IL TRIBUNALE

    Ha  emesso  la seguente ordinanza di trasmissione degli atti alla
Corte  costituzionale  e  di  sospensione del giudizio art. 23, legge
n. 87 del 1953;
    A  scioglimento della riserva di cui al verbale d'udienza in data
16 febbraio 2007;
    Pronunziando nel procedimento penale a carico di Filippo Cestie',
imputato  del  reato  di  cui  all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309   «perche'  illecitamente  deteneva  totali  grammi  0,610  di
sostanza stupefacente denominata eroina, pari a 6 singole dosi, delle
quali  1  (una,)  cedeva a Mohamed Abl El Aziz. In Roma il 13 gennaio
2007. Con recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale»;
    Udita  l'istanza,  avanzata all'udienza in data 16 febbraio 2007,
con  cui  l'avv. Fabrizio Pennesi, difensore d'ufficio dell'imputato,
sollevava  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69,
quarto  comma,  codice penale, come novellato dall'art. 3 della legge
5 dicembre  2005, n. 251, per sospetta violazione degli artt. 3, 24 e
27 della Costituzione;
    Esaminati gli atti;

                            O s s e r v a

    1.  - La questione sollevata dalla difesa appare rilevante per il
giudizio e non manifestamente infondata.
    2.  - Filippo Cestie' veniva tratto in arresto in data 13 gennaio
2007  per  il  reato  di  cui  all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309  (fatto  meglio  descritto  in  epigrafe),  e presentato dalla
polizia  giudiziaria all'udienza del 15 gennaio 2007 per la convalida
ed il contestuale giudizio.
    Convalidato  l'arresto  ed  applicata  la  misura cautelare della
custodia  in  carcere, si disponeva procedersi a giudizio nelle forme
del rito direttissimo.
    Alla  successiva  udienza  del  20 gennaio 2007 - cui il processo
slittava  per  concessione  del  chiesto termine a difesa - la difesa
dell'imputato  preannunciava  una  richiesta  di applicazione di pena
concordata,  sub-specie  di  lavoro  di  pubblica  utilita', ai sensi
dell'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, all'uopo chiedendo
rinvio  per  munirsi  di  documentazione  sanitaria  sullo  stato  di
tossicodipendenza dell'imputato.
    All'udienza  del  16 febbraio  2007 la difesa, nell'illustrare la
richiesta  di applicazione di pena concordata, ai sensi dell'art. 444
c.p.p.,    sollevava    la   predetta   questione   di   legittimita'
costituzionale   del  novellato  art. 69,  quarto  comma,  c.p.,  che
impedirebbe  il  contenimento  della  pena nei limiti edittali di cui
all'art. 73,  quinto  comma,  d.P.R.  n. 309  del 1990, aggravando in
maniera   sproporzionata   il   trattamento  punitivo  per  il  reato
effettivamente  commesso.  Il  pubblico  ministero  si  rimetteva  al
tribunale.
    3.  -  Con  memoria  integrativa  depositata in data 27.2.2007 il
difensore,  maggiormente  esplicando il contenuto delle censure mosse
all'attuale  disposto  dell'art. 69  c.p., come novellato dalla legge
n. 251 del 2005, evidenziava:
        un   primo   profilo   di   contrasto   con   l'art. 3  della
Costituzione,   in   relazione   alla   notevole   ed  ingiustificata
discriminazione operatasi in danno degli imputati recidivi reiterati,
che si vedrebbero sanzionati con pene fino a cinque volte superiori a
quelle  irrogabili,  per  il  medesimo  fatto,  nei  confronti  degli
imputati comuni: come nel caso di specie, ove, pur in presenza di una
condotta  astrattamente riconducibile all'ipotesi di cui all'art. 73,
quinto  comma, d.P.R. n. 309 del 1990, punita con pena minima di anni
uno  di  reclusione, la pena da irrogare dovrebbe invece commisurarsi
ad  un  minimo  edittale  di  anni  sei di reclusione previsto per la
fattispecie  base  di cui all'art. 73, primo comma, d.P.R. n. 309 del
1990;
        un   secondo   profilo   di   contrasto  con  l'art. 3  della
Costituzione,   poiche',  imponendo  di  determinare  il  trattamento
