LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Sulla  eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 576,
primo  comma  c.p.p., come modificato dall'art. 6, legge n. 46/2006 e
dell'art. 10  della  stessa  legge,  proposta all'odierna udienza dal
difensore della parte civile;

                     O s s e r v a i n f a t t o
    Con  sentenza,  emessa  in  data  9  gennaio  2004  all'esito  di
dibattimento il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, ha
assolto,  perche'  il  fatto  non  costituisce reato, Marchetti Lucia
Alessandra,  Mazza  Giacomo,  Poma  Elena,  Ferrari  Fulvia,  Mirtani
Michele,   Ongis   Alessandro   e  Daminelli  Fabio  dal  delitto  di
diffamazione  a  mezzo  stampa,  loro  contestato  in relazione ad un
manifesto,  stampato ed affisso in luogo pubblico nell'aprile 1999 in
Stezzano,  nel  quale  Serantoni Vittorio, costituitosi parte civile,
aveva ravvisato contenuti offensivi della sua reputazione.
    Avverso  detta  sentenza ha proposto appello la parte civile, che
chiede  affermarsi la penale responsabilita' degli imputati in ordine
al  reato ascritto, tanto al fine della pronuncia della condanna alla
giusta  pena,  quanto  al fine di ottenere il risarcimento del danno,
richiesto  nell'ammontare  non  inferiore  ad  Euro  4.131,66,  o, in
subordine,   nel  caso  di  condanna  generica,  di  avere  liquidata
provvisionale non inferiore ad euro 2.000.
    All'odierna  udienza  il  procuratore  generale e il difensore di
parte  civile, quest'ultimo in via esclusivamente, subordinata, preso
atto della novella legislativa n. 46/2006 eccepivano l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  576  c.p.p., come dalla stessa modificato,
nonche'  dell'art. 10  della  medesima  legge  con  riferimento  agli
artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
    La Corte, previa dichiarazione dell'inammissibilita' dell'appello
nei confronti di Ongis Alessandro, deceduto il 27 febbraio 2005.

                  O s s e r v a i n  d i r i t t o
    A   seguito   della  abrogazione  dell'art. 577  c.p.p.,  sancita
dall'art. 9  della  novella  n. 46/2006,  la  parte  civile e' stata,
pacificamente,  privata  della  facolta' di impugnazione, «anche agli
effetti  penali»,  nei  confronti  delle  sentenze  di  condanna e di
proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione.
    La   nuova   formulazione   dell'art. 576   c.p.p.   (della   cui
legittimita'  costituzionale  il  procuratore generale dubita) impone
peraltro  di  escludere  il potere di appello della parte civile pure
contro  tutte le sentenze, sia di condanna che di proscioglimento,«ai
soli effetti della responsabilita' civile».
    Prima   dell'entrata   in   vigore   della   novella   n. 46/2006
l'appellabilita'  delle sentenze ad opera della parte civile «ai soli
effetti  della  responsabilita'  civile»,  era sancita dall'art. 576,
primo  comma  c.p.p.,  che  cosi'  recitava:  «La  parte  civile puo'
proporre   impugnazione   con  il  mezzo  previsto  per  il  pubblico
ministero,  contro  i  capi  della  sentenza  che riguardano l'azione
civile».
    Poiche'  al p.m. era attribuito, a norma dell'art. 593 c.p.p., il
potere  di  appello,  questo  si  estendeva,  in virtu' del succitato
richiamato,   alla   parte   civile,  cui  altrimenti  esso  non  era
riconosciuto.
    La  soppressione  dell'inciso  «con  il  mezzo  previsto  per  il
pubblico  ministero»  ha  ora  totalmente  svincolato  il  potere  di
impugnativa  della  parte  civile  da  quello del pubblico ministero,
sicche'  ad  essa  non  puo'  piu' essere riconosciuta la facolta' di
appello,  ne'  contro le sentenze di condanna, ne' contro le sentenze
di  assoluzione,  e  neanche nei residui casi in cui tale facolta' e'
tuttora concessa al p.m. dal nuovo art. 593, secondo comma. Ne', alla
luce  del principio della tassativita' dei mezzi d'impugnazione, puo'
trarsi  argomento  in contrario dalla permanenza dell'art. 600 c.p.p,
che,  nel  contesto  di  un  intervento  legislativo  non  immune  da
disorganicita', va interpretato come mera dimenticanza.
