ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei  giudizi  di legittimita' costituzionale degli artt. 1 e 10 della
legge  20 febbraio  2006,  n. 46  (Modifiche  al  codice di procedura
penale,   in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze  di
proscioglimento),  promossi  con  ordinanze  del  16 marzo 2006 dalla
Corte di appello di Roma nel procedimento penale a carico di E. F. ed
altri  e  del  16 marzo  2006  dalla  Corte  di appello di Milano nel
procedimento penale a carico di A. M. ed altri, iscritte ai nn. 130 e
155 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 19 e 22 1ª serie speciale, dell'anno 2006;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 24 gennaio 2007 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di
Roma  ha  sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della
Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 1
della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura
penale,   in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze  di
proscioglimento),  nella  parte  in  cui  non  consente  al  pubblico
ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento,
se  non  nel  caso  previsto  dall'art. 603,  comma 2,  del codice di
procedura  penale  -  ossia  quando sopravvengano o si scoprano nuove
prove  dopo  il  giudizio  di  primo  grado - e sempre che tali prove
risultino decisive.
    La   Corte  rimettente  -  investita  dell'appello  proposto  dal
Procuratore  della  Repubblica  avverso  la sentenza del Tribunale di
Roma,   che   aveva   assolto  tre  persone  imputate  del  reato  di
ricettazione  -  rileva  come, nelle more del gravame, sia entrata in
vigore la legge n. 46 del 2006, il cui art. 1, sostituendo l'art. 593
cod.  proc.  pen.,  ha  sottratto  al pubblico ministero il potere di
appellare  contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per
l'ipotesi delineata dall'art. 603, comma 2, del codice di rito.
    Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe
diversi precetti costituzionali.
    Essa   risulterebbe   lesiva,   anzitutto,   del   principio   di
eguaglianza,   sancito   dall'art. 3   Cost.:   consentire,  infatti,
all'imputato  di  proporre  appello  nei  confronti delle sentenze di
condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare potere di
appellare  contro  «le  sentenze  di  assoluzione», se non in un caso
estremamente  circoscritto,  significherebbe porre l'imputato in «una
posizione  di evidente favore nei confronti degli altri componenti la
collettivita»;  questi  ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal
modo, il diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l'azione
penale,  che  tutela  i loro interessi. La possibilita', per l'organo
dell'accusa,  di  proporre  appello  nei casi previsti dall'art. 603,
comma 2,  cod.  proc.  pen.  risulterebbe, in effetti, «poco piu' che
teorica»,  perche'  legata  alla sopravvenienza di prove decisive nel
ristretto  lasso  temporale  tra la pronuncia della sentenza di primo
grado e la scadenza del termine per appellare.
    La  norma  censurata  si  porrebbe,  altresi',  in  contrasto con
l'art. 24 Cost., non consentendo alla «collettivita», i cui interessi
sono  rappresentati  e  difesi  dal  pubblico ministero, «di tutelare
adeguatamente  i  suoi  diritti»:  e  cio' anche quando l'assoluzione
risulti  determinata  da  un  errore  nella ricostruzione del fatto o
nell'interpretazione di norme giuridiche.
    Risulterebbe  violato,  ancora,  l'art. 111 Cost., nella parte in
cui  impone  che  ogni processo si svolga «nel contraddittorio tra le
parti,  in  condizioni  di  parita'  davanti  ad  un  giudice terzo e
imparziale»,  posto  che la disposizione denunciata non permetterebbe
all'accusa  di  far  valere  le  sue  ragioni  con modalita' e poteri
simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.
    Da  ultimo,  detta  disposizione  lederebbe  l'art. 112  Cost. Ad
avviso  del rimettente, infatti, la previsione di un secondo grado di
giudizio  di  merito  -  fruibile  tanto  dal  pubblico ministero che
dall'imputato  (cosi'  come  dall'attore e dal convenuto nel giudizio
civile)  -  sarebbe  «consustanziale» al sistema processuale vigente:
con  la  conseguenza  che  la  sottrazione all'organo dell'accusa del
potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe
i   vincoli  posti  dal  principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione
penale, «considerata nella sua interezza».
    2. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di
Milano  ha  sollevato,  in  riferimento  agli  artt. 3 e 111, secondo
comma,  Cost., questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1
e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, rispettivamente,
escludono  che  il  pubblico  ministero  possa  appellare  contro  le
sentenze  di  proscioglimento  (art. 1);  e  prevedono  che l'appello
proposto  dal  pubblico  ministero,  avverso  una  di dette sentenze,
anteriormente  all'entrata  in  vigore  della  medesima  legge, venga
dichiarato  inammissibile, con facolta' per l'appellante di proporre,
in sua vece, ricorso per cassazione (art. 10).
    Il  giudice  a  quo  premette  di  essere chiamato a celebrare, a
seguito  di  impugnazione  del  pubblico  ministero,  il  giudizio di
appello  nei  confronti  di numerosi imputati, assolti in primo grado
dal  delitto di truffa aggravata perche' il fatto non sussiste. Medio
tempore, era tuttavia sopravvenuta la legge n. 46 del 2006, la quale,
all'art. 1,  sostituendo  l'art. 593  cod. proc. pen., aveva precluso
l'appello  avverso  le  sentenze  di  proscioglimento, fuori del caso
previsto  dall'art. 603,  comma 2,  cod.  proc.  pen; e, all'art. 10,
aveva  stabilito,  con  riguardo  ai  giudizi in corso, che l'appello
anteriormente   proposto   dal  pubblico  ministero  vada  dichiarato
inammissibile,  salva la facolta' dell'organo dell'accusa di proporre
ricorso per cassazione contro la sentenza appellata.
    Recependo,  in  parte  qua, l'eccezione formulata dal Procuratore
generale,  la Corte rimettente dubita, tuttavia, della compatibilita'
di  tali  previsioni  normative con gli artt. 3 e 111, secondo comma,
Cost.
    La  questione  sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto il
suo  accoglimento  consentirebbe  l'esame  nel  merito  del  gravame,
altrimenti  destinato  alla  declaratoria  di  inammissibilita',  non
avendo   il   pubblico   ministero  proposto  nuove  prove  ai  sensi
dell'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.
