principio  nel  caso in cui la persona interessata sia
stata  giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione
piu'  elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito
di   un   ricorso   avverso   il  suo  proscioglimento;  indicazione,
quest'ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente
all'intervento legislativo oggetto della questione.
    Non   puo'  sottacersi,  di  contro,  come  la  nuova  disciplina
dell'art. 593  c.p.p. crei un'irragionevole disparita' di trattamento
laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l'appello contro
sentenze  di proscioglimento e per altro mantiene la possibilita' per
lo  stesso  pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna;
in  tal  modo  privilegiando  la  cura di un interesse processuale di
indubbiamente minore consistenza.
    Queste  considerazioni  inducono  a  ritenere  non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' della norma in oggetto con i
richiamati artt. 24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti
i  presupposti di legge perche' gli atti vengano trasmessi alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  in  merito,  con  la  conseguente
sospensione del procedimento.
          1)  Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso
          per  cassazione  operato  dall'art. 8  della  stessa  legge
          n. 46/2006   con  l'inserimento,  nel  testo  dell'art. 606
          c.p.p.,  della  mancata  assunzione  di  una prova decisiva
          anche   laddove   richiesta   nel   corso   dell'istruzione
          dibattimentale  e  della  contraddittorieta'  o illogicita'
          della   motivazione   risultante   da   atti  del  processo
          specificamente indicati dal ricorrente.
          2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del
          26 marzo   1993,   con   la  quale  si  riteneva  infondata
          l'eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 507
          c.p.p.   sul   presupposto  che  detta  norma  subordinasse
          l'assunzione  di  prove  non  indicate  dalle parti al solo
          requisito  dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a
          prescindere  dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle
          parti.
          3) v. Sent. n. 206 del 27 giugno 1997.
          4)  v. Sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003.
          5)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          6) Sent. n. 110 del 1° aprile 2003.
          7)  Sent.  n. 165  del  9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio
          2004.