LA CORTE DI APPELLO Sulla eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006, proposta all'odierna udienza dal procuratore generale; Osserva in fatto Con sentenza emessa in data 5 ottobre 2005 all'esito di giudizio abbreviato il giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale di Bergamo ha affermato la penale responsabilita' di Varano Francesco e Musat Gheorghita in ordine al delitto di cui all'atr. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990, commesso in Ghisalba il 15 marzo 2005. Riconosciuta a Musat l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, d.P.R. citato, prevalente, insieme alle attenuanti generiche, sull'aggravante di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. stesso, ed a Varano le sole attenuanti generiche, equivalenti, ha condannato il primo alla pena di anni uno mesi quattro di reclusione ed euro 13.333 di multa ed il secondo a quella di anni quattro di reclusione ed euro 40.000 di multa, con applicazione, solo per quest'ultimo, della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Con la stessa sentenza il giudicante ha assolto Nica Teodor Adrian dal medesimo addebito per non aver commesso il fatto. Avverso detta sentenza hanno proposto appello il procuratore generale e i difensori di Musat e di Varano. L'Organo dell'accusa si duole della pronuncia assolutoria emessa in favore di Nica Teodor Adrian, che si reputa essere il risultato di incoerenze nella disamina e nella valutazione, anche giuridica, del fatto che ci occupa. Si fa rilevare l'imprecisione nella disamina delle risultanze istruttorie, con particolare riguardo per le dichiarazioni rese da Musat, dalle quali si ricava soltanto che l'imputato aveva appreso del trasporto di hashish solo a carico effettuato e che lo stesso se ne era dissociato, non spettandogli, quindi alcun compenso; che, malgrado cio', questo non si era sottratto al compito di alternarsi al cugino nella guida del pesante autoveicolo. E si sottolinea come il comportamento processuale di Nica sia stato palesemente contraddittorio. Nella delineata situazione, il procuratore generale addebita al giudice per l'udienza preliminare di avere bensi' correttamente privilegiato la versione di Musat, perche' piu' aderente a realta' ed a canoni di logica, ma di avere dalla stessa ricavato conclusioni non condivisibili, ritenendo che al piu' nella condotta di Nica fosse ravvisabile connivenza non punibile. E cio' in palese contrasto con l'essere emerso che il prevenuto si era alternato con Musat alla guida del camion, in guisa da agevolare coscientemente il trasporto dello stupefacente che vi era stato caricato, posto che neppure ha pregio giuridico applicare al caso di specie la categoria astratta della «dissociazione», in presenza di un contributo con causativo all'azione tipica, che il prevenuto ha addirittura direttamente posto in essere, nonche' della consapevolezza di fornire in tal modo un contributo all'azione stessa. All'odierna udienza il procuratore generale, preso atto delle limitazioni alla facolta' di appello del pubblico ministero introdotte dalla sopravvenuta modifica dell'art. 593 c.p.p. per effetto della previsione di cui all'art. 1, legge n. 46/2006, e ritenute dette limitazioni operanti per l'impugnazione in discussione nel presente procedimento, eccepiva illegittimita' costituzionale della norma da ultima citata con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 11 e 112 Cost. Osserva in diritto Con la norma, della cui legittimita' costituzionale il procuratore generale dubita, la disciplina dei casi di appello prevista dall'art. 593 c.p.p. e' stata profondamente modificata con particolare riguardo all'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado, ad eccezione delle sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato e di altre specificamente indicate. La previgente normativa escludeva tale appellabilita' al terzo comma del citato art. 593, sia per il pubblico ministero che per l'imputato, con riferimento alle sentenze relative a contravvenzioni punite con la pena dell'ammenda o con pena alternativa, ed al secondo comma, limitatamente al solo imputato, per le sentenze di proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. Per effetto della recentissima modifica, il secondo comma dell'art. 593, nell'attuale formulazione, consente ora al pubblico ministero ed all'imputato di appellare le sentenze di proscioglimento solo allorche' con i motivi di appello, ai sensi dell'art. 603 cpv. c.p.p., venga richiesta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il carattere della decisivita'; prevedendosi dal punto di vista procedurale che il giudice dell'appello, ove in via preliminare non ammetta la rinnovazione dell'istruttoria, dichiari l'inammissibilita' del gravame, e che entro il termine di quarantacinque giorni dalla notificazione della relativa ordinanza le parti possano proporre ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado. L'art. 10, legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi applicazione per i procedimenti in corso; disponendo che l'atto