IL TRIBUNALE Nel procedimento penale iscritto al n. 28 1/06 R.G contro Saadi Moulay Driss, nato a Casablanca (Marocco) il 1° dicembre 1976, imputato del delitto di cui all'art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per aver detenuto, ad evidente fine di spaccio, 37,6 g. di sostanza stupefacente del tipo hashish. Commesso in Colbordolo (PU) il 26 settembre 2006. All'udienza del 20 dicembre 2006, ha pronunciato la seguente ordinanza. 1. - In data 27 settembre 2006 Saadi Moulay Driss, imputato del delitto di cui all'art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per aver detenuto, ad evidente fine di spaccio, 37,6 g. di sostanza stupefacente del tipo hashish, e' stato condotto dinanzi a questo giudice per la convalida dell'arresto e contestuale giudizio direttissimo ex art. 558 c.p.p. A seguito della convalida dell'arresto, si e' proceduto al giudizio direttissimo nelle forme del dibattimento; all'odierna udienza, fissata per la discussione, le parti hanno concluso come da verbale. Nell'istruttoria dibattimentale si e' accertato che, nel corso di una perquisizione domiciliare effettuata presso l'abitazione dell'imputato, sono stati rinvenuti nella sua disponibilita' complessivi gr. 37, 6 di sostanza stupefacente di tipo hashish - come risultante dalla perizia tecnica d'ufficio -, contenenti mg 1017 di principio attivo. La perquisizione domiciliare e' stata effettuata a seguito del rinvenimento di due panetti di hashish sul luogo ove qualche ora prima si era verificato un incidente stradale che aveva coinvolto l'imputato. La perizia disposta nel corso del giudizio ha consentito di accertare la piena coincidenza delle caratteristiche della sostanza rinvenuta a seguito dell'incidente con quelle della sostanza di cui al capo di imputazione. Le circostanze emerse dall'istruttoria dibattimentale, unitamente alla quantita' di principio attivo contenuto nella sostanza sequestrata a seguito di perquisizione, consentono di ritenere che la detenzione della sostanza di cui al capo di imputazione da parte del Saadi fosse finalizzata all'uso non esclusivamente personale dello stupefacente. L'imputato, pertanto, deve essere ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990. 2. - Ad avviso del giudicante, peraltro, ricorrono gli estremi dell'attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entita' di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. cit. Cio', in particolare, deve dirsi avuto riguardo alla modesta quantita' ed alla qualita' dello stupefacente rinvenuto nella disponibilita' dell'imputato, da cui si desume una minore offensivita' della condotta da lui posta in essere rispetto alla generale condotta sanzionata dal primo comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 (in tal senso, tra le altre, Cass.n. 5534 del 1° aprile 1996). Peraltro, il pubblico ministero ha contestato la sussistenza di una recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale. Invero, come risulta dal certificato del casellario giudiziale in atti (sentenza di condanna per furto tentato ex artt. 56, 624, 625 n. 2 c.p., per fatto commesso il 17 dicembre 1999, divenuta irrevocabile l'8 maggio 2001; sentenza di condanna per violazione delle norme contenute nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero per fatto commesso il 28 settembre 2001, divenuta irrevocabile l'8 aprile 2005; sentenza di condanna per falsa dichiarazione sull'identita' propria ex art. 496, 62-bis c.p., per fatto commesso il 28 maggio 1997, divenuta irrevocabile il 14 maggio 1999), sussistono gli estremi della recidiva infraquinquennale e reiterata ai sensi dell'art. 99 quarto comma c.p., senza che le precedenti condanne riportate dall'imputato possano intendersi della medesima indole del delitto doloso contestato nel presente procedimento e, dunque, non potendo ritenersi sussistente una recidiva di tipo specifico. A norma dell'art. 69, quarto comma, c.p., come modificato dall'articolo 3 della legge n. 251 del 2005, nei casi previsti dall'articolo 99, comma 4, nonche' dagli articoli 111 e 112, comma 1, numero 4), vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti. Pertanto, ritenuta la recidiva reiterata ai sensi dell'art. 99, quarto comma, c.p., il novellato art. 69, quarto comma, c.p. impedisce nel caso di specie il giudizio di prevalenza della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73,quinto comma, d.P.R. n. 309 del 1990 sulla ritenuta aggravante, con la conseguenza che le due circostanze possono, al piu', ritenersi equivalenti. L'imputato, pertanto, ai sensi delle richiamate disposizioni di legge, dovrebbe essere condannato alla pena