    Quanto,   poi,   alla  non  manifesta  infondatezza,  il  giudice
rimettente  ritiene che le disposizioni censurate violino, anzitutto,
il   principio   di   parita'   delle  parti  nel  processo,  sancito
dall'art. 111,  secondo  comma,  Cost.  Inibendo  tanto  al  pubblico
ministero   che   all'imputato   l'appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,   tali   disposizioni   attuerebbero,  infatti,  una
parificazione   «solo   formale»:   giacche',  nella  sostanza,  esse
verrebbero  a  limitare il potere di impugnazione di quella sola, fra
le  due  parti,  che  ha interesse a dolersi delle suddette sentenze,
ossia il pubblico ministero.
    D'altro  canto,  alla luce dell'«unica interpretazione possibile»
dell'art. 576  cod.  proc.  pen.,  come modificato dalla stessa legge
n. 46  del  2006,  le  sentenze di proscioglimento potrebbero formare
invece  oggetto  di  appello  ad  opera  della parte civile: donde un
ulteriore  profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico ministero a
trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.
    Ne'   l'evidenziata   situazione   di   «assoluta  disparita'  di
trattamento»  fra  le  parti  processuali  risulterebbe  elisa  dalla
facolta'  di  proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento
nell'ipotesi  prevista  dall'art. 603,  comma 2,  cod. proc. pen., la
quale si connoterebbe come «del tutto residuale».
    Le  norme  censurate si porrebbero, per altro verso, in contrasto
con l'art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza.
    Alla  luce  delle  indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di
questa  Corte,  infatti - se pure il potere impugnazione del pubblico
ministero  non  costituisce  estrinsecazione  necessaria  dei  poteri
inerenti all'esercizio dell'azione penale - una asimmetria tra accusa
e  difesa,  su tale versante, sarebbe compatibile con il principio di
parita'   delle   parti   solo   ove   contenuta   nei  limiti  della
ragionevolezza,  in  rapporto  ad  esigenze di tutela di interessi di
rilievo  costituzionale. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come -
alla  stregua  di  detta  premessa  -  questa  Corte  abbia  ritenuto
costituzionalmente  legittime  le  disposizioni che non consentono al
pubblico  ministero di proporre appello, sia in via principale che in
via  incidentale,  avverso  le  sentenze  di  condanna  pronunciate a
seguito  di giudizio abbreviato (artt. 443, comma 3, e 595 cod. proc.
pen.):  valorizzando,  a  tal  fine,  le peculiari caratteristiche di
detto  rito  alternativo.  La  medesima  giustificazione non potrebbe
tuttavia  valere  in  rapporto  alle  norme  oggi censurate, le quali
precludono  l'appello del pubblico ministero contro tutte le sentenze
di  proscioglimento,  senza  operare  alcuna distinzione tra giudizio
abbreviato e giudizio ordinario.
    A  sostegno  della  soluzione  normativa  censurata, non varrebbe
neppure  invocare  -  ad  avviso  del  rimettente  - il diritto della
persona  accusata  alla rapida definizione del processo a suo carico,
in  forza del principio di ragionevole durata del medesimo (art. 111,
secondo  comma,  Cost.):  diritto  che non potrebbe essere realizzato
tramite  l'esclusivo  sacrificio  del  potere  d'appello  della parte
pubblica,  senza con cio' infrangere l'altro principio costituzionale
-  di  non  minore  rilievo - della parita' delle parti nel processo.
Sintomatico  della mancanza di ogni ragionevole contemperamento tra i
due  valori  sarebbe,  del  resto,  il perdurante potere del pubblico
ministero  di impugnare le sentenze di condanna, a differenza che nel
giudizio abbreviato.
    Parimenti,    non    potrebbe    rinvenirsi    una    ragionevole
giustificazione   delle   norme   censurate   nel   preteso   diritto
dell'imputato  a  fruire,  sempre  e  comunque, di un doppio grado di
giudizio  di  merito,  nel  caso  di  condanna. Un simile diritto non
sarebbe  riconosciuto  ne'  dalla Costituzione, ne' dalle convenzioni
internazionali;  infatti,  il  paragrafo 2 dell'art. 2 del Protocollo
addizionale  n. 7  della  Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti   dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  -  adottato  a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge
9 aprile   1990,   n. 98  -  prevede  espressamente  che  il  diritto
dell'imputato   a   far   riesaminare  l'affermazione  della  propria
colpevolezza  possa  essere escluso, quando tale affermazione promani
da una giurisdizione superiore, o abbia luogo a seguito di un ricorso
avverso l'originario proscioglimento dell'imputato medesimo.
    Ancora,  non  si potrebbe sostenere che, riconoscendo al pubblico
ministero  il  potere  di  provare,  davanti  ad  un giudice diverso,
l'erroneita'  del  primo  giudizio assolutorio, si incrementerebbe il
rischio  che  venga condannato un innocente, stante la «disparita' di
forze  in  gioco».  L'assunto  risulterebbe  infatti  valido  solo in
rapporto   agli   ordinamenti   processuali   di  tipo  integralmente
accusatorio,  nei  quali l'assoluzione o la condanna conseguono ad un
verdetto  non  motivato; inoltre, dopo la sentenza di primo grado, la
ventilata  «disparita'  delle forze» non sussisterebbe piu', dato che
«l'accusa  non  puo'  piu' perquisire, intercettare, sequestrare», ma
«soltanto argomentare».
    Onde legittimare, sul piano della ragionevolezza, i neointrodotti
limiti   al  potere  di  impugnazione  del  pubblico  ministero,  non
gioverebbe   nemmeno   invocare   i   principi  del  contraddittorio,
dell'oralita'  e  dell'immediatezza,  avuto  riguardo al fatto che il
giudice  di  appello  -  diversamente  da  quello  di  primo  grado -
procederebbe  ad  una  valutazione  delle  prove  di  tipo  meramente
«cartolare».  Tale  asserzione  non  corrisponderebbe  a  verita'  in
rapporto  ad un buon numero di processi a base «cartolare» (quali, ad
esempio,  quelli celebrati con il rito abbreviato). Soprattutto, essa
si  tradurrebbe  in  un  argomento  che «prova troppo»: rimarrebbe da
spiegare,   infatti,   perche'   un   «giudizio   sulle   carte»   di
proscioglimento  abbia  maggiore  dignita'  di un analogo giudizio di
condanna;  sicche',  a  seguirlo  fino in fondo, l'argomento dovrebbe
comportare l'inappellabilita' di tutte le sentenze.
