LA CORTE DI APPELLO

    Nel procedimento penale in grado di appello n. 540/2004 R.G. App.
nei  confronti  di  Talozzi  Teofrasto, giudicata con sentenza dd. 12
marzo 2004 del Tribunale di Trieste, con la quale l'imputato e' stato
assolto dal reato di cui agli artt. 81 e 640, secondo comma n. 1, c.p
perche' il fatto non sussiste, sentenza gravata da rituale appello da
parte  del  Procuratore della Repubblica di Trieste, con richiesta di
affermazione  della penale responsabilita' dell'imputato per il reato
ascrittogli  e  di  condanna  alla pena di mesi otto di reclusione ed
Euro 500,00 di multa;
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    In limine all'odierna udienza dibattirnentale ritiene la Corte di
dover  sollevare  d'ufficio  questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  10  legge 20 febbraio 2006, n. 46, in riferimento all'art.
593  c.p.p.,  come  modificato  dall'art. 1 della medesima legge, per
violazione  del  principio  della  parita' delle parti nel processo e
della  ragionevole  durata  del  processo sanciti dall'art. 111 della
Costituzione, siccome rilevante e non manifestamente infondata per le
ragioni appresso indicate.
    Sotto  il  profilo  della  rilevanza e', infatti, evidente che la
Corte,   in   applicazione   della   sopravvenuta  normativa  di  cui
all'art. 10  cit.  legge  n. 46 del 2006 in rif. all'art. 593 c.p.p.,
dovrebbe   definire  il  grado  di  giudizio  mediante  pronuncia  di
ordinanza non impugnabile di inammissibilita', di talche' verrebbe ad
essere  precluso  l'esame  delle  questioni  di  merito  proposte con
l'interposto  gravame,  siccome non deducibili nell'eventuale ricorso
per  cassazione  che  il procuratore generale intendesse proporre, ai
sensi  del  comma  3 del cit. art. 10 legge n. 46 del 2006, contro la
sentenza di primo grado.
    Sotto  il  diverso  profilo della non manifesta infondatezza, non
par  dubbio  alla  Corte  che  la  menzionata  normativa  si ponga in
contrasto con i parametri degli art. 3 e 111 della Costituzione.
    A  tale  riguardo  conviene  ricordare,  che nella giurisprudenza
della  Corte  costituzionale  e'  stato  piu'  volte «ribadito che il
principio,   della   parita'   tra   accusa  e  difesa  non  comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero  e  quelli  dell'imputato e del suo difensore» ed e' stato,
altresi', «sottolineato come una diversita' di trattamento rispetto a
tali   poteri   possa  risultare  giustificata  sia  dalla  peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della  giustizia:  ma,  in  ogni  caso,  il  diverso
trattamento  riservato  al  Pubblico Ministero, per essere conforme a
Costituzione,  dovra'  trovare una ragionevole motivazione proprio in
quella  peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze
appena richiamate» (Corte costituzionale sent. n. 363 del 1991).
    In  base  a  tale  orientamento,  la  Corte  ha,  in particolare,
costantemente  ritenuto  che l'art. 443, comma 3, c.p.p., nella parte
in  cui  non  prevede  la  possibilita'  per il pubblico ministero di
proporre  appello avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di
giudizio  abbreviato, salvo che si tratti di sentenza che modifica il
titolo  del reato, non contrasta con l'art. 111, secondo comma, della
Costituzione,  come  inserito  dalla legge costituzionale 23 novembre
1999,  n. 2,  che  ha conferito veste autonoma ad un principio, quale
quello   di  parita'  delle  parti,  pacificamente  gia'  insito  nel
pregresso   sistema   dei   valori   costituzionali,   trovando  tale
preclusione  giustificazione  nell'obiettivo primario di una rapida e
completa  definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il
rito  alternativo  di  cui  si tratta: rito che - sia pure, oggi, per
scelta  esclusiva  dell'imputato  - implica una decisione fondata, in
primis, sul materiale raccolto dalla parte che subisce la limitazione
censurata,  fuori delle garanzie del contraddittorio» (ord. n. 21 del
2001;  nello  stesso  senso,  ord.  n. 363 del 1991, n. 373 del 1991,
n. 305 del 1992 e n. 165 del 2003).