della reclusione non inferiore a sei anni e della multa non inferiore ad euro 26.000, come disposto dall'art. 73, comma primo d.P.R. cit.. 3. - Tale conclusione, tuttavia, appare al giudicante in aperto contrasto con il principio di adeguatezza e proporzionalita' della pena al fatto contestato ed accertato nel corso del giudizio e con il principio di uguaglianza. Invero, come gia' rilevato, i fatti che hanno costituito oggetto del giudizio possono sussumersi nella fattispecie della illecita detenzione di sostanza stupefacente; tuttavia, la qualita' della sostanza - di tipo hashish -, unitamente alla sua quantita' - di poco superiore al limite indicato, da ultimo, dal decreto ministeriale del 4 agosto 2006 - induce a ritenere, assolutamente eccessiva e sproporzionata la pena sopra indicata, individuata in base al richiamato divieto di prevalenza dell'attenuante sulla recidiva contestata. Da tale evidente sproporzione tra fatto contestato e pena irrogabile discende un duplice ordine di conseguenze. In primo luogo, ove irrogata, tale pena non tenderebbe efficacemente alla rieducazione del condannato e, dunque, non sarebbe funzionale allo scopo costituzionalmente imposto alla sanzione penale dall'art. 27, terzo comma, della Carta fondamentale. In secondo luogo, l'applicazione di una sanzione determinata partendo dalla pena base di cui al primo comma dell'art. 73 del d.P.R n. 309 del 1990, in relazione alla detenzione del quantitativo di hashish indicato al punto 1, costituirebbe evidente violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. 4. - Tanto premesso in ordine ai possibili profili di incostituzionalita' dell'art. 69, quarto comma, c.p., nella parte in cui non consente il giudizio di prevalenza dell'attenuante di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309 del 1990, occorre svolgere alcune considerazioni in punto di rilevanza della questione di costituzionalita'. La determinazione della pena nel quantum indicato al punto 2, infatti, deve ritenersi necessaria ed, allo stato, a parere di questo giudice, non evitabile per il tramite di una interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi. In primo luogo, infatti, la giurisprudenza di legittimita' e di merito appare assolutamente uniforme nell'interpretazione dell'ipotesi prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309 del 1990 quale circostanza attenuante ad effetto speciale, che dunque ricade nel novero delle circostanze per cui l'art. 69 quarto comma c.p. vieta il giudizio di bilanciamento nel senso di prevalenza rispetto alla recidiva reiterata. A tal proposito, occorre rilevare che il consolidato orientamento della giurisprudenza non pone in dubbio la qualificazione della c.d. «ipotesi leve» come circostanza attenuante, atteso che gli elementi che devono costituire oggetto di valutazione da parte del giudice al fme di riconoscere tale ipotesi lieve - quali i mezzi, le modalita', le circostanze dell'azione, la quantita' e qualita' della sostanza - sono i medesimi che consentono di ritenere integrati gli estremi del reato di cui all'art. 73, primo comma, d.P.R. n. 309 del 1990, sebbene in forma attenuata nel senso di una minore offensivita' del fatto rispetto al medesimo bene giuridico tutelato. In tal senso, da ultima, si e' espressa la suprema Corte di cassazione con le sentenze n. 38879 del 29 settembre 2005 e n. 20556 del 24 febbraio 2005, che hanno confermato le conclusioni raggiuute con la sentenza n. 17 del 21 giugno 2000 pronunciata a sezioni unite. E' pur vero che, da parte di alcuna dottrina, si e' mossa aperta critica a tale conclusione, muovendo dalla considerazione del medesimo tenore letterale del comma quinto dell'art. 73 d. cit, oltre che da argomenti di carattere sistematico che imporrebbero di considerare la norma in esame quale, piuttosto, ipotesi autonoma di reato. In particolare, si e' argomentato in ordine alla previsione del sesto comma dell'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, a norma del quale, se si e' costituita associazione al fine di «commettere i fatti descritti dal comma 5 dell'articolo 73», si applicano il primo e il secondo comma dell'articolo 416 del codice penale. A parere di tale dottrina, tale dizione letterale lascerebbe presumere che il legislatore abbia individuato la condotta di cui al comma in esame quale autonoma fattispecie penalmente rilevante, tanto da ricollegarvi altra previsione sanzionatoria in termini di assoluta indipendenza rispetto alla fattispecie di cui al primo comma dell'art. 73 d. cit. E' innegabile, peraltro, ai fini che qui ci occupano, che una tale interpretazione della fattispecie di cui al comma quinto dell'art. cit. consentirebbe l'applicazione di una sanzione proporzionata al fatto in esame. Tuttavia si ritiene che, allo stato, il surrichiamato orientamento della giurisprudenza, in quanto assolutamente consolidato, non consenta di avallare siffatta interpretazione. 