LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza. Nel corso dell'udienza odierna il p.g. ha sollevato eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p. cosi come modificato dall'art. 1, comma 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 e dell'art. 11 della stessa legge. Osserva la Corte che la questione di legittimita' costituzionale e certamente rilevante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . due norme denunciate determinerebbe il ripristino della situazione precedente, e cioe la pendenza di un appello del pubblico ministero nel processo in esame. Pertanto, l'indagine dev'essere concentrata sulla eventuale manifesta infondatezza dell'eccezione. A tal fine, giova premeutere che - come e' noto - il secondo comma dell'art.111 della Costituzione, introdotto dall'art. 1 delle legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 prescrive che «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Orbene, nel valutare la portata di questa norma a fini della verifica sulla legittimita' della non - previsione di un generale potere del p.m. di impugnare le sentenze di condanna emesse in un giudizio abbreviato, la Corte costituziouale ha affermato che essa non ha fatto altro che conferire «veste autonoma ad un principio, quale quello di parita' delle parti, pacificamente gia' insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali», e quindi non ha «inciso sulla validita' dell'affermazione, cui si e' costantemente ispirata la precedente giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale il principio di parita' fra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato: infatti una disparita' di trattamento puo' risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia (8 e 234 del 1994, 432 del 1992, 363 del 1991 e 426 del 1998)». Rileva questa Corte che, anzitutto, oggi non e' dato piu' parlare di «parita' fra accusa e difesa» in quanto - in piena attuazione della direttiva n. 37 dell'art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, di delega al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale - al p.m. e' stato devoluto il potere-dovere «di compiere indagini in funzione dell'esercizio dell'azione penale e dell'accertamento di fatti specifici, ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato». Di conseguenza, la funzione del pubblico ministero non e' limitata al compito di «accusare», ma e' estesa a quello (piu' ampio e piu' consono alla definizione tradizionale di «pubblicum ministerium»), di perseguire l'accertamento della verita' storica oltre a vigilare sulla «osservanza delle leggi e sulla pronta e rapida amministrazione della giustizia», di cui all'art. 73 dell'Ordinamento giudiziario. Non dev'essere, poi, sottovalutara la solenne e categorica affermazione del principio di parita' delle parti, sancito dall'art. 111 Cost., dal momento che - proprio in un sistema di valori costituzionali che sostanzialmente gia' lo garantiva - essa non puo' rimanere ne' senza significato ne' senza effetti. Cio' non postula - naturalmente - un dissenso sui limiti della concicata realizzazione del medesimo nella dialettica processuale, ma impone - ad avviso di questo Collegio - una verifica piu' rigorosa della legittimita' di qualsiasi norma che su di esso possa incidere, condotta anzitutto alla luce della «ragionevolezza» che deve caratterizzare ciascuna manifestazione di volonta' del legislatore, e quindi dei tre criteri indicati dalla Corte costituzionale e teste' riportati (peculiare posizione istituzionale del p.m., funzioni ad esso affidate ed esigenze connesse con la corretta amministrazione della giustizia). Orbene, bisogna subito riconoscere che l'abolizione del potere del p.m. di proporre appello avverso la sentenze di proscioglimento determina una disparita' di trattamento fra parte pubblica e parte privata non potendo indurre in diverso avviso l'estensione all'imputato della medesima preclusone. Infatti, il raffronto non va eseguito fra la facolta' del p.m. di impugnare sentenze di proscioglimento e quella analoga dell'imputato, bensi' fra la possibilita' di ciascuna parte di chiedere al giudice superiore un nuovo esame di una sentenza difforme dalle proprie richieste, e quindi la facolta' dell'imputato di appellare le sentenze di condanna e quella, speculare, del p.m. di impugnare quelle di proscioglimento, che comprendono le assoluzioni. Cosi impostato il problema, appare piu' che giustificato il dubbio sulla legittimita' costituzionale di una norma - come quella in esame - cha abolisce quasi completamente l'appello del p.m. poiche' essa limita inspiegabilmente il potere di una delle parti - ed anzi proprio di quella che e' portatrice di un interesse obiettivo - pacificamente esercitato da piu' di un secolo e basato sulla palese esigenza di ottenere una nuova valutazione delle prove esaminate da un giudice monocratico (spesso onorario), da parte di un giudice