    Orbene,  l'esame della relazione di accompagnamento alla proposta
di  legge  d'iniziativa  del  deputato Pecorella (Camera dei deputati
n. 4604) rende evidente che la limitazione dei poteri processuali del
pubblico  ministero,  lungi  dal venire giustificata in ragione della
sua  peculiare  posizione  istituzionale,  o  della  funzione ad esso
affidata ovvero delle esigenze connesse alla corretta amministrazione
della  giustizia,  e' stata ricondotta esclusivamente alla necessita'
di  adeguamento  dell'ordinamento  interno  al  principio sancito dal
Protocollo  addizionale n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei
diritti   dell'uomo   e   delle  liberta'  fondamentali,  adottato  a
Strasburgo  il  22 novembre 1984, reso esecutivo dalla legge 9 aprile
1990,  n. 98, che «all'art. 2 statuisce il diritto al doppio grado di
giurisdizione   in  materia  penale  per  chiunque  venga  dichiarato
colpevole  di  una  infrazione  penale  da  un tribunale», e cio' sul
rilievo  che  tale  principio  «allo  stato  e' reso vano dal vigente
codice  di  procedura penale nella parte in cui, prevedendo che possa
essere  impugnata  la  sentenza  di  primo  grado  di proscioglimento
dell'imputato da parte del pubblico ministero, in caso di sentenza di
condanna  in sede di gravame, non concede la possibilita' di ottenere
un secondo grado di giudizio nel merito in favore del condannato, che
ne avrebbe diritto in forza del principio esposto».
    Le  ragioni  addotte  a  fondamento della disciplina normativa in
esame  appaiono alla Corte non solo estranee a quelle che legittimano
una  limitazione  dei  poteri  processuali  del Pubblico Ministero ma
anche del tutto prive di fondamento.
    Ed,  infatti,  la  Corte  costituzionale, mentre ha ripetutamente
affermato  che  «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma
oggetto  di  garanzia  costituzionale»  (sent. n. 117 del 1973; sent.
n. 62  del  1981;  sent. n. 301 del 1986; n. 543 del 1989, n. 438 del
1994;  ord.  n. 421 del 2001) ha ritenuto che «il tenore dell'art. 2,
comma  1,  del  protocollo  addizionale  n. 7,  anche  attraverso  il
confronto  con quanto gia' disposto in tema di impugnazioni dall'art.
14,  comma  1,  del patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici  del  19  dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25
ottobre  1977,  n. 881,  non legittima una interpretazione per cui il
riesame  ad  opera  di un tribunale superiore debba coincidere con un
giudizio  di  merito.  La  formulazione dell'art. 2, nel demandare al
legislatore  interno  ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del
diritto  all'impugnazione,  non esclude, infatti, che il principio si
sostanzi  nella  previsione  del ricorso in Cassazione, gia' previsto
dalla Costituzione italiana».
    Ne',  secondo  la  Corte,  varrebbe  sostenere  che,  essendo  la
ricorribilita'   in  Cassazione  gia'  prevista  dalla  Costituzione,
l'art. 2, comma 1, della Convenzione avrebbe introdotto il diritto ad
un secondo giudizio di merito, poiche' in tal modo si incorrerebbe in
un  palese  vizio  logico  «in quanto la norma convenzionale verrebbe
interpretata  alla  luce del diritto interno, come se la disposizione
pattizia  avesse  il  ruolo  di  riempire  i  vuoti  dell'ordinamento
nazionale.  Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione
con   l'ordinamento   costituzionale   italiano,   alla   luce  della
consolidata  giurisprudenza  di questa Corte in tema di non rilevanza
costituzionale  della  garanzia  del  doppio  grado di giurisdizione»
(sent. n. 288 del 1997).