punitivo non in base al fatto compiuto, ma solo al numero, al tipo ed
alla  frequenza  dei  reati in precedenza commessi, la suddetta norma
vanificherebbe  ogni  potere  discrezionale  del  giudice  in  ordine
all'applicazione  della  pena  ed alla valutazione della personalita'
del reo, ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p.;
        un   ulteriore  profilo  di  contrasto  con  l'art. 24  della
Costituzione,  in relazione alla menomazione del diritto di difesa ed
alla violazione dei principi del c.d. giusto processo, per effetto di
un  meccanismo  che,  in  presenza  di  gravi indizi di colpevolezza,
ridurrebbe  di  fatto  le possibilita' della difesa all'unica opzione
del  rito alternativo, al fine di contenere il piu' possibile la pena
e cosi' di adeguarla all'effettiva gravita' del fatto commesso;
        un   profilo   di  contrasto,  infine,  con  l'art. 27  della
Costituzione,  poiche'  la  negazione  di  un  completo  giudizio  di
comparazione   tra   circostanze   di  segno  opposto  condurrebbe  -
soprattutto  per ipotesi di reato quali quella in esame - ad irrogare
pene  assolutamente  sproporzionate  ed  inutilmente  punitive,  che,
vissute  dal  condannato  come espressione di profonda ingiustizia in
relazione   ai   diversi   trattamenti   sanzionatori   riservati   a
comportamenti  analoghi di soggetti incensurati, gli impedirebbero di
comprendere  l'effettivo  disvalore del fatto commesso e di vivere la
pena come percorso di reinserimento nella societa'.
    4.   -   Ulteriori  considerazioni  vanno  svolte  riguardo  alla
rilevanza della questione nel presente giudizio, a supporto di quanto
gia' accennato nell'istanza difensiva e nella memoria.
    4.1. - Tutte le circostanze del caso concreto ed, in particolare,
la  minima  quantita'  di  sostanza  stupefacente  fatta  oggetto  di
cessione  (pari  ad  una sola dose di eroina) e per il resto detenuta
(pari  a  cinque  dosi)  depongono  per la minima offensivita' penale
della  condotta:  il che indurrebbe a ritenere senz'altro sussistente
l'ipotesi  del  fatto  di lieve entita' prevista dall'art. 73, quinto
comma, d.P.R. n. 309/1990.
    Al  riguardo,  la  suprema Corte di cassazione a sezioni unite ha
gia'  da tempo autorevolmente e condivisibilmente affermato che detta
ipotesi normativa configura non una fattispecie autonoma di reato, ma
una   circostanza   attenuante  ad  effetto  speciale,  essendo  essa
correlata   ad  elementi  (i  mezzi,  le  modalita',  le  circostanze
dell'azione,  la  qualita'  e  la  quantita'  delle sostanze) che non
mutano,   nell'obbiettivita'   giuridica   e   nella   struttura,  le
fattispecie   previste   dai   primi   commi   dell'articolo,   ma  -
conformemente del resto a quanto sempre ritenuto dal supremo Collegio
in  presenza  di  espressioni  normative  relative ai «fatti di lieve
entita» - attribuiscono ad esse solo minore valenza offensiva e grado
di  pericolosita'  (cfr., sul punto, Cass., sez. un., 31 maggio 1991,
Parisi).
    Detto   principio,   costantemente   seguito   dalla   successiva
giurisprudenza  di  legittimita'  si'  da  divenire  diritto vivente,
conserva intatta la sua validita', non essendone mutati i presupposti
argomentativi  di  fondo,  anche  a seguito dei successivi interventi
normativi  incidenti  sul  Testo  unico  delle  leggi  in  materia di
disciplina  degli  stupefacenti  e sostanze psicotrope (d.P.R. n. 309
del  1990), sino all'ultimo, costituito dalla legge 21 febbraio 2006,
n. 29.
    Detta  ultima  novella  rafforza  anzi il suddetto convincimento,
laddove  elimina  in  radice  l'argomento  letterale  utilizzato  dai
fautori  della tesi contraria, desumibile dal disposto del previgente
art. 90,  d.P.R.  n. 309  del  1990,  il  quale stabiliva, in tema di
sospensione  dell'esecuzione  della  pena  detentiva,  che «la stessa
disposizione  si  applica  per  i  reati previsti dall'art. 73, comma
5...».