di appello proposto avverso una sentenza di proscioglimento prima dell'entrata in vigore della nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, e che entro il termine di quarantacinque giorni dalla notificazione di quest'ultima possa essere presentato ricorso per cassazione avverso la decisione di primo grado. Tanto premesso, e richiamando quanto precedentemente esposto sulla vicenda processuale, e' evidente la rilevanza nel presente giudizio della questione proposta dal procuratore generale. Al procedimento in esame, per effetto della citata norma transitoria, deve senz'altro applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di conseguenza l'appello in discussione soggetto a declaratoria di inammissibilita', con la conseguente possibilita', per il pubblico ministero appellante, di esperire il ben diverso e piu' delimitato rimedio del ricorso per cassazione 1). Il requisito della rilevanza dell'eccezione e' dunque sussistente. Altrettanto deve concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore presupposto della non manifesta infondatezza della questione. E' opportuno premettere che, per quanto la novella legislativa abbia ad oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte sia dell'imputato che del pubblico ministero, e' nei confronti di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame in discussione assume portata preponderante e, sostanzialmente, rilievo centrale. All'imputato era invero gia' inibita dalla precedente normativa la possibilita' di appellare sentenze di proscioglimento con formula piena. Ma, a prescindere da questa pur pregnante circostanza, non occorre spendere molte parole per evidenziare come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria, l'interesse ad impugnare si concentri in concreto sul pubblico ministero piu' che sull'imputato. L'incidenza di una siffatta limitazione sui poteri di impugnazione del pubblico ministero non richiede, a sua volta, particolare commento. E' sufficiente osservare come per effetto di essa l'ufficio della pubblica accusa si veda privato nella grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza di proscioglimento in primo grado. L'esercizio di tale potere presuppone infatti, nell'attuale previsione normativa, che nuove prove siano emerse dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta, che esse si presentino come decisive per il giudizio. Ove la marginalita' statistica di una situazione cosi' descritta puo' essere agevolmente apprezzata da chiunque abbia minima esperienza delle cose giudiziarie. Una deprivazione di facolta' processuali di tale portata impone un controllo sulla ragionevolezza della relativa previsione normativa; e cio' soprattutto nel momento in cui le predette facolta'; in quanto riferite alla figura istituzionale del pubblico ministero, si ricollegano a valori di fondamentale rilevanza costituzionale. Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, da parte del pubblico ministero, di cui all'art. 112 Cost. La centralita' del principio in parola nel sistema complessivo della giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non solo dal suo contenuto specifico; ma altresi' dalla sua funzionalita' alla concreta attuazione di valori a loro volta caratterizzati da valenza costituzionale. E' dato acquisito da tempo nella stessa giurisprudenza costituzionale, formatasi sulle norme del codice di procedura penale ora vigente a partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, ufficio non a caso interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del legislatore costituente, sia manifestazione del fondamentale principio di legalita', di cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto sostanziale; in quanto esso esprime, cioe', la necessita' che alla commissione di reati, lesivi di interessi e valori spesso a loro volta di rango costituzionale o comunque di elevata rilevanza sociale, segua l'inflizione di una pena 2). Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost. anche alle parti offese dei reati. Diritto che non puo' ritenersi attuato dalle sole norme connesse all'istituto della costituzione di parte civile nel processo penale; rispetto al quale, a dire il vero, l'art. 6 legge n. 46/2006, modificando l'art. 576 c.p.p. con l'escludere il riferimento operativo della facolta' di impugnazione della parte civile al mezzo di gravame previsto per il pubblico ministero, continua a rendere possibile l'appello di essa parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, sia pure ai soli effetti della responsabilita' civile. L'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle vittime dei reati l'essenziale tutela del loro legittimo interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dalle possibilita' che dette vittime in concreto abbiano di accedere al processo nelle forme dell'azione civile ivi direttamente intrapresa. Detto questo, e' ben vero che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha affermato come il potere di appello del pubblico ministero non possa essere ricondotto all'obbligo di esercitare l'azione penale 3). Ma e' vero altresi' che il principio e' stato dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la facolta' di impugnazione non costituisca «estrinsecazione necessaria» dell'esercizio dell'azione penale 4). Detta facolta' rappresenta dunque non piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario prolungamento dell'azione penale; ma, in questa prospettiva, limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non possono che riverberarsi sulla completezza delle possibilita' di esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto, ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi. Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti di cui le opportunita' di esercizio dell'azione penale sono, per quanto esposto, espressione, diviene assolutamente doveroso interrogarsi sulla possibilita', per il legislatore ordinario, di apporre a detto esercizio limitazioni di tale entita' nell'ambito della normale discrezionalita' legislativa; e sulla necessita', di contro, che una scelta di questo genere debba essere ancorata rigorosamente ad un canone di ragionevolezza. Vi e' pero' anche un altro profilo di rilevanza costituzionale che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che attiene al principio del contraddittorio processuale posto dall'art. 111 Cost. E' appena il caso di precisare che qui non si intende fare riferimento al principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui al quarto comma della norma costituzionale appena citata. Oggetto di attenzione deve essere invece il piu' generale richiamo del secondo comma dell'articolo alla necessita' che il processo si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parita' delle stesse. Il contraddittorio, in vero, assurge qui a valore che pervade il processo nella sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale. Ed e', soprattutto, valore in se' considerato, a prescindere dai contingenti interessi delle parti; il contraddittorio e' binario privilegiato del percorso processuale, garanzia di approssimazione quanto piu' efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la parita' fra le parti, prima che tutela delle stesse, e' oggettiva esigenza di un contraddittorio reale. Se cosi' e', la parita' di cui si parla non puo' che inerire anche alla fase dell'appello; e, nell'ambito di essa, al suo momento introduttivo e fondante, ossia la definizione dei casi in cui e' consentito appellare. Ed allora, non e' chi non veda come la norma della cui legittimita' si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra le parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l'appello in caso di esito assolutorio del giudizio di primo grado, laddove nell'opposto risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa all'imputato piena facolta' di impugnazione. Questa Corte non ignora che la recente giurisprudenza costituzionale 5) ha ritenuto che il principio della parita' nel contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri processuali delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due elementi. Rimane tutto da valutare, quindi, se in concreto la disparita' fra determinati poteri, a cagione della loro rilevanza non alteri in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma costituzionale; e, soprattutto, se di tale disparita' non vada pretesa una giustificazione che la renda ragionevole. In questa ottica, le possibilita' di appello, per quanto detto poc'anzi, ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro impari distribuzione fra le parti rientra dunque fra quelle situazioni nelle quali la non sovrapponibilita' dei poteri processuali pregiudica significativamente il principio del contraddittorio. Anche per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente esaminato, occorre sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto la modifica dell'art. 593 c.p.p. ad un accurato scrutinio di ragionevolezza. Le diverse considerazioni che precedono portano a quello che, a questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la compatibilita' della norma esaminata con il principio di ragionevolezza, desumibile, come e' noto, dall'art. 3 Cost. Ragionevolezza che deve pero' essere valutata nella prospettiva della tollerabilita' del sacrificio che la norma impone agli altri valori costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale, nel suo profilo di stretta funzionalita' ai valori del principio di legalita' sostanziale e del diritto di difesa delle vittime dei reati, ed il principio del contraddittorio nella parita' delle parti, che da' forma al giusto processo. Ebbene, un esame condotto in questa direzione non puo' che condurre ad un giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato da alcuna esigenza meritevole di considerazione. E' da escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie di ragioni corrispondenti o similari a quelle che ispirano la previsione di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale, sotto il profilo del principio del contraddittorio, dalle gia' segnalate decisioni della Corte costituzionale. Quali