LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel giudizio d'appello a carico
di:  Aldo Scanu, nato a Sassari il 26 novembre 1953, ivi residente in
S.V. Taniga San Giacomo Medas n. 37, elettivamente domiciliato presso
l'avv. P. Giua, Via Roma n. 115, Sassari, imputato del delitto di cui
all'art. 635 cpv. n. 3) c.p. perche' tagliando a meta' due cipressi e
mutilando  altre  sette piante della stessa famiglia in un terreno di
Pisano  Pasquangela,  distruggeva  e  deteriorava  le  stesse.  Fatto
aggravato  perche'  commesso  su  cosa  esposta  per  necessita' alla
pubblica fede.
    In Sassari il 13 ottobre 2002.
    Considerato  che,  con sentenza n. 1171 in data 23 settembre 2005
del  Tribunale di Sassari, nei confronti di Scanu e' stato dichiarato
non  doversi  procedere  in  ordine  al  reato a lui ascritto perche'
estinto  per  remissione  di  querela,  e  rilevato che contro questa
decisione  ha  interposto  appello  il  procuratore  generale  che ha
chiesto   -  previa  rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale  -
l'affermazione  di  responsabilita'  dell'imputato  e la sua condanna
alla pena che sara' richiesta in udienza;
    Rilevato,   altresi',  che  il  p.g.  ha  osservato  (richiamando
implicitamente  il  contenuto  di propria precedente memoria scritta,
gia'  esaminata  da  questa  corte)  che,  a seguito della entrata in
vigore  della  legge  20  febbraio  2006, n. 46, applicabile, a norma
dell'art.  10  di  essa,  anche ai procedimenti in corso, il proposto
gravame  dovrebbe  essere,  con ordinanza inoppugnabile giusta l'art.
10.2  della  legge  citata,  dichiarato inammissibile avendo l'art. 1
della medesima legge reso inappellabili le sentenze di assoluzione, e
che tuttavia, essendo ravvisabile contrasto fra gli articoli 1, 2, 10
e  12  della  legge  n. 46/2006  e  gli  artt.  3,  111  e  112 della
Costituzione,  la  corte  dovrebbe  rimettere  gli  atti  alla  Corte
costituzionale;

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non  manifestamente  infondati:  l'art.  111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito   dal   medesimo   art.   111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Questo  enunciato non confligge con le ripetute pronunce negative
della  Corte  costituzionale chiamata ad esprimersi sulle limitazioni
al  potere d'appello del pubblico ministero stabilite dall'art. 443.3
c.p.p.,  essendo  le  disparita'  derivanti  da  questa  disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il  ricorso  al  rito  abbreviato  e delle peculiarita' di questo. Il
risultato  e'  quello  della  rapida  definizione dei processi penali
conseguita  attraverso  la decisione del processo solo sulla base del
materiale   probatorio   raccolto  dalla  parte  pubblica  fuori  del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato in caso di affermazione di responsabilita'.
    E  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto  e'  parso ragionevole
limitare  la  facolta'  di impugnazione del pubblico ministero quanto
alle   sentenze   di   condanna   (e   pertanto   in  relazione  alla
quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi
in  relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito
di  rito  abbreviato,  stante  il  perdurante  interesse  della parte
pubblica    all'accertamento    della   verita'   (e   quindi   della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna che modifichino il titolo del reato.
    A  proposito  del  generale interesse del p.m. a proporre appello
contro  le  sentenze  di  proscioglimento conserva piena validita' il
richiamo contenuto nel messaggio del Presidente della Repubblica alle
Camere  la'  dove  si osserva che «la soppressione dell'appello delle
sentenze  di proscioglimento ... fa si' che la stessa posizione delle
parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che
supera  quella  compatibile  con  la diversita' delle funzioni svolte
dalle  parti  stesse  nel processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Ne'  tale  tesi risulta inficiata dall'eventuale obiezione che la
soppressione  della facolta' d'appello del p.m. contro le sentenze di
proscioglimento  risponderebbe ad esigenze di celerita' del processo,
e  sarebbe  per  altro verso coerente con la presunzione di innocenza
dell'imputato  o  con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve
essere  dimostrata  oltre  ogni  ragionevole  dubbio.  Le esigenze di
celerita'  non  hanno impedito la conservazione della facolta' di cui
all'art.  443.3  c.p.p., e, al contrario, saranno proprio le esigenze
di  celerita'  ad essere sacrificate quando, nel caso di accoglimento
del  ricorso  per  cassazione  proposto  dal  p.m. contro la sentenza
assolutoria, il processo ritornera' in primo grado con la prospettiva
della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso di condanna
dell'imputato.