5. - La giurisprudenza di merito, peraltro, conscia del pericolo di violazione dei precetti costituzionali sopra richiamati insito nell'applicazione del novellato art. 69 c.p., ha cercato di fornire risposte interpretative in un certo senso «correttive» che, tuttavia, non possono essere qui condivise. In primo luogo, si e' affermato che il rischio di violazione del dettato costituzionale possa essere evitato in virtu' del riferimento dell'art. 69, quarto comma, c.p. alle sole ipotesi di cui all'art. 99, quarto comma, c.p. che, in quanto connesse all'applicazione facoltativa dell'aumento di pena previsto per la recidiva, lascerebbero idoneo spazio alla valutazione discrezionale del giudice di merito finalizzata all'adeguamento della pena al fatto. In realta', a tale osservazione occorre obiettare, da un lato, che il legislatore ha appositamente previsto e disciplinato il caso della recidiva reiterata con aumento di pena facoltativo, come dimostra il riferimento svolto nell'art. 69 quarto comma alle «ritenute» aggravanti; dall'altro, che la possibilita' di non ritenere di applicare il previsto aumento di pena non puo' risolvere il problema posto dalla nuova regola di cui all'articolo in esame. Infatti, l'espresso richiamo dell'art. 69, quarto comma c.p. all'art. 99, quarto comma cp, con riferimento alla «ritenuta» recidiva, impone di considerare operante il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti in tutti i casi in cui si «ritengano» sussistere i presupposti della recidiva e non solo quando si ritenga di applicare il relativo aumento di pena, risultando altrimenti facilmente eludibile l'intento del legislatore. Cio' in quanto, all'evidenza, basterebbe pur in presenza dei presupposti di fatto della recidiva reiterata ritenere di non applicare l'aumento di pena conseguente (per neppure un giorno di reclusione aggiuntivo) al fine di ottenere la disapplicazione del novellato art. 69, quarto comma c.p. Al contrario, dall'interpretazione della voluntas legis come risultante dalla novella deve evincersi che il legislatore abbia precisamente inteso inasprire il trattamento sanzionatorio con riferimento a tutti i casi di imputato recidivo reiterato, proprio sottraendo al giudice di merito quel potere discrezionale che invece gli sarebbe stato attribuito dal previgente meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui al medesimo art. 69 c.p., oltre che dalla facoltativita' dell'aumento di pena nel caso di recidiva reiterata. In secondo luogo, deve qui essere esaminato l'orientamento «correttivo» espresso nella sentenza 8 maggio 2006 del Tribunale di Grosseto. In tale pronuncia il tribunale prende le mosse dalla lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 38 del 1985 (confermata con la successiva sentenza n. 194/1985), emessa in relazione al trattamento sanzionatorio previsto per la aggravante della finalita' di terrorismo. In quel caso, la Corte costituzionale era stata chiamata a decidere in ordine alla legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma terzo, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, come convertito nell'art. 1, legge 6 febbraio 1980, n. 15, relativamente alla questione del divieto di equivalenza e di prevalenza delle attenuanti sull'aggravante della finalita' di terrorismo. Nell'esaminare la questione, la Corte costituzionale aveva escluso l'obbligatorieta' del giudizio di bilanciamento tra le circostanze di cui all'art. 69 c.p. nell'ipotesi portata alla sua cognizione, argomentando nel senso che «nell'art. 69 cod. pen., l'obbligatorieta' del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalita' nell'essenza stessa di quella valutazione, che e' giudizio di valore globale del fatto e non numerico delle circostanze contrapposte e concorrenti» sicche' «il giudice e' libero di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono. Ma, una volta rotto questo perfetto equilibrio valutativo, che implica un globale giudizio sia sul fatto di reato che sulla personalita' del suo autore, e privato il giudice (...) del potere di esprimere, ai fini della pena, un giudizio omogeneo e complessivo su tutta la vicenda soggettiva ed oggettiva dell'illecito, tenere ferma tuttavia unilateralmente quell'obbligatorieta', che trovava giustificazione nella corrispettiva omogeneita' dei criteri valutativi, determinerebbe effettivamente