    Cio'   posto,  appare  evidente  che  la  nuova  disciplina  crea
un'irragionevole  disparita' di trattamento, rilevante ai sensi degli
artt.  3  e 111 della Costituzione, a sfavore del pubblico ministero,
disparita'  che  non  puo'  trovare  giustificazione nel fatto che la
proposizione  dell'appello  sia  formalmente  preclusa ad entrambe le
parti,  ben  diverso  essendo  il  rispettivo interesse sostanziale a
proporre impugnazione avverso sentenza di proscioglimento, ne' appare
legittimata da alcun'altra apprezzabile esigenza.
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale  del cit. art. 10
legge  n. 46 del 2006 in riferimento al novellato art. 593 cod. proc.
pen. appare,  inoltre,  non  manifestamente  infondata anche sotto il
diverso  profilo  della  violazione  del  parametro della ragionevole
durata  del  processo  sancito  dall'art. 111, secondo comma, seconda
ipotesi, della Costituzione.
    Va,  invero,  rilevato  che, nell'ipotesi di ingiusta sentenza di
proscioglimento  e  di  conseguente impugnazione accolta, il percorso
processuale   ordinario   imposto  dalla  nuova  normativa  si  snoda
attraverso non meno di cinque gradi di giudizio (assoluzione in primo
grado,  annullamento  della  Cassazione,  condanna  in  primo  grado,
conferma  in appello, rigetto del ricorso in Cassazione), laddove nel
precedente  sistema esso si completava in soli tre gradi (assoluzione
in   primo   grado,  riforma  in  appello,  rigetto  del  ricorso  in
Cassazione).
    L'allungamento  dei tempi processuali che ne deriva - e dunque la
compressione del principio, a rilevanza costituzionale, di efficienza
del   processo   -   risulta   ancora   piu'  sensibile  e  privo  di
giustificazione  se si considera che con la recente legge n. 251/2005
sono  stati  ridotti i termini di prescrizione per numerosi reati, in
ordine  ai  quali  dunque l'iter processuale innescato da un'ingiusta
sentenza  di  proscioglimento  pare  destinato  a concludersi con una
sentenza  dichiarativa  della  prescrizione,  piuttosto  che  con una
sentenza definitiva che accerti nel merito la penale responsabilita'.
    La  violazione  del  principio di ragionevole durata del processo
appare  ancora piu' evidente qualora, come appunto nella fattispecie,
debba  farsi  applicazione della disciplina transitoria contenuta nel
cit. art. 10 legge n. 46 del 2006.
    Detta  disposizione,  la  quale  tratteggia la sorte dei processi
pendenti  in  sede  di  gravame in forza di un appello legittimamente
presentato  dal pubblico ministero, destinandoli ad un'indiscriminata
declaratoria  d'inammissibilita'  e  ad  un  successivo  ricorso  per
Cassazione  da  parte del pubblico ministero avverso l'assoluzione di
primo  grado,  aggiunge ulteriori motivi di violazione del principio,
gia' intaccato dal nuovo disegno normativo, di ragionevole durata del
processo.
    Ed,  infatti,  il nuovo sistema normativo, derogando al principio
tempus  regit  actum  che  governa  la  materia processuale, non solo
sacrifica   ineludibilmente   un   atto  di  gravame  tempestivamente
proposto,  costringendo  la parte interessata a presentarne un altro,
ma  comporta  l'inevitabile  differimento della presentazione di esso
all'eseguita   notifica  del  provvedimento  di  inammissibilita'  e,
pertanto,  ad  un  termine  futuro ed incerto, considerati i tempi di
fissazione  dei  processi  di appello normalmente scanditi in base ai
termini  prescrizionali  misurati  sui tre gradi del giudizio, sinora
fisiologici.