    Il principio di non colpevolezza implica soltanto il fatto che le
conseguenze  pratiche  della  condanna  possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter  per  il  quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il
quale  la  colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata
oltre  ogni  ragionevole  dubbio  sembra,  invece, in questo caso, un
principio   di   lettura   equivoca,   posto   che   se  si  sostiene
l'inappellabilita'  della  sentenza  con  la  quale  un giudice abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  con la stessa
sicurezza la colpevolezza.
    Quanto  all'esplicazione dei diritti della difesa, deve rilevarsi
che   insopprimibile   funzione   del   processo   penale  e'  quella
dell'accertamento  della  verita',  e  tale  prospettiva  deve essere
perseguita nel rispetto dei, piu' che giusti, diritti della difesa da
far  valere  tuttavia nell'ambito del processo e non nel senso che il
confronto  fra  le  tesi  debba essere evitato (in altri termini deve
potersi  esercitare  la difesa nel processo e non gia' dal processo).
Nessuno dubita che nel giudizio d'appello l'imputato debba poi godere
del  pieno  dispiegamento  dei  diritti  che la legge giustamente gli
riconosce:  ma  non  si  vede in che cosa la celebrazione del secondo
grado  del  giudizio  di  merito, sia pure ad istanza del p.m., possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    Il  contrasto  delle  disposizioni denunciate rispetto agli artt.
111  e  3  della  Costituzione  appare  ancor piu' evidente quando si
osservi  che  nella  stesura definitiva della legge 20 febbraio 2006,
n. 46  alla  parte  civile  e'  stato  invece  conservato  il diritto
d'appello  avverso  le  sentenze  di  assoluzione  (la  genesi  della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art.   576  c.p.p.  alinea
nell'attuale  formulazione,  unita  alla  mancata  previsione  di una
disciplina  transitoria  per i pregressi appelli della parte civile -
significativamente  prevista,  invece, per quelli dell'imputato e del
p.m.  dall'art.  10  della  novella - persuade che l'impugnazione ivi
menzionata  consista  nell'appello).  Si deve constatare pertanto che
alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui
si  tornera'  tra  breve,  e'  stato  del  tutto  ingiustificatamente
riservato  un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto che alle parti
private  e  questo  dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in
maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme
che  vengono  sottoposte  al Giudice delle leggi, dal principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art.  112  della  Costituzione e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal terzo comma
dell'art.  27  della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste  due norme si ricava che l'ufficio del p.m. (parte pubblica, e
quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti  ispirati  a  massima
correttezza  e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli
elementi favorevoli all'imputato) non e' quello di ottuso persecutore
degli  incolpati,  ma  di soggetto che persegue il compito, della cui
primaria  importanza  si e' detto, di far si' che i soggetti devianti
vengano  recuperati ad una convivenza civile e ordinata. E menomare i
mezzi  attraverso  i  quali  l'azione  del  p.m.,  nel  rispetto  del
principio  di  parita'  delle  parti,  si deve esplicare significa in
definitiva  legiferare  in  contrasto,  anche,  con le due previsioni
costituzionali ora richiamate.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della  questione  di  legittimita' costituzionale sollevata dal p.g.,
riconosciuta  la  impossibilita'  di  addivenire  alla  decisione del
processo   sottoposto   al   suo   giudizio  indipendentemente  dalla
risoluzione  delle  cennate  questioni  (l'applicazione  delle  norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.