IL TRIBUNALE Sezione distaccata di Tione di Trento All'esito delle indagini preliminari, disposte dalla locale Procura della Repubblica, Bugoloni Beniamino era stato citato in giudizio, avanti questo giudice, per rispondere del reato in epigrafe, commesso in Fiave' (TN) fino al 10 ottobre 2001, in danno di Guella Sandro e di Dal Dot Francesco, rispettivamente, sindaco e segretario comunale del Comune di Fiave' (TN) mediante le condotte meglio, ivi, enunciate e, cioe', perche' nei ricorsi proposti dal prevenuto contro alcune delibere comunali, lo stesso, aveva, ripetutamente, utilizzato espressioni ritenute diffamatorie circa l'operato dell'ente e dei predetti pubblici ufficiali cosi' ledendo l'onore ed il decoro dei medesimi con le affermazioni di cui al capo d'imputazione. All'odierno giudizio si procedeva con rito abbreviato condizionato all'acquisizione di alcuni documenti su istanza del prevenuto e previa costituzione delle parti civili Guella e Dal Dot, le quali, accettavano tale rito. In particolare, le espressioni incriminante erano le seguenti: «non e' assolutamente vero che si possa deliberare variazioni di bilancio senza il parere obbligatorio del revisore dei conti, specie poi se lo stesso revisore dei conti ha dato le dimissioni per non aver avuto il coraggio di riferire al consiglio comunale circa la gravi irregolarita' di gestione rilevata... (omissis) risulta del tutto a falsa l'attestazione di regolarita' contabile e di copertura finanziaria redatta dal segretario comunale e per tanto si reputa che possano sussistere gli esterni dell'associazione a delinquere con i due professionisti e la stessa giunta comunale ed il segretario comunale che ben sapevano di avere a disposizione un capitolo di bilancio non capiente comunque per l'intera opera... (omissis) si suggerisce al segretario comunale una attenta lettura del regolamento di contabilita' in quanto sembra non abbia ben presente il cosa voglia dire apporre su una deliberazione il visto di regolarita' contabile e di copertura della spesa, a meno che non si voglia agevolare ulteriori furti alle casse comunali, sempre guarda caso da parte di amici degli amministratori comunali... Ben si puo' comprendere il clima "mafioso" che si respira nel palazzo per cui e' evidente la volonta' di condizionare sia i dipendenti che gli stessi organi deputati al controllo, a meno che questi non scelgano di dimettersi come puntualmente e' avvenuto» (cfr.: denuncie-querele dd. 23 ottobre 2001 presentate dalle parti offese sub fogli nn. 2-6 fascicolo p.m.). Cio' premesso, a prescindere dall'accertamento della materialita' e della sussistenza dell'elemento soggettivo, si impone con carattere di decisiva rilevanza, la probabile declaratoria d'improcedibilita' per estinzione del reato a seguito dell'intervenuto decorso del termine di prescrizione stabilito dall'art. 157, quinto comma c.p. come modificato ad opera dell'art. 6 della legge n. 251/2005, senza che fossero intervenuti atti interruttivi, prima del decreto di citazione in giudizio dd. 25 settembre 2006 per le seguenti considerazioni. Al riguardo, il giudicante osserva che il fatto contestato era accaduto nell'ottobre dell'anno 2001 e che, quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quelle detentive e da quelle pecuniarie, il termine prescrizionale e' di tre anni: in buona sostanza, tale termine vale per tutti i reati di competenza del giudice di pace e, cioe', per le c.d. pene «paradetentive», applicabili, per effetto del combinato disposto dell'art. 15 della legge n. 468/1999 dell'art. 4 del D.lgs. n. 274/2000, nonche', dell'art. 1 del decreto-legge n. 91/2001 convertito con modificazioni dall'art. 1 della legge n. 163/2001, anche al delitto di diffamazione. In conclusione, alla data di emissione del decreto di citazione a giudizio anche il termine massimo di prescrizione previsto dagli artt. 160- 161 c.p., cioe', quello di 3 anni e nove mesi, era interamente decorso. E', quindi, di tutta evidenza che ai fini della presente decisione occorrebbe applicare la disposizione di cui all'art. 157, quinto comma c.p. nel testo vigente risultante dalle sostituzioni operate dall'art. 6 della legge n. 251/2005, dovendosi al tempo stesso, escludere la possibilita' di ricorrere ad interpretazioni adeguatici. In altri termini, secondo il giudicante e la consolidata Cassazione a sezioni unite, la c.d. interpretazione adeguatrice pur corrispondendo ad un preciso ed ineludibile dovere del giudice, in concreto puo' trovare applicazione, soltanto, nelle ipotesi in cui una determinata disposizione presenti un carattere «polisenso», per cui da essa sia enucleabile, senza manipolarne il contenuto e in ossequio anche al principio di conservazione dei valori giuridici, una norma compatibile con la Costituzione attraverso l'impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in