IL TRIBUNALE

    Tratto  a  giudizio  con  richiesia  del  p.m.  in  sede  in data
23 gennaio   2007,   Issa   Milut   imputato   del   reato   di   cui
all'art. 73/1-bis  d.P.R.  n. 309/1990  per avere detenuto ai fini di
illecita  cessione  a  terzi  gr.  2,42 di sostanza stupefacente tipo
eroina,  con  un  principio  attivo  di g 0,368 pari a complessive 15
dosi,  e  gr.  0,720  di  cocaina con principio attivo di gr. 0,114 -
fomulava,  tramite  difensore  munito di procura speciale, tempestiva
richiesta  di  definizione del procedimento nelle forme del giuidizio
abbreviato.
    Alla  udienza  preliminare  in  data 23 febbraio 2007, in sede di
discussione,  all'esito  delle  conclusioni  del  p.m.,  il difensore
chiedeva il riconosimento dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5
del  citato  decreto  in  considerazione  del modesto dato ponderale,
della scadente qualita' della sostanza delle rudimentali modalita' di
spaccio,   in   termini   di  prevalenza  sulla  contestata  recidiva
sottoponendo al vaglio di questo giudice la questione di legittimita'
costituzionale   dell'art.   69/4   c.p.   nella  nuova  formulazione
introdotta dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, posto che
dalla   mera   applicazione   del  giudizio  di  equivalenza  tra  le
circostanze   in   questione   deriverebbe  una  pena  manifestamente
sproporzionata  e  non  adeguata  rispetto  alla  condotta contestata
all'imputato.
    Infatti  nella  fattispecie  l'imputato  e'  recidivo  reiterato,
specifico, atteso che egli ha riportato quattro condanne per reati in
materia  di sostanze stupefacenti. E' appena il caso di rammentare in
proposito  che  la  recidiva  reiterata  puo' essere ritenuta, pur in
mancanza  di  una  precedente apposita dichiarazione giudiziale dello
status di recidivo, dichiarazione che non ha natura costitutiva (cfr.
Cass. 16 marzo 2004, Marchetta e ass. 6 maggio 2003, Andreucci).
    L'art. 69/4  c.p.,  novellando  la  norma codicistica previgente,
stabilisce  che  «Le  disposizioni del presente articolo si applicano
anche  alle  arcostnze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i
casi  previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli
111  e  112,  primo  comma,  numero  4),  per  cui  vi  e' divieto di
prevalenza  delle  circosranze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti,  ed  a  qualsiasi altra circosianza per la quale la legge
stabilisca  una  pena  di  specie diversa o determini la misura della
pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».
    Appare   di   tutta   evidenza  che  il  tenore  letterale  della
disposizione teste' riportata introduce una limitazione al potere del
giudice   di   formulare  il  giudizio  di  prevalenza  di  eventuali
circostanze   attenuanti   al   cospetto  della  recidiva  reiterata,
derogando  in  tal  modo  al disposto generale dell'art. 69, comma 4,
c.p.  introdotto  dall'art. della  legge  6  del  d.l. 11 aprile 1974
n. 99,  convertito,  con  modificazioni,  nella  legge 7 giugno 2004,
n. 220.
    In  particolare,  non puo' accedersi alla diversa interpretazione
prospettta  al  fine  di  circoscrivere  la portata applicativa della
disposizione  di  legge,  ossia  che  il  divieto di prevalenza possa
essere  limitato alle sole circostanze attenuanti inerenti la persona
del  colpevole,  atteso che in tal caso si finirebbe per escludere la
praticabilita'  del  giudizio  di prevalenza soltanto alle attenuanti
previste  agli  artt. 89,  91,  95,  96  c.p.  con  esiti  del  tutto
marginali,  rispetto  alla  finalita'  conclamata di inasprimento del
trattamento  sostanziale  e  processuale  del  recidivo reiterato, ed
addirittura  irragionevoli  (in  via  esemplificativa potrebbe essere
riconosciuta  la  prevalenza sulla recidiva reiterata dell'attenuante
di cui all'art. 62, n. 2 c.p. e non della seminfermita' mentale).