    Ebbene,  il menzionato art. 90, nella sua nuova formulazione, non
contiene  piu'  il  predetto,  equivoco riferimento ai «reati» di cui
all'art. 73,  comma  5,  d.P.R.  n. 309  del  1990; mentre, per altro
verso,  rimane  fermo  l'argomento di segno opposto, desumibile dalla
lettera   dell'art. 380,   secondo  comma,  lett.  h),  c.p.p.,  come
sostituito  dall'art. 2 decreto-legge n. 247 del 1991, convertito, in
legge   n. 314  del  1991,  il  quale  definisce  espressamente  come
«circostanza»  la  fattispecie prevista dal quinto comma dell'art. 73
d.P.R. n. 309 del 1990.
    4.2.  -  Dal  rilievo  che  trattasi  inequivocabilmente  - anche
nell'attuale  regime  normativo - di circostanza attenuante, sia pure
ad effetto speciale, discende che essa, ove concorrano circostanze di
segno  opposto, e' soggetta all'obbligatorio giudizio di comparazione
di cui all'art. 69, quarto comma, c.p.
    Non  e' applicabile, infatti, al riguardo, la disposizione di cui
all'art. 63,  terzo comma, c.p. («Quando per una circostanza la legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o
si  tratta  di  circostanza  ad  effetto  speciale,  l'aumento  o  la
diminuzione  per  le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria
del  reato,  ma  sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta»),
riferendosi   detta   disposizione   esclusivamente  al  concorso  di
circostanze   omogenee,   ossia  al  concorso  di  circostanze  tutte
aggravanti  o tutte attenuanti (cfr. Cass., sez. VI, 15 ottobre 2002,
Mazzei).
    Per   converso,   al  concorso  di  circostanze  eterogenee  deve
applicarsi  l'art. 69,  quarto  comma,  c.p.,  il quale espressamente
estende   l'applicabilita'  delle  «disposizioni  precedenti»  (ossia
l'obbligatorio  giudizio  di comparazione) alle «circostanze inerenti
alla  persona  del  colpevole  e a qualsiasi altra circostanza per la
quale  la  legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la
misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato»
(cfr. Cass., sez. VI, 15 ottobre 2002, Mazzei).
    E'  pertanto  obbligatorio  - come gia' premesso - il giudizio di
comparazione  tra  la  circostanza  attenuante  ad  effetto  speciale
prevista  dall'art. 73,  quinto  comma,  d.P.R.  n. 309 del 1990 e le
circostanze  aggravanti eventualmente ritenute, in esse ricompresa la
recidiva  (circostanza  inerente  la  persona  del colpevole): con la
conseguenza  che,  in  caso  di  equivalenza, «si applica la pena che
sarebbe  inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze», ai
sensi   dell'art. 69,   terzo  comma,  c.p.  (cfr.  Cass.,  sez.  VI,
15 ottobre 2002, Mazzei).
    4.3.  -  Nel  caso di specie, alla riconoscibile attenuante della
lieve  entita'  del  fatto  si  contrappone  la  contestata  recidiva
reiterata, che e' evidentemente sussistente.
    L'imputato   Filippo   Cestie'  risulta,  infatti,  essere  stato
condannato  in  sede  penale  diverse volte, per reati, in gran parte
specifici,  che  vanno dal 5 maggio 1982 al 15 gennaio 2004; ed in un
caso, peraltro, pure con espressa contestazione di recidiva, ai sensi
dell'art. 99  c.p.  (cfr.  sentenza  del  Tribunale  di  Roma in data
20 marzo  2003, annotata sul certificato del casellario giudiziale in
atti).
    Appare percio' indubitabile che ricorre nella specie l'aggravante
della recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, c.p.
    4.4.  -  Orbene, l'art. 3 legge 5 dicembre 2005, n. 251, ha cosi'
sostituito  il  quarto  comma dell'art. 69 c.p.: «Le disposizioni del
presente  articolo  si applicano anche alle circostanze inerenti alla
persona  del  colpevole,  esclusi  i  casi previsti dall'articolo 99,
quarto  comma,  nonche' dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero
4),  per cui vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti
sulle   ritenute   circostanze   aggravanti,  ed  a  qualsiasi  altra
circostanza  per  la  quale  la  legge  stabilisca una pena di specie
diversa  o  determini  la  misura  della pena in modo indipendente da
quella  ordinaria  del  reato»:  laddove  l'effettiva novita' risiede
nell'aggiunta,  nel corpo del vecchio testo, della locuzione «esclusi
i  casi  previsti  dall'articolo  99,  quarto  comma,  nonche'  dagli
articoli  111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi e' divieto di
prevalenza  delle  circostanze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti».