genera1e, di talche', nell'impossibilita' di conformare il significato della norma in termini non costituzionali, il giudice non puo' disapplicarla, ma deve rimettere la questione di legittimita' costituzionale, al vaglio del Giudice delle leggi (cfr.: Cass., s.s.u.u. 31 marzo 2004, Pezzella; Cass., s.s.u.u. 30 maggio 2006, Pellegrino). Cio' premesso, a proposito delle sanzioni applicabili dal giudice di pace o dal giudice, comunque, chiamato a giudicare di reati di competenza del giudice di pace come quello di cui di discute (cfr.: art. 53 primo comma del d.lgs. n. 274/2000), l'art. 52 del menzionato d.lgs. stabilisce una sorta di summa divisio tra i reati per i quali e' prevista la sola pena della multa o dell'ammenda, per i quali continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti e tutti gli altri reati per i quali il secondo comma dello stesso articolo, stabilisce a seconda delle varie ipotesi prese in considerazione o la pena pecuniaria della specie corrispondente o la pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilita' (ove per il reato sia prevista la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria, le sanzioni «paradetentive», sono applicabili, soltanto, se la pena detentiva e' superiore nel massimo a sei mesi). In buona sostanza, appare irragionevole, ad avviso di questo giudice che per le ipotesi meno gravi per le quali la sanzione applicabile e' solo quella della pena pecuniaria, il termine di prescrizione e', a norma del novellato art. 157 c.p., quello previsto dal primo comma cioe', sei anni se si tratta di delitto e quattro anni se si tratta di contravvenzione, laddove, nei casi di maggior gravita', quali quelli per i quali sono applicabili le pene della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilita', il termine, inspiegabilmente, si riduce a tre anni. Invero, la giurisprudenza della Cassazione aveva, ripetutamente, affermato che con riferimento al vecchio testo dell'art. 157 c.p. che, ai fini della determinazione del tempo necessario per la prescrizione delle contravvenzioni attribuite alla competenza del giudice di pace punite con la pena pecuniaria o, in alternativa, con le sanzioni c.d. «paradetentive», dovesse far riferimento all'art. 157, primo comma n. 5) c.p. che per le contravvenzioni, punite con la pena dell'arresto determinava il termine prescrizionale in tre anni e cio', appunto in forza della disposizione contenuta al richiamato art. 58 del d.lgs. n. 274/2000 in base al quale per ogni effetto la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e di lavoro di pubblica utilita', si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originale (cfr. ex multis: Cass., sez. IV, 16 gennaio 2004, Carlini). La previsione normativa che si censura, in questa sede, appare dunque essere priva di qualsiasi razionalita' intrinseca e tale da vulnerare, sia il principio della ragionevolezza che il canone di uguaglianza presidiati dall'art. 3 Cost. Ed, infatti, come ha avuto modo di puntualizzare la giurisprudenza costituzionale, ogni tessuto normativo deve presentare una motivazione obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita' tipizzante del tutto avulsa dai «motivi» storicamente contingenti che possono aver indotto il legislatore a formulare quella specifica opzione, per cui se dall'analisi di tale motivazione, scaturira' la verifica di una carenza di «causa» o «ragione» della disciplina introdotta, allora e, soltanto, allora potra' dirsi realizzato un vizio di legittimita' costituzionale della norma, proprio perche' fondato sulla «irragionevole» e percio' arbitraria scelta di introdurre un regime che, necessariamente, finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe (cfr.: Corte cost., sent. n. 89/1996). La disposizione oggetto di impugnativa, rilevante per quel che si e' detto nel presente giudizio anche per l'eventuale ragione ed interesse delle parti civili all'ottenimento di una pronuncia di responsabilita' dell'imputato, appare, quindi, essere, ad avviso di questo tribunale, priva di una «causa» giustificatrice proprio nel senso sopra indicato della richiamata pronuncia costituzionale, giacche', l'evidente aporia normativa che con essa si introduce nel sistema, non puo' giustificarsi alla luce di nessun valore, esigenza o ratio essendo intrinseca all'intera disciplina che il legislatore aveva inteso novellare. Da quanto sopra, ne deriva la conseguente declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 157, quinto comma c.p. come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251/2005 nella parte in cui appunto prevede che quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica per la determinazione del tempo necessario a prescrivere il reato, il termine di tre anni, per contrasto con l'art. 3 Cost. (cfr. in termini: Cass., sez. fer., ord. 31 agosto 2006 n. 29786/06).