    Parimenti  non  puo'  convenirsi  sulla soluzione ermeneutica che
poggia  sulla  distinzione  tra la generica locuzione `attenuanti' di
cui  all'inciso e le attenuanti `qualificate' della seconda parte del
comma,  per farne discendere la limitazione del divieto di prevalenza
alle  sole  attenuanti comuni (art. 62 c.p.) e non alle attenuanti ad
effetto  speciale  ovvero  a  quelle che prevedono una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato, posto che, a prescindere dalla
debolezza  del  dato letterale al quale dovrebbe affidarsi il compito
di  marcare  una  consapevole  scelta  di campo del legislatore (che,
interpolando  l'art. 69,  comma 4 c.p. nella formulazione previgente,
ben  potrebbe  avere  adottato,  nell'inciso,  un termine volutamente
omnicomprensivo) non appare scevra anche in questo caso da profili di
irragionevolezza   consentendo   la   possibilita'  di  riservare  un
trattamento  sanzionatorio di maggior favore proprio ai recidivi che,
ad    esempio,    potrebbero    lucrare   l'effetto   di   prevalenza
dell'attenuante  di  cui  all'art. 648,  comma  2  c.p., e non quella
dell'art. 62, n. 4 c.p..
    Non ignora questo giudice che l'ordinamento contempla l'esistenza
di  disposizioni  di  legge che, derogando al principio dell'art. 69,
comma  4  c.p.  introducono  limitazioni  al giudizio di comparazione
delle circostanze eterogenee.
    Una  di  queste  e'  l'art. 1, comma 3 del d.l. 15 dicembre 1979,
n. 625,  convertito  nella  legge  6 febbraio 1980, n. 15 per i reati
commessi  con  finalita'  di  terrorismo  o  di eversione dell'ordine
democratico;  altra  e'  l'art. 7,  comma  2 del d.l. 13 maggio 1991,
n. 152,  convertito  con  modificazioni  nella  legge 12 luglio 1991,
n. 203  per  i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall'art.  416-bis  c.p.  o  al  fine di agevolare le associazioni di
stampo  mafioso; altra ancora e' l'art. 3, comma 2 del d.l. 26 aprile
1993  n. 122,  convertito,  con  modificazioni, nella legge 25 giugno
1993,  n. 205 per i delitti commessi per finalita' di discriminazione
o  di  odio  etnico, nazionale, religioso; infine l'art. 12/3-quater,
legge  n. 286/1998  introdotto  dall'art.  11/1,  lett c) della legge
30 luglio  2002,  n. 189  per  i  delitti di illegale introduzione di
cittadini extracomunitari.
    Con  la  prima delle disposizioni sopra citate venne disposto che
«le  circostanze  attenuanti  concorrenti con la aggravante di cui al
primo  comma  (ossia  la  finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione
dell'ordine  democratico)  non  possono essere ritenute equivalenti o
prevalenti  rispetto  a  questa ed alle circostanze aggravanti per le
quali  la  legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina
la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato».
    La  norma  ebbe  a  superare  il vaglio di cositituzionalita' per
l'asserita  violazione  dell'art. 3,  avendo  il  giudice delle leggi
ritenuto   che  la  preclusione  del  giudizio  di  prevalenza  delle
circostanze  attenuanti  non avrebbe necessariamente impedito la loro
applicazione, dal momento che il venir meno della obbligatorieta' del
giudizio di bilanciamento - determinato proprio dalla limitazione del
potere  discrezionale  del  giudice  imposto  dall'art.  1, comma 3 -
avrebbe   consentito  il  recupero  del  principio  generale  sancito
dall'art.  63,  comma  3  c.p.,  con  la  conseguente possibilita' di
calcolare    la    diminuzione    di   pena   una   volta   applicata
(obbligatoriamente) l'aggravante.
    In  altri  termini, la corretta interpreizione della disposizione
avrebbe  posto il giudice nell'alternativa tra effettuare il giudizio
di  bilanciamento  riconoscendo carattere di prevalenza o equivalenza
all'aggravante,  ovvero  escluderlo,  e  dare  luogo  all'aumento per
l'aggravante  ed  alla  diminuzione  per l'attenuante o le attenuanti
riconosciute.
    Di tenore sostanzialmente analogo le ulteriori disposizioni sopra
richiamate  che,  con  formulazione  pressoche' identica prevedono il
divieto  di  equivalenza  o  prevalenza delle circostanze attenuanti,
diverse  da  quella di cui all'art. 98 c.p., rispetto alle aggravante
da  esse  introdotte, stabilendo altresi' che «le diminuzioni di pena
si   operano   sulla   quantita'   di  pena  risultante  dall'aumento
conseguente alla predetta aggravante».