    Costituirebbe,    infine,    «pura    petizione   di   principio»
l'affermazione  secondo cui il proscioglimento a seguito del giudizio
di primo grado farebbe sorgere, in ogni caso, un «ragionevole dubbio»
circa   la   colpevolezza  dell'imputato,  impedendo  quindi  che  si
concretizzi  il  presupposto  per  la  pronuncia  di  una sentenza di
condanna ai sensi del novellato art. 533, comma 1, cod. proc. pen. Il
dubbio  derivante  dalla  difformita'  degli  esiti  dei due gradi di
giudizio  sarebbe,  difatti, necessariamente insito in un ordinamento
che  preveda piu' gradi di giurisdizione di merito; d'altro canto, se
l'appellabilita' della sentenza di condanna da parte dell'imputato si
giustifica  a  fronte  della  possibilita'  che la decisione di primo
grado   sia   errata,  non  si  comprenderebbe  perche'  una  analoga
eventualita'   non  debba  imporre,  per  il  principio  di  parita',
l'appellabilita' delle sentenze di assoluzione.
    Nessuna ragionevole giustificazione potrebbe scorgersi, poi, alla
base   dell'evidenziata   disparita'   di  trattamento  del  pubblico
ministero   rispetto   alla  parte  civile,  posto  che  quest'ultima
persegue,  nel  processo penale, un interesse meramente risarcitorio,
che  potrebbe essere bene azionato davanti al giudice civile: quando,
invece,  il  pubblico  ministero e' la parte pubblica che «fa valere,
anche  in  sede  di  impugnazione,  la pretesa punitiva dello Stato e
l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato dal reato».

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  di  appello  di  Roma dubita della legittimita'
costituzionale   dell'art. 1  della  legge  20 febbraio  2006,  n. 46
(Modifiche   al   codice   di   procedura   penale,   in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui,  sostituendo  l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude
che  il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze
di   proscioglimento,   salvo   che  ricorrano  le  ipotesi  previste
dall'art. 603,  comma 2, cod. proc. pen. - ossia quando sopravvengano
o  si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado - e sempre
che tali prove siano decisive.
    Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe
incompatibile  con  gli  artt. 3  e  24 Cost., giacche' - consentendo
all'imputato  di  appellare  contro  le  sentenze  di condanna, senza
accordare  al  pubblico  ministero  lo  speculare  potere di proporre
appello  contro  le  sentenze  assolutorie,  se  non  in  una ipotesi
talmente  circoscritta da apparire «poco piu' che teorica» - porrebbe
l'imputato  in  «una posizione di evidente favore nei confronti degli
altri  componenti  la collettivita», i cui interessi vengono tutelati
dal  diritto-dovere  del  pubblico  ministero  di esercitare l'azione
penale, impedendo, al tempo stesso, una esplicazione adeguata di tale
tutela.
    Verrebbe  violato,  inoltre,  il precetto dell'art. 111 Cost., in
forza del quale ogni processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra
le  parti,  in  condizioni  di  parita' davanti ad un giudice terzo e
imparziale»,   in   quanto  la  norma  denunciata  non  consentirebbe
all'accusa  di  far  valere le sue ragioni con strumenti simmetrici a
quelli di cui dispone la difesa.
    La  medesima  norma  eluderebbe,  da ultimo, il vincolo posto dal
principio di obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui
dovrebbe  ritenersi  connaturata la previsione di un secondo grado di
giudizio di merito anche a favore del pubblico ministero.
    2.  -  La  Corte  di  appello  di  Milano  dubita anch'essa della
legittimita'  costituzionale,  in  parte qua, dell'art. 1 della legge
n. 46   del   2006,   coinvolgendo   peraltro   nello   scrutinio  di
costituzionalita' anche la norma transitoria di cui all'art. 10 della
medesima legge. Quest'ultima norma viene censurata nella parte in cui
rende  applicabile la nuova disciplina nei procedimenti in corso alla
data  della  sua  entrata  in vigore, stabilendo, in particolare - ai
commi 2  e  3  -  che  l'appello gia' proposto dal pubblico ministero
contro  una  sentenza  di  proscioglimento  debba  essere  dichiarato
inammissibile,  salva la facolta' dell'appellante di proporre, in sua
vece,  ricorso  per  cassazione  entro  quarantacinque  giorni  dalla
notifica del provvedimento di inammissibilita'.
    Dette   disposizioni  -  a  giudizio  della  Corte  rimettente  -
violerebbero  gli  artt. 3  e  111,  secondo  comma, Cost., in quanto
accorderebbero  al  pubblico  ministero  un  trattamento  palesemente
deteriore  sia  rispetto  all'imputato,  che  e'  ammesso  a proporre
appello  avverso  le  sentenze  di  condanna; sia rispetto alla parte
civile,  la  quale,  in  base  all'art. 576  cod.  proc.  pen.,  come
modificato   dall'art. 6   della   stessa   legge   n. 46  del  2006,
conserverebbe  invece  -  secondo  il  giudice  a  quo - il potere di
appellare contro le sentenze di proscioglimento.
    Tale  asimmetria non risulterebbe assistita da alcuna ragionevole
giustificazione, che valga a renderla compatibile con il principio di
parita'  delle  parti nel processo, in rapporto ad esigenze di tutela
di altri valori di rango costituzionale.
    Quanto,  infatti,  alla  disparita'  di  trattamento tra accusa e
difesa,  la  scelta  legislativa  non  potrebbe trovare un fondamento
razionale  nell'interesse dell'imputato ad una rapida definizione del
processo a suo carico: interesse che non potrebbe essere realizzato a
mezzo   di   una   mera  menomazione  dei  poteri  della  controparte
processuale.  Ne'  tale  scelta  potrebbe  fondarsi  su di un preteso
diritto dell'imputato medesimo ad un doppio grado di giurisdizione di
merito   in   caso   di   condanna:   diritto  in  realta'  privo  di
riconoscimento   tanto  nella  Costituzione,  che  nelle  convenzioni
internazionali  in tema di diritti dell'uomo cui l'Italia ha aderito.