una situazione del tutto irrazionale». Il Tribunale di Grosseto prende spunto da tale argomentazione per concludere che anche nel caso li' esaminato - del tutto analogo rispetto a quello che si analizza in questa sede - non puo' ritenersi obbligatorio il giudizio di bilanciamento tra le circostanze, a cui si procede in virtu' dell'art. 69 c.p. nei soli casi in cui il legislatore non intervenga ad imporre la prevalenza di una circostanza c.d. «blindata» su altre circostanze. Il giudizio di bilanciamento, in presenza di aggravanti c.d. «protette» o «blindate», potra' essere effettuato tra le altre circostanze, purche' con esclusione di quella rafforzata, di cui dovra' farsi necessariamente applicazione. In altri termini, a parere della pronuncia di merito surrichiamata, la finalita' perseguita dal legislatore con l'introduzione della novella del comma quarto dell'art. 69 c.p. consiste esclusivamente nell'impedire che il giudice, nell'operare il giudizio di bilanciamento tra le circostanze, consideri prevalenti le attenuanti cosi' non applicando l'aumento di pena previsto per la ritenuta recidiva. Ha considerato il tribunale, pertanto, che il novellato art. 69 c.p. non escluda l'applicazione delle circostanze attenuanti, purche' sia fatta applicazione anche dell'aumento di pena previsto per la recidiva. Tale assunto, invero, sarebbe conforme alle conclusioni cui e' giunta la Corte Costituzionale nella sentenza n. 38 del 1985 prima richiamata, che ha consentito l'applicazione delle circostanze attenuanti ritenute sussistenti nel caso in cui siano integrati gli estremi dell'aggravante della finalita' di terrorismo, purche' si operi l'aumento di pena previsto per la citata aggravante ad effetto speciale. Da tale impianto argomentativo il Tribunale di Grosseto ha dedotto che, nel caso in cui ritenga l'ipotesi di lieve entita' di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309 del 1990, il giudice potrebbe fare applicazione dell'attenuante purche' applichi anche l'aggravante della ritenuta recidiva. In buona sostanza, poiche' l'attenuante in parola e' di effetto speciale, la pena da infliggere dovrebbe essere determinata partendo dall'anno di reclusione di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. cit. ed operando l'aumento di pena previsto per la recidiva. Tale conclusione, tuttavia, non appare condivisibile per i motivi che seguono. La sentenza n. 38 del 1985 della Corte costituzionale, infatti, risolve la questione relativa all'aggravante della finalita' di terrorismo disponendo che possono essere applicate le circostanze attenuanti pure riconosciute - al contrario di cio' che, in quel caso, aveva sostenuto la Corte remittente - «qualora il giudice non intenda esercitare quel giudizio di bilanciamento che la legge consente solo a favore dell'aggravante de qua. In altre parole, nel caso li esaminato, la Corte costituzionale interpreta il divieto di prevalenza ed equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto a quella specifica aggravante ritenendo che il giudizio di bilanciamento tra le circostanze di cui all'art. 69 c.p. debba ritenersi ne' obbligatorio ne' tanto meno precluso, purche', ove operato, si ritenga la prevalenza dell'aggravante cd. «blindata». Nell'ipotesi esaminata dalla Corte, peraltro, come pure rilevato in sentenza, si trattava di una circostanza aggravante ad effetto speciale, sicche' le diminuzioni di pena da effettuarsi in relazione alle citate attenuanti, fuori dal giudizio di bilanciamento, avrebbero dovuto essere operate sulla base della pena individuata partendo dall'aumento determinato per l'applicazione dell' aggravante. Cio', pertanto, consentiva la piena applicazione dell'aggravante cd. «blindata». Nel caso che qui ci occupa, al contrario, l'attenuante di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 e' ad effetto speciale, con la conseguenza che, in applicazione della regola contenuta nell'art. 63, terzo comma, c.p., come pure argomentato dal Tribunale di Grosseto, deve innanzitutto operarsi la diminuzione di pena da essa prevista e, successivamente, applicarsi l'aumento conseguente alla ritenuta recidiva. Cio', peraltro, conduce necessariamente ad una violazione del divieto di prevalenza dell'attenuante sulla recidiva imposto dal novellato art. 69 c.p. Infatti, il legislatore ha stabilito che, in caso di ritenuta recidiva, l'attenuante non possa in alcun caso ritenersi prevalente, con la conseguenza che, potendosi al piu' ritenere equivalente all'aggravante, gli effetti della circostanza attenuante non debbano prodursi, in ogni caso, in modo tale da «condizionare» l'applicazione della recidiva. Dunque, nel caso in esame, trattandosi di circostanza attenuante ad effetto speciale, ove il giudice ritenesse di non operare un bilanciamento delle circostanze - cosi' non ritenendo equivalente l'attenuante in parola con la recidiva -, scegliendo piuttosto di applicare sia l'aumento di pena previsto per l'aggravante c.d. blindata che la diminuzione prevista per l'attenuante, l'aumento di pena conseguente alla recidiva verrebbe ad essere ridotto nel quantum dalla necessaria previa diminuzione della pena base individuata dal quinto comma dell'art. 73 d.P.R. cit. In tal modo, si ritiene che il risultato del mancato bilanciamento verrebbe ad essere, inevitabilmente, elusivo del divieto di prevalenza dell'attenuante disposto dalla norma, che deve essere inteso come divieto di prevalenza di un qualsivoglia effetto della circostanza attenuante. Peraltro, ritiene l'odierno remittente che tale conclusione possa intendersi conforme a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 38 del 1985, in quanto il divieto di prevalenza viene inteso non gia' come impeditivo di una qualsiasi applicazione delle circostanze attenuanti, ma senz'altro impeditivo di quella applicazione che determini, negli effetti, la prevalenza dell'attenuante nella determinazione della pena base da irrogarsi nel caso concreto. Cosi' argomentando in ordine alle possibili interpretazioni del novellato art. 69 c.p., in relazione alla circostanza attenuante di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309 del 1990, questo giudicante ritiene che l'impianto normativo da applicarsi al caso in esame non consenta interpretazioni differenti rispetto all' indicata condanna ad anni sei di reclusione ed euro 26.000 di multa. 6. - Ma tale impianto normativo, come si e' detto, appare, ad avviso del remittente, in contrasto con il principio costituzionale della finalita' rieducativa della pena e con il principio di uguaglianza. La Corte costituzionale ha avuto piu' volte modo di precisare la portata della disposizione dell'articolo 27 della Costituzione e l'ambito del proprio sindacato in merito alle scelte del legislatore in materia di trattamento sanzionatorio. Al riguardo particolarmente significativa appare la sentenza della Corte costituzionale n. 313 del 1990, la quale si e' espressa in merito alla necessita' che la legittimazione della funzione della pena sia compiuta anche tramite il rispetto della finalita' rieducativa del condannato. In particolare, in quella sede, la Corte costituzionale ha avuto modo di rilevare che se la funzione della pena fosse intesa come limitata alla prevenzione ed alla difesa sociale, riducendo l'operativita' della finalita' rieducativa individuata dall'art. 27 Cost. negli angusti limiti del trattamento penitenziario, «si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarita' della sanzione». La Corte ha dunque precisato che «la necessita' costituzionale che la pena debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Cio' che il verbo «tendere» vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'e' dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici di decurtazione della pena ogniqualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita' rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave, compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (ne' in sede normativa ne' in quella applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto». La Corte costituzionale, pertanto, ha concluso che «il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza», facendo rilevare come il principio di proporzione tra la quantita' e la qualita' della sanzione da una parte ed offesa dall'altra sia diventato patrimonio dell'intera cultura giuridica europea. Nel caso di specie, in particolare, si ritiene che il vincolo imposto al giudice nella determinazione della pena in maniera affatto avulsa dalla considerazione dei connotati obiettivi del fatto costituisca evidente violazione del principio della fmalita' rieducativa della sanzione penale. Infatti, l'art. 69 c.p., nel novellato quarto comma, impone di conferire rilievo alla circostanza soggettiva della persona del colpevole - consistente nell'aver riportato piu' condanne penali, anche e prescindere da ogni considerazione circa la tipologia dei precedenti reati commessi - a discapito della connotazione obiettiva del fatto e delle circostanze della condotta contestata. In particolare, il divieto fatto al giudice di tener conto della condotta concretamente tenuta dall'imputato - la cui considerazione potrebbe indurre alla concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti o, nel caso di specie, all'applicazione del qumto comma dell'art. 73 del d. P.R. cit. in luogo del primo comma della medesima norma - appare improntato ad irragionevole severita' nell'esercizio della discrezionalita' legislativa, con fondato pericolo di compromissione di quella finalita' rieducativa della pena che, invece, dovrebbe costituire il primario criterio di guida nella politica sanzionatoria perseguita dalla legge. Appare opportuno, a questo punto, richiamare i principi espressi dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 313 del 1995: «Perche' sia possibile operare uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore, e' pertanto necessario che l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalita' che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica di «eccesso di potere» e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa. Non e', quindi, qualsiasi mutamento del costume o della coscienza collettiva a poter indurre nuove gerarchie di valori idonee a compromettere, sul piano della ragionevolezza costituzionalmente rilevante, la ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata in sede normativa attraverso l'individuazione delle condotte penalmente rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento sanzionatorio, giacche', ove cosi' fosse, alla relativita' di un giudizio di valore - quello legislativo - finirebbe ineluttabilmente per sovrapporsi un controllo di ragionevolezza anch'esso relativo e, come tale, idoneo a realizzare una funzione eminentemente «creativa» che sicuramente fuoriesce dai compiti riservati a questa Corte. L'apprezzamento in ordine alla manifesta irragionevolezza della quantita' o qualita' della pena comminata per una determinata fattispecie incriminatrice finisce, dunque, per saldarsi intimamente alla verifica circa l'effettivo uso del potere discrezionale, nel senso che, ove uno o piu' fra i valori che la norma investe apparissero sviliti al punto da risultare in concreto compromessi ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a non potersi dire correttamente esercitata, proprio perche' carente di alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi». Nel caso in esame, le disposizioni normative richiamate appaiono viziate da irragionevolezza nella misura in cui dalla scelta discrezionale dell'inasprimento del trattamento sanzionatorio nei confronti dell'imputato recidivo si fa discendere una inaccettabile scissione tra il fatto concreto contestato e la risposta punitiva dell'ordinamento, che pare prescindere dall'oggetto della imputazione per ancorarsi con stretta automaticita' ai soli precedenti penali del soggetto. La Corte costituzionale, peraltro, ha in piu' occasioni precisato che l'individualizzazione della pena, in modo da tenere conto dell'effettiva entita' e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo dei principi costituzionali tanto di ordine generale (principio di uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale, tanto piu' che lo stesso principio di legalita' della pena ex art. 25, secondo comma Cost. si inserisce in un sistema in cui si esige la differenziazione piu' che l'uniformita'. In tale quadro, ha un ruolo centrale la discrezionalita' giudiziale, nell'ambito dei criteri segnati dalla legge (in tal senso, sentenze n. 50 del 1980, 104 del 1968; 118 del 1973). 7. - Le considerazioni svolte devono essere a questo punto raccordate al fine di specificare il profilo di incostituzionalita' dell'art. 69, quarto comma, c.p. in relazione a tutte circostanze attenuanti ad effetto speciale. A parere di questo giudicante, infatti, tutto quanto argomentato nei punti precedenti vale, in particolar modo, con riferimento alle attenuanti ad effetto speciale, a mezzo delle quali il legislatore ha inteso prendere atto della minore offensivita' delle fattispecie concrete, se ritenuta dal giudice del fatto, prevedendo una pena base differente rispetto a quella individuata dalla norma incriminatrice. La struttura di tali particolari attenuanti, dunque, e' costruita all'apposito scopo di conferire uno speciale rilievo al requisito dell'offensivita' giudicata ridotta, tanto da discostarsi dalla previsione generale del reato con autonoma determinazione della sanzione. Siffatte attenuanti, tra le quali rientra quella prevista dall'art. 73, quinto comma, del d.P.R. cit., proprio in ragione della peculiarita' della loro. struttura, esigono che rimanga in capo al giudice il potere-dovere di valutarne l'applicabilita', desumendola dalle sole connotazioni particolari del fatto. Una valutazione negativa svolta in via preventiva dal legislatore, necessariamente disancorata dalle circostanze proprie della concreta fattispecie, appare senza dubbio violativa, oltre che delle norme costituzionali richiamate, del profondo senso delle attenuanti ad effetto speciale come individuato dal medesimo legislatore ordinario. 8. - La Corte costituzionale, piu' volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale delle norme incriminatici in relazione al quantum di pena da irrogare, ha avuto modo di precisare che la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione delle pene appartengono alla politica legislativa e, quindi, alla discrezionalita' del legislatore, censurabile solo in caso di manifesta irragionevolezza (v. ordinanze mi. 456 del 1997 e 435 del 1998; ordinanza 207 del 1999). In particolare, con ordinanza 456 del 1997, chiamata a pronunciarsi in ordine ad un caso in cui veniva dedotta la violazione dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione per irragionevole esercizio della discrezionalita' legislativa nella determinazione della pena, la Corte ha ribadito che «la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione delle conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, quindi, all'incensurabile discrezionalita' del legislatore, con l'unico limite della manifesta irragionevolezza, che deve senz'altro escludersi nel caso in cui due condotte, ancorche' diverse nel disvalore, siano tuttavia trattate in modo omogeneo sul piano sanzionatorio dal legislatore, in quanto in questo caso l'adeguamento della pena all'effettivo disvalore della condotta rientra tra i compiti del giudice nell'esercizio dei poteri conferitigli dagli artt. 132 e 133 cod. pen.». Ebbene, nel caso di specie, la discrezionalita' del legislatore e' stata esercitata in maniera tale da sottrarre al giudice, per tutti i motivi suesposti, quel potere di adeguamento della pena all'effettivo disvalore del fatto. Pertanto, precludendo all'attivita' giurisdizionale la strada per l'esercizio di quel potere che costituisce legittimazione stessa, nel suo proprio ambito di azione, dell'ampia discrezionalita' legislativa, l'intervento normativo di riforma del quarto comma dell'art. 69 c.p. non puo' che reputarsi viziato da irragionevolezza. 9. - Le norme impugnate appaiono inoltre in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione, in quanto da un lato determinano una irragionevole disparita' di trattamento tra situazioni analoghe dall'altro impongono in maniera irragionevole un trattamento uguale per situazione molto differenti tra loro. Infatti, l'odierno imputato, in ragione della sua condizione soggettiva di recidivo, dovrebbe essere punito con pena di sei volte superiore nel minimo rispetto a quella irrogabile ad altro imputato che, eventualmente, si sia reso responsabile del medesimo fatto di detenzione, con conseguente eccessiva disparita' nel trattamento sanzionatorio in relazione a situazioni di fatto identiche. Non potendosi considerare ragionevole una cosi' grave differenza nelle conseguenze sanzionatorie fondata esclusivamente sulla condizione soggettiva dell'imputato. D'altro canto, il medesimo imputato subirebbe un trattamento sanzionatorio identico a quello di altro imputato che, in ipotesi, non abbia precedenti penali ma si sia reso responsabile della detenzione di ben maggiori quantitativi del medesimo stupefacente od addirittura di sostanza rientrante nel novero delle c.d. «droghe pesanti». Infatti, la parificazione effettuata a livello normativo tra le cd. «droghe pesanti» e l'hashish, unitamente al disposto dell'art. 69, comma quarto, c.p., produce la conseguenza di una irragionevole parificazione del trattamento sanzionatorio di fatti di detenzione illecita di sostanze stupefacenti ben differenti tra di loro. Invero, non puo' affermarsi che il disvalore penale della detenzione di una quantita' equivalente a venti dosi singole di hashish possa essere parificato al disvalore insito nella detenzione di ben piu' elevate dosi di droghe c.d. «pesanti». Al giudicante rimettente, tuttavia, e' preclusa la valutazione effettiva di tale minore disvalore dal disposto dell'art. 69, quarto comma, c.p. che, pertanto, si pone in contrasto anche con l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui impone il medesimo trattamento sanzionatorio con riguardo a fattispecie di detenzione di sostanza stupefacente ben diverse tra loro, esclusivamente in virtu' delle precedenti condanne riportate dall'imputato. Allo stesso modo, apparirebbe violato il principio di eguaglianza laddove, per il solo effetto della recidiva, fossero sanzionati con pene di molto piu' severe soggetti che si siano resi responsabili dei medesimi fatti.