    La  rottura  dell'obbligatorieta'  del  giudizio di bilanciamento
delle   circostanze,   affermata   dalla   sentenza   n. 38/1985  con
riferimento    all'aggravante    della   finalita'   di   terrorismo,
sostanzialmente ripresa e puntualizzata dalle successive disposizioni
derogatrici, potrebbe indurre a ritenere che anche nel caso di specie
l'interpretazione  costituzionalmente  orientata  imponga una lettura
della disposizione dell'art. 69, comma 4 c.p. su di una duplicita' di
piani,  scindendo  l'ipotesi  in  cui il giudice tenda a procedere al
bilanciamento  (caso  in  cui  la  rilevanza della recidiva reiterata
imporrebbe   di   pervenire   ad  un  giudizio  di  prevalenza  o  di
equivalenza),  da quella in cui ritenga prevalenti le attenuanti; nel
qual   caso  l'effetto  della  norma  in  questione  si  risolverebbe
nell'imporre    l'applicazione,    a   questo   punto   obbligatoria,
dell'aggravante   sulla   pena   risultante  dalla  comparazione  ira
attenuanti diverse dalla recidiva reiterata.
    Reputa  tuttavia  lo  scrivnte  che  siffatta interpreiazione non
possa ricavarsi ne' dal testo normativo, ne' per via sistematica.
    In  primo  luogo, e' il caso di constare che l'art. 3 della legge
251 e' intervenuto direttamente sul testo dell'art. 69 c.p., cio' che
pare  assumere  effetti conformativi della disciplina del concorso di
circostanze  eterogenee  modellandola  in  via  generale nel senso di
precludere  uno  dei  possibili  esiti  dell'esplicazione  del potere
discrezionale  del  giudice, quello della prevalenza della attenuanti
sulla recidiva reiterata.
    In  secondo  luogo  la  disposizione  in  oggetto  non prevede, a
differenza  delle  norme  di  legislazione speciale, il richiamo alla
disciplina  del  concorso  eterogeneo  stabilita dall'art. 63 c.p., e
tale  scelta  non  sembra  priva  di  significato, dal momento che la
formulazione  delle deroghe al principio ricavabile dall'art 69. c.p.
appariva  giustificarsi  proprio in ragione dell'adesione all'opzione
interpretativa  della  Corte  che  si  adisce,  e della necessita' di
dissolvere le ambiguita' interpretative cui aveva dato luogo la norma
capostipite.
    In  altri  termini, la nuova formulazione dell'art. 69 cp. sembra
imporsi  come  consapevole  limitazione  del potere discrezionale del
giudice  di  procedere  al  giudizio  di  bilanciamento  in  tutte le
possibili esplicazioni attraverso la preclusione di uno dei possibili
esiti  (il  giudizio  di  prevalenza  delle attenuanti sulla recidiva
reiterata.
    Tanto   premesso,   poiche'   appare  assodato  pacificamente  ed
incontrovertibilmente  che  la disposizione di cui all'art. 73, comma
5,  d.P.R.  n. 309/1990 integri una circostanza attenuante ad effetto
speciale, e' di immediata percezione che a fronte della contestazione
della  recidiva reiterata (qui anche specifica ed infraquninquennale)
sarebbe  precluso il giudizio di prevalenza della prima che, al piu',
potrebbe  incidere,  unitamente  ad  altre attenuanti - ad esempio le
generiche - a fondare un giudizio di equivalenza.
    Da  cio'  discenderebbe che fatti di contenuta rilevanza sotto il
profilo oggettivo, tanto per modalita' dell'azione quanto per entita'
del  dato  ponderale,  destinati  di  norma  a  trovare  la  risposta
sanzionatoria nell'area di applicabilita' dell'ipotesi attenuata, ove
consumati  da  recidivi  reiterati (ed indipendentemente dalla natura
della  recidiva)  dovrebbero  necessariamente essere puniti a termini
del ben piu' severo art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, vale a dire
con una pena minima edittale di anni 6 di reclusione ed Euro26.000,00
di multa.
    In   termini  piu'  generali,  il  divieto  di  prevalenza  delle
circostanze  attenuanti,  c.d.  ad  effetto  ordinario  e  ad effetto
speciale,  priverebbe  il giudice della possibilita' di inquadrare il
trattamento  sanzionarlo nell'area della minor gravita' in tutti quei
casi  di  riconoscimento  normativo  -  attraverso  l'introduzione di
ipotesi attenuate - del minor disvalore del fatto (e' il caso, in via
meramente  esemplificativa  degli artt. 609-bis, u.c. 648, comma 2 o,
con riguardo alle attenuanti ad effetto comune, 323-bis c.p.).