Ne',  ancora,  essa  potrebbe  fondarsi sull'ipotetico incremento del
rischio  della  condanna  di  un  innocente, indotto dall'appello del
pubblico  ministero  contro  la  sentenza di proscioglimento a fronte
della  «disparita'  di  forze  in  gioco»,  posto  che  la  ventilata
«disparita'  di  forze»  verrebbe  comunque  meno dopo la sentenza di
primo grado.
    Del  pari,  non  varrebbe evocare i principi del contraddittorio,
dell'oralita'  e  dell'immediatezza,  in  rapporto  alla  valutazione
puramente «cartolare» del materiale probatorio operata dal giudice di
appello:  giacche'  - al di la' del rilievo che numerosi processi (ad
esempio,  quelli  celebrati  con  il  rito  abbreviato)  sono  a base
«cartolare»  in  entrambi i gradi di giudizio - non si comprenderebbe
perche'  un  «giudizio sulle carte» di proscioglimento abbia maggiore
dignita'  di  un  analogo  giudizio di condanna; sicche', ove portato
alle   sue  logiche  conseguenze,  l'argomento  dovrebbe  determinare
l'inappellabilita' di tutte le sentenze.
    Ne'  avrebbe pregio l'assunto per cui il proscioglimento in primo
grado non consentirebbe comunque di ritenere l'imputato colpevole «al
di  la'  di  ogni  ragionevole  dubbio»  - come attualmente richiesto
dall'art. 533,  comma 1,  cod.  proc.  pen.  ai fini della condanna -
posto  che  la possibile difformita' degli esiti del giudizio sarebbe
necessariamente   insita   nella   previsione   di   piu'   gradi  di
giurisdizione  di  merito.  D'altra  parte, se l'appellabilita' della
sentenza   di   condanna  da  parte  dell'imputato  trova  fondamento
nell'eventualita'  che  la  decisione  di primo grado sia errata, una
analoga  eventualita' non potrebbe non giustificare, per il principio
di parita', l'appellabilita' anche delle sentenze di assoluzione.
    Manifestamente   illogica   risulterebbe,  infine,  l'evidenziata
disparita'  di  trattamento  rispetto  alla parte civile, la quale e'
portatrice,   nel   processo   penale,   di  un  interesse  meramente
risarcitorio,  utilmente azionabile davanti al giudice civile: mentre
il  pubblico  ministero  e' la parte pubblica che fa valere, anche in
sede  di  impugnazione, la pretesa punitiva dello Stato e l'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine violato dal reato.
    3.  -  Le  ordinanze  di rimessione sollevano analoghe questioni,
onde  i  relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica
decisione.
    4.  -  In  riferimento  all'art. 111,  secondo  comma,  Cost., la
questione e' fondata.
    Giova  premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da
questa  Corte,  il  secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito dalla
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi
del  giusto  processo  nell'articolo 111  della Costituzione) - nello
stabilire  che  «ogni  processo  si svolge nel contraddittorio tra le
parti,  in  condizioni di parita» - abbia conferito veste autonoma ad
un  principio,  quello  di  parita'  delle parti, «pacificamente gia'
insito  nel  pregresso  sistema dei valori costituzionali» (ordinanze
n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
    Anche  dopo  la novella costituzionale, resta pertanto pienamente
valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della
Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363
del  1991;  ordinanze  n. 426  del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del
1992)  -  secondo  la  quale,  nel  processo  penale, il principio di
parita'  tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita'
tra   i   poteri   processuali   del   pubblico  ministero  e  quelli
dell'imputato:  potendo  una  disparita'  di  trattamento  «risultare
giustificata,  nei  limiti  della ragionevolezza, sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della  giustizia»  (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165
del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
    Alla   luce   di  tale  consolidato  indirizzo,  le  fisiologiche
differenze  che connotano le posizioni delle due parti necessarie del
processo  penale, correlate alle diverse condizioni di operativita' e
ai  differenti  interessi  dei  quali,  anche  alla luce dei precetti
costituzionali,  le  parti  stesse sono portatrici - essendo l'una un
organo  pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di
interessi  collettivi;  l'altra  un  soggetto  privato  che difende i
propri   diritti   fondamentali   (in   primis,  quello  di  liberta'
personale),  sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna
- impediscono di ritenere che il principio di parita' debba (e possa)
indefettibilmente  tradursi,  nella  cornice di ogni singolo segmento
dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'.
Alterazioni  di  tale  simmetria  -  tanto  nell'una  che  nell'altra
direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella
privata)  -  sono  invece compatibili con il principio di parita', ad
una  duplice  condizione:  e,  cioe', che esse, per un verso, trovino
un'adeguata   ratio   giustificatrice  nel  ruolo  istituzionale  del
pubblico  ministero,  ovvero  in  esigenze  di  funzionale e corretta
esplicazione  della  giustizia  penale,  anche  in vista del completo
sviluppo  di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per
un  altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di
complessivo  riequilibrio  dei poteri, avuto riguardo alle disparita'
di  segno  opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da
quelle  in  cui  s'innesta  la singola norma discriminatrice avuta di
mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro
i limiti della ragionevolezza.
    Tale  vaglio  di  ragionevolezza  va evidentemente condotto sulla
base  del  rapporto  comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo
caso,  la  norma  generatrice  della  disparita'  e  l'ampiezza dello
«scalino»  da  essa  creato  tra  le  posizioni  delle parti: mirando
segnatamente   ad   acclarare   l'adeguatezza   della   ratio   e  la
proporzionalita'   dell'ampiezza   di   tale   «scalino»  rispetto  a
quest'ultima. Siffatta verifica non puo' essere pretermessa, se non a
prezzo  di  un  sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola
della  parita' delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che
la  posizione  di  vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l'organo
dell'accusa  nella  fase  delle indagini preliminari, sul piano della
ricchezza  degli strumenti investigativi - posizione di vantaggio che
riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche
al   carattere   «invasivo»   e  «coercitivo»  di  determinati  mezzi
d'indagine  -  abiliti  di  per  se'  sola il legislatore, in nome di
un'esigenza  di  «riequilibrio», a qualsiasi deminutio, anche la piu'
radicale,  dei  poteri del pubblico ministero nell'ambito di tutte le
successive  fasi.  Una  simile  impostazione  -  negando,  di  fatto,
l'esistenza   di   limiti   di   compatibilita'  costituzionale  alla
distribuzione   asimmetrica   delle   facolta'   processuali   tra  i
contendenti  -  priverebbe  di  ogni  concreta valenza la clausola di
parita': risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua
attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale.