    Cio'  configura  una  disparita'  di  trattamento  ed  una palese
irrazionalita',  tali  da  integrare  la  violazione del principio di
uguaglianza  di  cui  all'art. 3  della  Costituzione, del diritto di
difesa   della   parte   civile   di   cui  all'art. 24  della  della
Costituzione,   del   principio  di  parita'  tra  le  parti  di  cui
all'art. 111 della Costituzione.
    L'art. 74  c.p.p. stabilisce che il soggetto al quale il reato ha
recato danno, ovvero i suoi successori universali, possano esercitare
nel  processo  penale, nei confronti dell'imputato e del responsabile
civile,  l'azione  civile  per le restituzioni ed il risarcimento del
danno di cui all'art. 185 c.p., ossia «a norma delle leggi civili».
    Seppur   detta  azione  civile  sia  regolata  dai  principi  che
disciplinano   il  giudizio  civile,  per  quanto  espressamente  non
derogato, appare contraddittoria l'introduzione in sede penale di una
deroga  rispetto  ai  normali  strumenti di impugnazione previsti dal
processo civile.
    La  soppressione della facolta' di appello impedisce infatti alla
parte  civile  di  chiedere  il  riesame  nel merito di decisioni che
potrebbero  esserle  irreparabilmente  pregiudizievoli,  in  base  ai
meccanismi preclusivi di cui agli artt. 652 e 654 c.p.p.
    Il  quadro normativo scaturente dalla legge n. 46/2006 si delinea
allora  come  gravemente  irrazionale,  poiche', da un lato, mantiene
inalterata la possibilita' per la parte civile di azionare le pretese
civilistiche  nel  processo  penale,  e,  dall'altro,  scoraggia tale
scelta,  deprivandola  degli  adeguati  strumenti di tutela giuridica
delle medesime.
    Nessuno   dubiterebbe   della  costituzionalita'  di  una  scelta
legislativa  che  rimuovesse  del  tutto l'azione civile dal processo
penale,  ma  una  volta concessa al danneggiato l'opzione se agire in
sede  civile o in sede penale, che, per quanto segnalato, si atteggia
come   strumento   atto   a  consentire  di  contrastare  l'eventuale
formazione  di  un  giudicato  pregiudizievole  a sensi dell'art. 652
c.p.p.,  non  puo'  non  accordargli,  ove  propenda  per  la seconda
soluzione,  tutti  gli strumenti atti al perseguimento ed alla difesa
dei propri diritti.
    E'  vero  che  in  taluni  casi  il legislatore ha sacrificato le
aspettative  della  parte civile, come, ad esempio, nel caso del rito
alternativo  di  cui all'art. 444 c.p.p., ma cio' ha fatto, non solo,
non  pregiudicando  la  successiva  proposizione  dell'azione in sede
civile,  ma  evidentemente  bilanciando  gli  interessi privati della
parte  civile  con  altro  fine costituzionalmente protetto, ossia la
speditezza del processo.
    Strettamente  connesso all'aspetto dianzi esaminato e' il profilo
di  incostituzionalita'  dell'art. 576 c.p.p., rispetto al diritto di
difesa,  garantito  dall'art.  24 della Costituzione anche alla parte
offesa  dal  reato, diritto che non puo' ritenersi attuato dalle sole
norme  connesse  all'istituto  della costituzione di parte civile, ma
che  dovrebbe  estrinsecarsi  nell'effettivita'  della  tutela  delle
pretese  civilistiche,  invece  chiaramente  frustrate dalla radicale
inappellabilita' derivante dalla nuova normativa.
    Vi  e'  infine  un  altro  profilo  di  rilevanza costituzionale,
attinente   al   principio  di  cui  all'art.  111,  comma  2,  della
Costituzione   per   il   quale   il   processo  deve  svolgersi  nel
contraddittorio  fra  le  parti,  ivi  ovviamente  compresa  la parte
civile, ed in condizioni di parita' fra le stesse.
    Il  contraddittorio  assurge qui a valore che pervade il processo
nella  sua  interezza  e  quindi  necessariamente  coinvolge  la fase
dell'appello,  che  del processo costituisce passaggio essenziale. Ed
e',  soprattutto,  valore  in  se'  considerato,  a  prescindere  dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla  fase dell'appello e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti, impedendo radicalmente l'appello alla parte civile, sia in
caso   di  assoluzione  che  di  condanna,  laddove  all'imputato  e'
riconosciuta ampia facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  1)  ha  ritenuto  che, il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle  parti. Ma cio' che e' stato escluso e' un vincolo
di  derivazione  necessaria  ed  assoluta  fra i due elementi. Rimane
allora  da  valutare,  quindi,  se,  in  concreto,  la disparita' fra
determinati  poteri,  a  cagione  della loro rilevanza, non alteri in
misura  intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma costituzionale
e,   soprattutto,   se  di  tale  disparita'  non  vada  pretesa  una
giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
poc'anzi, ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Occorre  quindi  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la  modifica  dell'art.  576  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano a quello che, a
questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la
compatibilita'   della   norma   esaminata   con   il   principio  di
ragionevolezza   (desumibile   dall'art.  3  della  Costituzione)  da
valutarsi  nella  prospettiva della tollerabilita' del sacrificio che
la  norma impone agli altri valori costituzionali fin qui menzionati;
segnatamente  il  diritto  di  difesa  delle  vittime dei reati ed il
principio  del  contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da'
forma al giusto processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
portare  ad  un  giudizio  di irragionevolezza della norma, dovendosi
ritenere   il  vulnus  inferto  ai  principi  appena  citati  non  e'
gisutificato da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  appena il caso di rilevare che la deminutio operata sul piano
dell'appello  non  puo'  essere  recuperata dalla parte civile grazie
all'ampliamento  dei  casi  del  ricorso  in Cassazione come previsti
dall'art. 606 c.p.p. nuova formulazione, senz'altro accessibili anche
alle  parti  private  in base al principio generale sancito dall'art.
568, comma 2 c.p.p.
    Infatti  la  modestia  dell'estensione,  limitata  alla  «mancata
assunzione  di  una  prova  decisiva,  quando  la  parte  ne ha fatto
richiesta  arche  nel  corso  dell'istruzione dibattimentale», non e'
tale  da  soddisfare  la  legittima esigenza di un riesame nel merito
quale  l'ordinamento  giuridico  accorda  coloro  che  a  coloro  che
agiscono a tutela delle proprie ragioni in sede civile.
    E' infatti il caso di rilevare che non possono trovare ingresso a
sostegno  dell'inappellabilita'  della  parte  civile  gli  argomenti
sviluppati dalla dottrina con riguardo al pressoche' identico destino
riservato  all'accusa,  argomenti che, anche ove condivisi, attengono
precipuamente  al  tema della responsabilita' penale ed alla esigenza
di  garantire all'imputato, in caso di condanna, una doppia pronuncia
conforme.
    Tale  proccupazione  non  ha  invero  ragione  di  sussistere con
riferimento  alla  parte  civile,  che  agisce  esclusivamente per la
tutela   di   interessi   patrimoniali   ed   ai   soli   fini  della
responsabilita'  civile  dell'imputato,  per  il quale l'accertamento
della commissione del reato avviene solo in via incidentale.
    E'  stata  sollevata  la questione di legittimita' costituzionale
anche  dell'art. 10, legge n. 46/2006, ove effettivamente ancora piu'
evidenti  sono  i profili di incostituzionailta' con riferimento agli
artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
    Le  disposizioni  transitorie  della  legge n. 46/2006, contenute
nell'art. 10,  nulla  prevedono in ordine agli appelli proposti dalla
parte  civile,  come  quello  che  ci  occupa,  sotto il vigore della
vecchia normativa.
    In  particolare l'art. 10 cit. non prevede per la parte civile un
regime analogo a quello contemplato dal secondo e dal terzo comma per
le altre parti, imputato e pubblico ministero, con la conseguenza che
ad   essa   non   compete   ne'   la   notifica   dell'ordinanza   di
inammissibilita',  ne'  la  possibilita'  di integrare il ricorso per
cassazione  nei  limiti  delle  modificazioni  apportate all'art. 606
c.p.p. dall'art. 8, legge cit.
    Ne  consegue  che la parte civile, gia' privata della facolta' di
appello,  si  trova  sguarnita  di  ogni  strumento  di  impugnativa,
costretta  a  subire  l'efficacia  di  un  giudicato  formatosi sulla
sentenza  di primo grado e senza piu' la possibilita' di ricorrere al
giudice  civile,  pur  avendo  optato  per  il  giudizio penale in un
contesto legislativo che le conferiva il potere di appello.
    Risulta  pertanto palesemente violato il principio di uguaglianza
e  ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, il diritto di
difesa  della parte civile, nonche' per le ragioni gia' illustrate il
principio di parita' tra le parti processuali.
    Entrambe  le  questiojai  sollevate  sono  rilevanti nel presente
procedimento,   poiche'  dal  loro  accoglimento  dipende  la  tutela
giurisdizionale  delle  pretese risarcitorie delle parti civili nelle
forme,  o  dell'appello  o,  quanto  meno,  del ricorso in cassazione
secondo lo schema dell'art. 10, legge n. 46/2006.
          1)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.