l'esclusione della possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di impugnazione nella cancelleria del tribunale, diversa dal luogo di emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui all'art. 582 cpv. c.p.p. 6), evidentemente sorretta da motivi di celerita' processuale e comunque posta a fondamento di una limitazione di ben minore consistenza delle facolta' dell'organo dell'accusa; o l'inappellabilita', anche in prospettiva incidentale, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, di cui all'art. 443 comma terzo c.p.p., ove ad analoghe ragioni di speditezza si aggiunge l'intento di favore per l'adozione di riti deflattivi 7). Nel caso di specie, non e' ravvisabile alcun risultato di accelerazione dell'iter processuale che giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero. Neppure puo' attribuirsi rilievo alla particolare posizione istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove favorevoli all'imputato in sede di indagine e da un'obiettiva considerazione degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non vincola l'ufficio dell'accusa a richieste che siano necessariamente intese a sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi rilievi sono infatti superati nel momento in cui ci si trova nella fase processuale a cui attiene la norma in discussione; che presuppone la conseguita determinazione del pubblico ministero di impugnare la pronuncia assolutoria di primo grado per ottenere una sentenza di condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella particolare prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa, nel giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato. Il che da un lato pone il pubblico ministero nella condizione di proseguire in secondo grado nell'esercizio dell'azione penale in attuazione dei valori di legalita' e difesa sociale di cui si e' ampiamente detto; e dall'altro esige che il processo mantenga un equilibrato contraddittorio fra tali ragioni e quelle della difesa dell'imputato, perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita' venga ad essere sottratta al giudizio. Non puo' infine essere invocata, come correttamente osservato dal procuratore generale, la previsione del primo comma dell'art. 2 del protocollo n. 11 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato con legge n. 296/1997. Se e' vero infatti che la citata disposizione prevede che chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un giudice di primo grado ha il diritto di sottoporre ad un ufficio della giurisdizione superiore la dichiarazione di condanna, e' vero altresi' che il secondo comma dello stesso articolo consente eccezione al principio nel caso in cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione piu' elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento; indicazione quest'ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente all'intervento legislativo oggetto della questione. Non puo' sottacersi, di contro, come la nuova disciplina dell'art. 593 c.p.p. crei un'irragionevole disparita' di trattamento laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l'appello contro sentenze di proscioglimento e per altro mantiene la possibilita' per lo stesso pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna; in tal modo privilegiando la cura di un interesse processuale di indubbiamente minore consistenza. Queste considerazioni inducono a ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimita' della norma in oggetto con i richiamati artt. 24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti i presupposti di legge perche' gli atti, previa separazione delle posizioni di Musat Ghoerghita e Varano Francesco, la cui trattazione assume carattere di urgenza, stante il regime di custodia cautelare cui gli stessi sono sottoposti, vengano trasmessi alla Corte costituzionale per la decisione in merito, con la conseguente sospensione del procedimento. 1) Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso per cassazione operato dall'art. 8 della stessa legge n. 46/2006 con l'inserimento, nel testo dell'art. 606 c.p.p., della mancata assunzione di una prova decisiva anche laddove richiesta nel corso dell'istruzione dibattimentale e della contraddittorieta' o illogicita' della motivazione risultante da atti del processo specificamente indicati dal ricorrente. 2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del 26 marzo 1993, con la quale si riteneva infondata l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 507 c.p.p. sul presupposto che detta norma subordinasse l'assunzione di prove non indicate dalle parti al solo requisito dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a prescindere dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle parti. 3) V. sent. n. 206 del 27 giugno 1997. 4) V. sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio 2003. 5) Sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio 2004. 6) Sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio 2004. 7) Sent. n. 165 del 9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.