    5.   -   All'indicata  chiave  di  lettura  si  e',  in  effetti,
costantemente  ispirata  la  giurisprudenza  di questa Corte relativa
alla  tematica  -  che  viene  qui  specificamente in rilievo - delle
possibili  dissimmetrie  a sfavore del pubblico ministero in punto di
poteri di impugnazione.
    5.1.   -   Nello   scrutinare   le   questioni   di  legittimita'
costituzionale  sollevate  a  tal  proposito,  questa Corte ha sempre
recepito  come  corretta la premessa fondante di esse: che, cioe', la
disciplina  delle  impugnazioni,  quale  capitolo  della  complessiva
regolamentazione  del  processo, si collochi anch'essa - sia pure con
le  peculiarita'  che  poco  oltre si evidenzieranno - entro l'ambito
applicativo  del  principio di parita' delle parti; premessa, questa,
la cui validita' deve essere confermata.
    Il  principio  in  parola  non  e'  infatti  suscettibile  di una
interpretazione  riduttiva,  quale  quella  che  -  facendo  leva, in
particolare, sulla connessione proposta dall'art. 111, secondo comma,
Cost.  tra  parita'  delle  parti,  contraddittorio,  imparzialita' e
terzieta' del giudice - intendesse negare alla parita' delle parti il
ruolo  di  connotato  essenziale dell'intero processo, per concepirla
invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e cio'
al  fine  di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del quale le
parti  dovrebbero  indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il
ricorso   per   cassazione   per   violazione   di   legge,  previsto
dall'art. 111, settimo comma, Cost.
    Una  simile  ricostruzione  finirebbe  difatti  per attribuire al
principio  di  parita'  delle  parti,  in  luogo  del  significato di
riaffermazione  processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost., una
antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno
plausibile  a fronte del tenore letterale della norma costituzionale,
nella   quale  la  parita'  delle  parti  e'  enunciata  come  regola
generalissima,  riferita  indistintamente  ad «ogni processo» e senza
alcuna   limitazione   a  determinati  momenti  o  aspetti  dell'iter
processuale. Ne' puo' trarsi argomento, in contrario, dallo specifico
risalto  che  il  legislatore  costituzionale  ha inteso assegnare al
valore  del  contraddittorio  nel  processo  penale,  attestato dalle
puntuali  «direttive»  al  riguardo impartite nel quarto e nel quinto
comma  dell'art. 111  Cost.:  non potendosi ritenere, anche sul piano
logico,   che   tale   distinto   valore   -   anziche'  affiancarsi,
rafforzandolo,  al  principio di parita' - sia destinato ad esplicare
un  ruolo  limitativo  del  medesimo;  cosi'  da legittimare l'idea -
palesemente  inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale,
ad  esempio,  il  processo  civile - per cui, nel processo penale, la
clausola  di  parita' opererebbe solo nei confini del procedimento di
formazione della prova.
    5.2. - Cio' posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto
attiene  alla  disciplina delle impugnazioni, parita' delle parti non
significa,  nel  processo penale, necessaria omologazione di poteri e
facolta'.
    A tal proposito - sulla premessa che la garanzia del doppio grado
di   giurisdizione   non  fruisce,  di  per  se',  di  riconoscimento
costituzionale  (ex  plurimis,  sentenza  n. 280  del 1995; ordinanza
n. 316  del  2002)  - questa Corte ha in particolare rilevato come il
potere  di  impugnazione  nel merito della sentenza di primo grado da
parte  del  pubblico ministero presenti margini di «cedevolezza» piu'
ampi,  a  fronte  di  esigenze  contrapposte,  rispetto  a quelli che
connotano   il   simmetrico   potere   dell'imputato.  Il  potere  di
impugnazione   della   parte   pubblica   trova,  infatti,  copertura
costituzionale   unicamente   entro  i  limiti  di  operativita'  del
principio  di  parita'  delle  parti  - «flessibile» in rapporto alle
rationes  dianzi  evidenziate  -  non potendo essere configurato come
proiezione necessaria del principio di obbligatorieta' dell'esercizio
dell'azione  penale,  di  cui all'art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del
1995;  ordinanze  n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e
n. 426  del  1998);  mentre  il  potere di impugnazione dell'imputato
viene  a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto
di  difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di
fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994).
    Cio'  non  toglie,  tuttavia,  che  le  eventuali menomazioni del
potere  di  impugnazione  della pubblica accusa, nel confronto con lo
speculare  potere  dell'imputato, debbano comunque rappresentare - ai
fini  del  rispetto  del  principio  di parita' - soluzioni normative
sorrette   da   una   ragionevole  giustificazione,  nei  termini  di
adeguatezza  e  proporzionalita'  dianzi  lumeggiati:  non  potendosi
ritenere,  anche  su questo versante - se non a prezzo di svuotare di
significato  l'enunciazione  di  detto  principio  con riferimento al
processo  penale  -  che  l'evidenziata maggiore «flessibilita» della
disciplina   del   potere  di  impugnazione  del  pubblico  ministero
legittimi  qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in
radice,  le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di
costituzionalita'.
    5.3.  - In simile ottica, questa Corte si e' quindi ripetutamente
pronunciata  - tanto prima che dopo la modifica dell'art. 111 Cost. -
nel  senso  della  compatibilita'  con  il principio di parita' delle
parti  della  norma  che  escludeva  l'appello del pubblico ministero
avverso  le  sentenze  di  condanna  emesse  a  seguito  di  giudizio
abbreviato, anche nella sola forma dell'appello incidentale, salvo si
trattasse  di  sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443,
comma 3, e 595 cod. proc. pen.).