collegiale, formato da persone dotate di maggiore esperienza. Vero e' che - come ha chiarito la Corte costituzionale - il diritto di appello non presidiato da alcuna garanzia costituzionale, ma cio' significa soltanto che il legislatore potrebbe - nell'esercizio del suo potere discrezionale - abolire completamente l'istituto dell'appello, ma non convalida l'eliminazione di esso in danno di una sola fra le parti. Si tratta - a ben guardare - di una disposizione di legge che non trova adeguata spiegazione in nessuno dei tre parametri sopra indicati. Non in quello della posizione istituzionale del p.m., che non ostacola, ed anzi postula la facolta' del medesimo di chiedere un controllo sulla conformita' di una decisione assolutoria alle emergenze processuali. Non nella funzione propria del pm., specie dopo l'avvenuta realizzazione della citata direttiva n. 37 della legge-delega del 1987. Non in esigenze connesse con la corretta amministrazione della giustizia poiche' - come ha evidenziato la stessa Corte costituzionale - «fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita» (sent. n. 255 del 1992) in un ordinamento, come il nostro, improntato al principio di legalita', al quale non sono consone norme metodologiche che ostacolino - in modo irragionevole - il processo di accertamento del fatto storico necessario per garantire una giusta decisione (Corte cost., sent. n. 255 del 1992). In argomento, giova porre in rilievo che - come ha correttamente osservato il p.g. presso questa Corte - a fronte della posizione piu' volte assunta dalla Corte costituzionale in occasione del vaglio di legittimita' delle norme sull'appello incideritale del p.m. avverso sentenze emesse in seguito a giudizio abbreviato, la situazione appare addirittura capovolta. Infatti, il Giudice delle Leggi aveva piu' volte sottolineato che, in quel tipo di procedimento, una sentenza di condanna realizzava, comunque, la pretesa punitiva del p.m.. Oggi, invece, la parte pubblica puo' - di regola - impugnare solo le sentenze di condanna che non ritenga idonee a soddisfare pienamente tale pretesa, mentre non puo' piu' adire un giudice superiore allorche' una sentenza di assoluzione abbia - a suo avviso - del tutto eluso, erroneamente, tale pretesa. E questo costituisce incontestabilmente, il piu' vistoso dei profili di irragionevolezza identificabili nella norma in esame, poiche' contiene una palese incoerenza gia' all'interno della nuova disciplina delle impugnazioni. Altra fonte di dubbi sulla leginimita' costituzionale della disposizione in esame risiede nella constatazione che essa appare inconciliabile con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) poiche' il nuovo sistema - che consente nuove ipotesi del ricorso per cassazione finalizzato al rinvio al giudice di primo grado - puo' anche dal luogo ad un processo che si articola in ben cinque gradi di giurisdizione. Inoltre, il disposto del «novellato» art. 606 c.p.p. - che appare diretta ed inevitabile conseguenza dell'abolizione quasi totale dell'appello di p.m. - non si sottrae a censure per violazione dell'art. 97 Cost. poiche' esso postula un grave turbamento di carattere strettamente «organizzativo» dell'attivita' della Corte suprema, attualmente competente a riesaminare le sentenze. solo sotto l'aspetto della violazione di legge o della grave carenza di motivazione che emerga dal testo delle medesime, ed oggi obbligata a rivalutare il contenuto di determinati atti, e quindi ad esercitare un controllo di merito. Ne' vanno sottaciuti i seri dubbi di legittimita' della norma transitoria in base alla quale la nuova disciplina deve trovare applicazione anche ai processi in corso in fase di appello. In realta' non si vede quali siano le ragioni di assoluta urgenza in vista delle quali - a differenza di quanto avvenuto in occasione di precedenti riforme - sia stato ritenuto doveroso «ghigliottinare» i poteri di impugnazione del p.m. in contrasto con il principio - sempre osservato - per il quale «tempus regit actum», il quale impediva di negare ammissibilita' ex pos a gravami gia' ritualmente esperiti. Essa comporta anche l'impossibilita' della parte pubblica di tener fermo il proprio appello perfino nei casi previsti dal (nuovo) secondo comma dell'art. 593 cp.p., il che - come ha rilevato qualche autore - potrebbe essere considerato addirittura paradossale. Non possono essere condivisi, infine, i rilievi del p.g. sui profili di illegittimita' delle norme in questione per incompatibilita' con l'art. 112 Cost., poiche' la Corte costituzionale ha piu' volte ribadito che «il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce una estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale» (V. per tutte: ord. n. 165 del 2003). Tutte le esposte ragioni inducono questo Collegio a ritenere rilevante e non manifestamente infondata l'accezione di illegittimita' costituzionale sollevata dal p.g. in udienza.