    L'interpretazione  dell'art. 69,  comma  4  c.p.  come modificato
dall'art. 3 della legge n. 251/2005 sopra prospettata, che si ritiene
la  sola praticabile, sia sotto il profilo letterale che sotto quello
sistematico  non  sembra  sottrarsi  a  fondati dubbi di legittimita'
costituzionale  per  violazione degli artt. 3, comma 1, 25, comma 1 e
27, comma 3.
    Tuttavia,  l'attuale  formulazione dell'art. 69/4 c.p., appare al
giudicante  in contrasto, innanzitutto, con l'art. 3/1 Cost, e quindi
con  il  principio di ragionevolezza, quale accezione particolare del
principio di uguaglianza.
    E'  noto  infatti  che  la  Corte  costituzionale  ha  piu' volte
affermato  che  rientra  nella  discrezionalita'  del  legislatore la
determinazione  della  quantita'  e  della  qualita'  della  sanzione
penale; nel contempo, pero', il giudice delle leggi ha evidenziato in
numerose  pronunce  che  l'esercizio  di  tale  discrezionalita' puo'
essere   sindacato   quando   esso   non  rispetti  il  limite  della
ragionevolezza, e dia luogo, quindi, ad una disparita' di trattamento
palesemente  irragionevole  (cfr.  per  tutte ordinanza n. 438/2001).
Anche da ultimo il giudice delle le ha opportunamente ribadito che «a
prescindere dal rispetto di altri parametri, la normativa deve essere
anzitutto  conforme  a  criteri  di  intrinseca ragionevolezza) (cfr.
sent. n. 78 del 10-18 febbraio 2005).
    La  giurisprudenza  della Corte che si adisce ha da tempo fissato
le  coordinate che segnano la dimensione ontologica e finalistica del
trattamento   sanzionatorio   secondo   i   precetti   costituzionali
ricavabili dall'art. 3 dai commi primo e terzo dell'art. 27.
    La   sproporzione   e   la   irragionevolezza   del   trattamento
sanzionatorio per casi quale quello in esame confliggono anche con il
principio della funzione rieducativa della pena (art. 27/3 Cost), non
apparendo  soddisfacente,  per  motivare  la eventuale compatibilita'
della  norma  con  detta funzione, la mera possibilita' di avvalersi,
nella   esclusiva  sede  esecutiva,  delle  misure  alternative  alla
detenzione previste dall'ordinamento.
    La  preclusione  imposta al giudice di formulare eventualmente un
giudizio  di prevalenza di una o piu' circostanze attenuanti rispetto
alla   recidiva   reiterata,  senza  lacuna  eccezione,  comporta  un
appiattimento   del  trattamento  sanzionatorio  per  situazioni  che
potrebbero  essere  assai diverse e potrebbero imporre, come nel caso
in esame, la irrogazione di una pena manifestamente sproporzionata ed
irragionevole,   dalla   espiazione   della   quale  non  deriverebbe
certamente la rieducazione del condannato.
    La  personalita'  della  responsabita'  penale, in particolare e'
assicurata   soltanto   da   un  trattamento  sanzionatorio  che  sia
proporzionato  rispetto  al  disvalore  del  fatto  concreto,  e tale
proporzione  diviene altresi' misura della uguaglianza dei consociati
rispetto  alla  pena,  la  cui  applicazione  viene  in  tal  modo ad
affrancarsi  da  connotazioni  tali  da  privilegiare,  in tutto o in
parte,  finalita'  di  difesa  sociale  spesso discendenti da moti di
opinione non sempre razionali.
    Difatti  «l'adeguamento  delle risposte punitive ai casi concreti
in   termini  di  uguaglianza  e/o  differenziazione  di  trattamento
contribuisce  da  un lato a rendere quanto piu' possibile "personale"
la  responsabilita'  penale,  nella prospettiva segnata dall'art. 27,
primo  comma e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione
della  pena  quanto  piu'  possibile "finalizzata", nella prospettiva
dell'art. 27,  terzo  comma,  Cost. L'uguaglianza di fronte alla pena
viene a significare, in definitiva, "proporzione" della pena rispetto
alle  "personali" responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne
conseguano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia
e  anche  di  tutela  delle  posizioni  individuali e di limite della
potesta'   punitiva  statale»  (sent.  n. 50/1980,  richiamata  dalle
sentenze 299/1992, 306/1993).
    Sotto   altro   ma  connesso  profilo,  superando  la  concezione
restrittiva  che voleva il principio rieducativo destinato ad operare
soltanto  nella  fase  esecutiva  si e' riconosciuto che la finalita'
enunciata  dall'art. 27  comma  3  contiene  un precetto rivolto allo
stesso  legislatore,  segnalando  «una  delle  qualita'  essenziali e
generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
l'accompagnano  da  quando nasce, nell'astratta previsione normativa,
fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990).
    Il   divieto   del   giudizio  di  prevalenza  della  circostanze
attenuanti,  implicherebbe  una  vera e propria eterogenesi dei fini,
sovvertendo  la finalita' rieducativa in favore di esigenze di difesa
sociale  «sacrificando  il  singolo  attraverso  l'esemplarita' della
sanzione»    (sent.    n. 313/1990    cit).    Difatti,   l'incidenza
obbligatoriamente   riconosciuta   alla   recidiva   specifica  nella
dosimetria  della pena si presta ad alterare la proporzione tra fatto
e  sanzione, connotando quest'ultima di un plusvalore rappresentativo
di finalita' eccedenti.
    Se  e' vero che il contenuto del principio costituzionale sancito
dall'art. 27,  comma  3 come rilevato dalla piu' aggiornata dottrina,
non puo' spingersi oltre la possibilita' per il reo di riappropriarsi
dei  valori  fondamentali  della  convivenza,  tra  i quali quello di
prestare  osservanza  ai  precetti  dell'ordinamento  penale,  e'  di
immediata  evidenza  la  necessita' che il destinatario percepisca il
disvalore  del  reato  commesso  e  l'esistenza  di  un  rapporto  di
immanente proporzione tra fatto e sanzione.
    Diversamente  la  rottura  del  punto di equilibrio finirebbe per
ingenerare  sentimenti  di  insofferenza  e  ribellione  ad  una pena
percepita,    nella    sua   connotazione   di   esemplarita',   come
ingiustificatamente affittiva.
    E'  quanto  accade nel caso di specie in cui, proprio per effetto
della  preclusione del giudizio di prevalenza, fatti di contenuto, se
non  addirittura  modesto,  disvalore  (si  pensi, per l'appunto alla
detenzione per uso non esclusivamente personale di un quantitativo di
stupefacente   di   poco   eccedente  i  limiti  tabellari,  o  della
ricettazione   di   beni  di  scarso  valore)  verrebbero  ad  essere
sottoposti,  se  commessi  da  qualsiasi  recidivo  reiterato,  ad un
trattamento sanzionatorio manifestamente sproprorzionato, dal momento
che  e'  lo  stesso  legislatore  ad  enucleare  un  area di condotte
meritevoli di una risposta sanzionatoria variabilmente piu' mite.
    Sotto  altro  profilo, calibrando la risposta sanzionatoria anche
in   funzione  della  pericolosita'  sociale  espressa  dal  recidivo
reiterato  secondo  un giudizio sostanzialmente presuntivo (posto che
nessun  rilievo viene riconosciuto alla natura della recidiva ed alla
qualita'  della  capacita' criminale da essa espressa) il legislatore
finirebbe  per  evocare aperture verso un diritto penale dell'autore,
in  evidente  contrasto  con  l'art. 25,  comma 2 Cost., che connette
indefettibilmente  la  responsabilita'  penale  -  ed  il trattamento
sanzionatorio che ne consegue - alla consumazione di un `fatto' nella
sua materialita'.
    La  questione  appare  quindi  non  manifestamente  infondata per
violazione degli artt. 3/1, 25//2 e 27/3 Cost.
    La  questione  e'  altresi'  rilevante  nel  presente processo in
quanto  il prevenuto, pur dovendo rispondere di un fatto connotato da
gravita'  riconducibile all'ambito di applicazione dell'ipotesi lieve
ex  art. 73,  comma  5  d.P.R.  n. 309/1990, in quanto provato il suo
status  di  recidivo  reiterato  specifico, si vedrebbe applicato, in
ipotesi  di  condanna,  il  piu'  severo  trattamento  sanzionatorio,
previsto dal comma 1 dello stesso articolo.