    Al  riguardo,  si  e'  infatti osservato come la soppressione del
potere  della  parte  pubblica  di impugnare nel merito decisioni che
segnavano  «comunque  la  realizzazione  della pretesa punitiva fatta
valere  nel  processo  attraverso  l'azione  intrapresa» - essendo lo
scarto   tra   la  richiesta  dell'accusa  e  la  sentenza  sottratta
all'appello  non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo»
-  risultasse  razionalmente giustificabile alla luce dell'«obiettivo
primario  di  una rapida e completa definizione dei processi svoltisi
in  primo  grado  secondo  il  rito  alternativo  di  cui  si tratta»
(sentenza  n. 363  del  1991;  ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del
1991):  rito  che - sia pure per scelta esclusiva dell'imputato, dopo
le  modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - «implica
una  decisione  fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto
dalla  parte  che  subisce  la  limitazione  censurata,  fuori  delle
garanzie  del  contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
    Tali  caratteristiche  del giudizio abbreviato - che conferiscono
un   particolare   risalto   alla   dissimmetria  di  segno  opposto,
riscontrabile  a  favore  del  pubblico  ministero  nella  fase delle
indagini   preliminari,   le   cui   risultanze   sono   direttamente
utilizzabili  ai  fini  della  decisione  (al  riguardo,  si  veda la
sentenza  n. 98  del  1994)  -  valevano, dunque, a rendere la scelta
normativa  in  discorso «incensurabile sul piano della ragionevolezza
in  quanto  proporzionata  al  fine  preminente  della speditezza del
processo»  (sentenza  n. 363  del  1991).  Fine  al quale non avrebbe
potuto  essere  invece sacrificato - per la ragione dianzi indicata -
lo speculare potere di impugnazione dell'imputato (sentenza n. 98 del
1994).
    6.  -  Ben diversa e' la situazione nel caso oggetto dell'odierno
scrutinio di costituzionalita'.
    6.1.  -  Al di sotto dell'assimilazione formale delle parti - «il
pubblico  ministero e l'imputato possono appellare contro le sentenze
di  condanna» (ergo, non contro quelle di proscioglimento) - la norma
censurata   racchiude   una   dissimmetria   radicale.  A  differenza
dell'imputato,  infatti,  il  pubblico  ministero  viene  privato del
potere  di  proporre  doglianze  di merito avverso la sentenza che lo
veda  totalmente  soccombente,  negando per integrum la realizzazione
della  pretesa  punitiva  fatta  valere  con  l'azione intrapresa, in
rapporto a qualsiasi categoria di reati.
    Ne'  varrebbe,  al  riguardo,  opporre  che  l'inappellabilita' -
sancita  per entrambe le parti - delle sentenze di proscioglimento si
presta  a  sacrificare  anche l'interesse dell'imputato, segnatamente
allorche'   il   proscioglimento   presupponga   un  accertamento  di
responsabilita'  o  implichi  effetti  sfavorevoli.  Tale conseguenza
della riforma - in ordine alla quale sono stati prospettati ulteriori
e  diversi  problemi  di  costituzionalita',  di  cui la Corte non e'
chiamata  ad  occuparsi  in  questa  sede - non incide comunque sulla
configurabilita' della rilevata sperequazione, per cui una sola delle
parti,  e  non l'altra, e' ammessa a chiedere la revisione nel merito
della pronuncia a se' completamente sfavorevole.
    E' evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se
non  in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui
al  comma 2  dell'art. 593  cod.  proc.  pen.,  in  forza della quale
l'appello  contro  le sentenze di proscioglimento e' ammesso nel caso
di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio
di  primo  grado:  previsione  non presente nel testo originariamente
approvato  dal  Parlamento,  ma introdotta a fronte dei rilievi su di
esso  formulati  dal  Presidente  della  Repubblica  con il messaggio
trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell'art. 74, primo
comma,  Cost.,  nel  quale  si  era  segnalato, tra l'altro, come «la
soppressione   dell'appello   delle   sentenze   di  proscioglimento»
determinasse  -  stante  la  «disorganicita'  della  riforma»  -  una
condizione  di  disparita' «delle parti nel processo [...] che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse». Risulta, infatti, palese come l'ipotesi considerata -
sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve
termine per impugnare (art. 585 cod. proc. pen.) - presenti connotati
di   eccezionalita'   tali   da   relegarla   a   priori  ai  margini
dell'esperienza   applicativa   (oltre  a  non  coprire,  ovviamente,
l'errore di valutazione nel merito).
    Altrettanto  evidente,  ancora, e' come l'eliminazione del potere
di  appello  del  pubblico ministero non possa ritenersi compensata -
per   il   rispetto   del   principio   di   parita'  delle  parti  -
dall'ampliamento    dei    motivi   del   ricorso   per   cassazione,
parallelamente  operato  dalla stessa legge n. 46 del 2006 (lettere d
ed  e  dell'art. 606,  comma 1,  cod.  proc.  pen.,  come  sostituite
dall'art. 8   della   legge):   e  cio'  non  soltanto  perche'  tale
ampliamento  e' sancito a favore di entrambe le parti, e non del solo
pubblico  ministero;  ma  anche e soprattutto perche' - quale che sia
l'effettiva  portata  dei  nuovi  e  piu'  ampi casi del ricorso - il
rimedio  non  attinge  comunque  alla pienezza del riesame di merito,
consentito dall'appello.
    6.2.  - La rimozione del potere di appello del pubblico ministero
si presenta, per altro verso, generalizzata e «unilaterale».
    E'  generalizzata,  perche' non e' riferita a talune categorie di
reati,  ma  e' estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che
la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell'imputato,
in   caso   di  soccombenza,  anche  quando  si  tratti  di  illeciti
bagatellari  - salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze
di  condanna  alla  sola  pena  dell'ammenda (art. 593, comma 3, cod.
proc.  pen;  si veda, altresi', per i reati di competenza del giudice
di  pace,  l'art. 37  del  d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) - fa invece
cadere  quello  della  pubblica  accusa  anche  quando si discuta dei
delitti  piu'  severamente  puniti e di maggiore allarme sociale, che
coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale.
    E'    «unilaterale»,   perche'   non   trova   alcuna   specifica
«contropartita»  in particolari modalita' di svolgimento del processo
-  come  invece nell'ipotesi gia' scrutinata dalla Corte in relazione
al  rito  abbreviato,  caratterizzata  da  una  contrapposta rinuncia
dell'imputato  all'esercizio di proprie facolta', atta a comprimere i
tempi   processuali   -  essendo  sancita  in  rapporto  al  giudizio
ordinario,  nel  quale l'accertamento e' compiuto nel contraddittorio
delle  parti,  secondo  le generali cadenze prefigurate dal codice di
rito.
    7.  -  A fronte delle evidenziate connotazioni, l'alterazione del
trattamento  paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame,
non   puo'   essere   giustificata,   in  termini  di  adeguatezza  e
proporzionalita',  sulla  base  delle  rationes che, alla stregua dei
lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma.
    7.1.  -  A  sostegno  della  soluzione normativa censurata, si e'
rilevato,  anzitutto, che l'avvenuto proscioglimento in primo grado -
rafforzando  la  presunzione  di  non  colpevolezza - impedirebbe che
l'imputato,  gia'  dichiarato  innocente  da un giudice, possa essere
considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli «al di
la'  di  ogni  ragionevole dubbio», secondo quanto richiesto, ai fini
della   condanna,  dall'art. 533,  comma 1,  cod.  proc.  pen.,  come
novellato  dall'art. 5  della  stessa legge n. 46 del 2006. In simile
situazione,  la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare
un individuo gia' risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una
connotazione  «persecutoria»,  contraria  ai  «principi  di uno Stato
democratico»  (in questo senso, in particolare, l'illustrazione della
proposta  di  legge  A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione
giustizia della Camera dei deputati).
    Al   riguardo,   e'   peraltro   sufficiente  osservare  come  la
sussistenza  o  meno  della  colpevolezza dell'imputato «al di la' di
ogni   ragionevole   dubbio»   rappresenti   la   risultante  di  una
valutazione:  e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di
merito  trova la sua giustificazione proprio nell'opportunita' di una
verifica  piena  della  correttezza  delle valutazioni del giudice di
primo  grado,  che  non  avrebbe  senso  dunque  presupporre  esatte,
equivalendo   cio'   a   negare   la   ragione  stessa  dell'istituto
dell'appello.  In  effetti,  se  il doppio grado mira a rafforzare un
giudizio  di  «certezza»,  esso  non puo' non riflettersi sui diversi
approdi  decisori  cui  il  giudizio  di  primo grado puo' pervenire:
quello  di  colpevolezza,  appunto, ma, evidentemente, anche quello -
antitetico - di innocenza.
    In  tale  ottica,  l'iniziativa del pubblico ministero volta alla
verifica  dei  possibili  (ed  eventualmente,  anche evidenti) errori
commessi   dal   primo   giudice,   nel   negare  la  responsabilita'
dell'imputato,  non  puo'  qualificarsi, in se', «persecutoria»; essa
ha,  infatti,  come  scopo  istituzionale  quello  di  assicurare  la
corretta  applicazione  della  legge  penale  nel  caso  concreto e -
tramite   quest'ultima  -  l'effettiva  attuazione  dei  principi  di
legalita'  e  di  eguaglianza,  nella  prospettiva  della  tutela dei
molteplici  interessi,  connessi  anche a diritti fondamentali, a cui
presidio sono poste le norme incriminatrici.
    7.2.  -  A  fondamento  della  scelta  legislativa in esame viene
allegata,  per  altro  verso,  l'esigenza di uniformare l'ordinamento
italiano  alle previsioni dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle  liberta'  fondamentali,  adottato  a Strasburgo il 22 novembre
1984,  ratificato  e  reso  esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98;
nonche'  dell'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo
ai  diritti  civili  e  politici,  adottato a New York il 16 dicembre
1966,  ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Tali   norme  internazionali  pattizie  prevedono  che  ogni  persona
condannata  per  un  reato  ha diritto a che l'accertamento della sua
colpevolezza   o  la  condanna  siano  riesaminati  da  un  tribunale
superiore  o  di  seconda  istanza:  principio  che  -  si sostiene -
verrebbe  vulnerato  nel  caso  di  condanna dell'imputato in secondo
grado,  conseguente  all'appello  del  pubblico  ministero avverso la
sentenza   di  proscioglimento  emessa  in  primo  grado  (in  questa
prospettiva,  si  veda  la  relazione del proponente alla proposta di
legge A.C. 4604).
    Con  riguardo  ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro,
gia'  in  precedenza  a  rilevare  come  il  riesame  ad  opera di un
tribunale  superiore,  da  esse  previsto a favore dell'imputato, non
debba  necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziche'
con  il ricorso per cassazione; e cio' perche' l'obiettivo perseguito
e'  quello di «assicurare comunque un'istanza davanti alla quale fare
valere  eventuali  errori  in  procedendo o in iudicando commessi nel
primo  giudizio,  con  la  conseguenza  che  il  riesame  nel  merito
interverra'  solo  ove  tali  errori  risultino  accertati» (sentenza
n. 288  del  1997; si veda, altresi', la sentenza n. 62 del 1981). Al
riguardo, non e', d'altro canto, senza significato la circostanza che
il  legislatore  costituzionale del 1999 - nel riformulare l'art. 111
Cost.,  nell'ottica  di  un  suo  adeguamento ai principi del «giusto
processo»   -  non  sia  intervenuto  sul  tema  delle  impugnazioni,
continuando  a  riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di
legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto.
    Dirimente   e',   peraltro,  il  rilievo  che,  alla  luce  della
disciplina   -   piu'  recente  ed  analitica  di  quella  del  Patto
internazionale  -  dell'art. 2  del  Protocollo addizionale n. 7 alla
Convezione   europea   (su   cui  soprattutto  fanno  leva  i  lavori
parlamentari),  il  diritto  della persona dichiarata colpevole di un
reato  al  riesame  della  «dichiarazione di colpa o di condanna», da
parte  di  un tribunale superiore, puo' essere oggetto di eccezioni -
oltre  che  «in  caso  di  infrazioni minori» e «in casi nei quali la
persona  interessata  sia  stata  giudicata  in  prima  istanza da un
tribunale  della giurisdizione piu' elevata» - anche quando essa «sia
stata  dichiarata  colpevole  e  condannata  a  seguito di un ricorso
avverso  il  suo  proscioglimento»  (paragrafo  2 del citato art. 2).