    Siffatta novella all'evidenza impedisce, nell'ipotesi di recidiva
reiterata,   che  eventuali  circostanze  attenuanti  possano  essere
valutate  piu'  che  equivalenti rispetto alla recidiva medesima: con
l'effetto  di  imporre  l'irrogazione  della  pena  prevista  per  la
fattispecie  base  anche in ipotesi in cui la complessiva valutazione
di tutti gli elementi del caso concreto, ai fini della determinazione
di  una pena perfettamente adeguata all'effettiva gravita' del fatto,
avrebbe   indotto   il   giudicante   ad  assegnare  prevalenza  alle
riconosciute circostanze attenuanti.
    Nel   caso   di   specie,  il  minimo  quantitativo  di  sostanza
stupefacente   fatta   oggetto   di   cessione,   nonche'  il  minimo
quantitativo  di  sostanza  stupefacente  detenuta,  la risalenza dei
precedenti  penali  pur  specifici (l'ultimo dei quali si riferisce a
fatto di due anni prima), il difetto di ulteriori dati sintomatici di
un'attivita'  professionale  o  di' un'organizzazione di mezzi, anche
rudimentali,  finalizzata  allo  spaccio,  o  di  attuale continuita'
nell'attivita'  di  cessione,  sono tutti elementi che indurrebbero a
dare  prevalenza  alla  circostanza  attenuante  del  fatto  di lieve
entita' sulla contestata recidiva, si' da contenere equamente la pena
detentiva  tra uno e sei anni di reclusione, e la pena pecuniaria tra
3.000 e 26.000 euro di multa.
    Come si e' visto, siffatta conclusione e' impedita dal divieto di
prevalenza  imposto  dal  novellato  art. 69,  quarto comma, c.p., in
virtu'  del  quale  la  pena minima da infliggere all'imputato, prima
dell'applicazione  della  diminuente  di rito, sarebbe quella di anni
sei   di  reclusione  ed  euro  26.000  di  multa:  pena  che  appare
manifestamente  sproporzionata  e non adeguata rispetto alla condotta
posta effettivamente in essere dall'imputato.
    4.5.  -  In  virtu'  dei rilievi che precedono appare evidente la
rilevanza  della  questione  per  la decisione del presente giudizio,
attenendo  essa  ai limiti edittali di cui le parti richiedenti ed il
giudicante  devono  tenere  conto  ai fini della determinazione della
pena irroganda.
    5.  -  Talune precisazioni merita, inoltre, il punto circa la non
manifesta infondatezza della questione.
    5.1.  -  Il  sospetto di incostituzionalita' dell'art. 69, quarto
comma,  c.p., come novellato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005,
n. 251,  nasce anzitutto in relazione all'art. 27 della Costituzione,
il  quale  stabilisce,  al  terzo  comma,  che  le  pene  non possono
consistere  in  trattamenti  contrari  al  senso di umanita' e devono
tendere alla rieducazione del condannato.
    La  norma  appare in contrasto con la finalita' rieducativa della
pena  laddove  impedisce al giudice, anche quando questi lo ritenesse
necessario  nell'ottica  fissata dal citato art. 27 Cost. e secondo i
generali criteri imposti dall'art. 133 c.p., di formulare un giudizio
di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute aggravanti.
    La   finalita'  del  giudizio  di  comparazione  tra  concorrenti
circostanze   di   segno  opposto  e',  infatti,  proprio  quella  di
apprezzare  in  modo pieno e completo la personalita' del colpevole e
l'effettiva  entita' del fatto per conseguire il perfetto adattamento
della  pena  al  caso  concreto (cfr. Cass., sez. IV, 28 giugno 2005,
n. 30432, P.G. Milano in proc. Matti).
    In  tal  senso,  la  limitazione  normativa vulnera fortemente il
potere-dovere  del  giudice  di pervenire ad una determinazione della
pena  realmente  aderente alla complessiva personalita' dell'imputato
ed  alla  sua  effettiva  condotta:  cosi'  frustrando  la  finalita'
rieducativa  della  pena, e presuppone ontologicamente un trattamento
sanzionatorio   proporzionato   all'effettiva   gravita'   del  fatto
commesso.
    5.2.  -  Il  sospetto  di  incostituzionalita' della citata norma
riguarda pure l'art. 3 della Costituzione.