Quest'ultima   eccezione  presuppone,  evidentemente,  che  la  legge
interna  contempli  un potere di impugnazione contra reum, e quindi a
favore    dell'organo   dell'accusa;   essa   implica   pertanto   il
riconoscimento   che   tale  potere  -  anche  quando  si  tratti  di
impugnazione  di  merito  -  e'  compatibile con il sistema di tutela
delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto
conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell'Europa
continentale.
    7.3.  - Si pone l'accento, da ultimo, sul rapporto solo «mediato»
che  il giudice dell'appello ha con le prove (in tale ottica, si veda
nuovamente  la  citata  illustrazione  dei relatori della proposta di
legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione
di  diminuita  garanzia  -  in  rapporto  ai  principi  di oralita' e
immediatezza,  ispiratori del processo penale nel modello accusatorio
-  un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un giudice
(quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova
nel  contraddittorio  fra  le  parti,  puo' essere ribaltata da altro
giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una
prova prevalentemente scritta.
    Ai    fini    della   risoluzione   dell'odierno   incidente   di
costituzionalita',   non   e'   peraltro   necessario  scrutinare  la
condivisibilita' o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni
interne  al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento
di  impugnazioni  di  tipo  tradizionale nell'ambito di un processo a
carattere  tendenzialmente  accusatorio.  A prescindere, difatti, dal
rilievo  che  l'ipotizzata  distonia del sistema - ove effettivamente
riscontrabile  -  sussisterebbe  anche  in  rapporto alle sentenze di
condanna,  per  le  quali il pubblico ministero mantiene il potere di
appello,  avuto  riguardo  alla  possibile  modifica  in  peius della
decisione  da  parte del giudice di secondo grado come conseguenza di
divergenti  valutazioni  di  fatto  (le quali portino, ad esempio, al
mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza
aggravante);   e'   assorbente   la  considerazione  che  il  rimedio
all'eventuale   deficit   delle  garanzie  che  assistono  una  parte
processuale  va  rinvenuto  -  in  via preliminare - in soluzioni che
escludano  quel  difetto,  e  non gia' in una eliminazione dei poteri
della  parte  contrapposta  che  generi  un radicale squilibrio nelle
rispettive posizioni.
    All'obiezione,  poi,  che  le  possibili soluzioni alternative al
problema   dianzi  evidenziato,  almeno  ove  calibrate  sull'attuale
assetto del sistema delle impugnazioni, peserebbero negativamente sui
tempi  di  definizione del giudizio, e' agevole replicare che neppure
la  ragionevole  durata  del  processo  - principio che, per costante
affermazione  di questa Corte, va contemperato con il complesso delle
altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004;
ordinanze  n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n. 458 e n. 519
del  2002) - puo' essere perseguita, come nella specie, attraverso la
totale  soppressione  di  rilevanti  facolta' processuali di una sola
delle  parti. E cio' a prescindere dalla possibilita' - da piu' parti
prospettata  e che resta aperta alla valutazione del legislatore - di
una  revisione  organica  del  regime  delle  impugnazioni, intesa ad
eliminare  le  tensioni  da  cui,  per  quanto accennato, il problema
stesso trae origine.
    8.  -  Nel  suo  carattere  settoriale,  per  contro,  la novella
censurata   ha,   inoltre,  alterato  il  rapporto  paritario  tra  i
contendenti  con  modalita'  tali da determinare anche una intrinseca
incoerenza del sistema.
    Per  effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero
totalmente  soccombente  in  primo  grado  resta  privo del potere di
proporre  appello,  detto  potere viene invece conservato dall'organo
dell'accusa  nel  caso  di  soccombenza  solo parziale, vuoi in senso
«qualitativo»  (sentenza  di  condanna  con  mutamento del titolo del
reato  o  con  esclusione  di  circostanze aggravanti), vuoi anche in
senso  meramente «quantitativo» (sentenza di condanna a pena ritenuta
non congrua).
    9. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque
ribadire  che,  nella  cornice  dei valori costituzionali, la parita'
delle   parti   non   corrisponde   necessariamente   ad  una  eguale
distribuzione  di  poteri e facolta' fra i protagonisti del processo.
In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni
-   ferma   restando  la  possibilita'  per  il  legislatore,  dianzi
accennata,  di  una  generale  revisione  del ruolo e della struttura
dell'istituto  dell'appello - non contraddice, comunque, il principio
di  parita'  l'eventuale differente modulazione dell'appello medesimo
per  l'imputato e per il pubblico ministero, purche' essa avvenga nel
rispetto   del  canone  della  ragionevolezza,  con  i  corollari  di
adeguatezza e proporzionalita', che si sono a piu' riprese ricordati.
    Nella  specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina
impugnata  ai  poteri  della parte pubblica, nel confronto con quelli
speculari   dell'imputato,   eccede   il   limite  di  tollerabilita'
costituzionale,  in  quanto  non  sorretta  da  una ratio adeguata in
rapporto  al  carattere  radicale,  generale  e  «unilaterale»  della
menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato -
intrinsecamente  contraddittoria  rispetto al mantenimento del potere
di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
    Le  residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza
assorbite.
    10.  -  L'art. 1  della  legge  n. 46  del  2006  va  dichiarato,
pertanto,   costituzionalmente   illegittimo   nella  parte  in  cui,
sostituendo  l'art. 593  cod.  proc.  pen.,  esclude  che il pubblico
ministero  possa  appellare  contro  le  sentenze di proscioglimento,
fatta  eccezione  per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del
medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva.
    Correlativamente,  va  dichiarata l'illegittimita' costituzionale
anche dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella
parte  in  cui  prevede che l'appello proposto contro una sentenza di
proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in
vigore della medesima legge e' dichiarato inammissibile.