    La  norma  appare  infatti  lesiva  del principio di eguaglianza,
laddove  quest'ultimo  si traduce per il legislatore in un imperativo
di ragionevolezza delle differenziazioni ed equiparazioni operate.
    Sotto  tale  profilo,  precludere  in  assoluto  il  giudizio  di
prevalenza   conduce   ad   accomunare   nel   medesimo   trattamento
sanzionatorio  condotte  di  gravita'  estrema e condotte di gravita'
modestissima,  che  ben  altro  trattamento  meriterebbero se fossero
isolatamente considerate, come imporrebbe un sistema penale che resta
tuttora  incentrato  sul  fatto  offensivo  prima  ancora  che  sulla
personalita' del reo.
    Ma   analogo   appiattimento   dei  trattamenti  sanzionatori  si
registrerebbe  all'interno della stessa categoria dei recidivi: nella
determinazione  della  pena  -  condizionata  dal suddetto divieto di
prevalenza - dovrebbe comunque prescindersi, in misura non marginale,
non  solo dal complessivo atteggiarsi del fatto ma anche dalla stessa
personalita'  dell'imputato:  parificandosi,  ad  esempio,  i casi di
imputati  i  quali  fossero  ritenuti meritevoli di una pluralita' di
attenuanti ai casi di imputati ai quali fosse invece riconosciuta una
sola  circostanza  attenuante;  i  casi  di  recidivi  per reati c.d.
«bagatellari»  o comunque di modesta gravita' ai casi di recidivi per
reati  gravissimi;  i  casi di recidivi per reati assai risalenti nel
tempo ai casi di recidivi per reati recentemente commessi.
    Le  inevitabili  ripercussioni  sulla proporzionalita' della pena
rispetto  al  fatto  sono tanto piu' evidenti in casi, come quello in
esame,  in  cui la fattispecie incriminatrice base e' punita con pena
minima  edittale  cinque  volte  superiore  a  quella prevista per la
corrispondente fattispecie attenuata del fatto di lieve entita'.
    Siffatto   altissimo   minimo   edittale  di  pena  difficilmente
indurrebbe,  nella  ordinarieta'  dei  casi, a discostarsi dal limite
medesimo:  il che contribuirebbe, anche per questa via, ad appiattire
la   risposta   sanzionatoria   di   fronte   a   reati  di  gravita'
differenziata.
    Sotto  il medesimo profilo, merita infine di essere ulteriormente
considerato  per i reati di competenza del giudice di pace l'art. 52,
terzo  comma,  d.lgs. n. 274 del 2000 continua a prevedere un'ipotesi
di  bilanciamento  di  opposte circostanze con giudizio di prevalenza
sull'aggravante  della  recidiva  reiterata (infraquinquennale) («nei
casi  di  recidiva reiterata infraquinquennale, il giudice applica la
pena  della  permanenza  domiciliare  o quella del lavoro di pubblica
utilita'   salvo   che  sussistano  circostanze  attenuanti  ritenute
prevalenti o equivalenti»).
    L'attuale  vigenza di tale norma, non interessata dall'intervento
normativo operato con la legge n. 251 del 2005, e' fonte di ulteriori
perplessita' sulla legittimita' costituzionale del novellato art. 69,
quarto  comma,  c.p.: il quale, per i reati attualmente di competenza
del  giudice  di  pace  ed in relazione all'aggravante della recidiva
reiterata  infraquinquennale,  consente  quel  giudizio di prevalenza
negato,  per  i reati di competenza dei giudici superiori, in caso di
mera recidiva reiterata.
    6.   -   Il  riscontrato  conflitto  non  appare  superabile  con
interpretazione  adeguatrice, non consentendo ne' il tenore letterale
del  novellato  art. 69,  quarto  comma,  c.p. ne' quello delle altre
norme  qui  espressamente  considerate,  interpretazione  diversa  da
quella sostenuta in punto di rilevanza della questione.
    7.  -  Tali  sono  i  motivi  per  cui  appare  rilevante  e  non
manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' dell'art. 69,
quarto  comma,  codice penale, come novellato dall'art. 3 della legge
5 dicembre  2005,  n. 251,  nella  parte  in  cui,  nei casi previsti
dall'articolo   99,   quarto   comma,  c.p.,  stabilisce  divieto  di
prevalenza  delle  circostanze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti.