LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 576,
primo  comma  c.p.p., come modificato dall'art. 6, legge n. 46/2006 e
dell'art. 10  della  stessa  legge,  proposta all'odierna udienza dal
procuratore generale,
                    O s s e r v a  i n  f a t t o
    Con  sentenza  in data 24 marzo 2003 il Gup di Brescia, assolveva
Coly  Moulaye dal reato continuato di ingiuria e percosse, perche' il
fatto non sussiste.
    Avverso  la  sentenza  proponeva appello la parte civile Bellandi
Alberto   chiedendo   l'affermazione   della  penale  responsabilita'
dell'imputato  e  la  sua  condanna  alla pena ritenuta di giustizia,
oltre al risarcimento del danno.
    All'odierna  udienza  il  procuratore  generale, preso atto della
novella     legislativa    n. 46/2006    eccepiva    l'illegittimita'
costituzionale  dell'art. 576  c.p.p.,  come dalla stessa modificato,
nonche'  dell'art. 10  della  medesima  legge  con  riferimento  agli
artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
    La  Corte decideva come da dispositivo, accogliendo l'eccezione e
riservava il deposito della motivazione.
                  O s s e r v a  i n  d i r i t t o
    A   seguito   della  abrogazione  dell'art. 577  c.p.p.,  sancita
dall'art. 9  della  novella  n. 46/2006,  la  parte  civile e' stata,
pacificamente,  privata  della  facolta' di impugnazione, «anche agli
effetti  penali»,  nei  confronti  delle  sentenze  di  condanna e di
proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione.
    La   nuova   formulazione   dell'art. 576   c.p.p.   (della   cui
legittimita'  costituzionale  il  procuratore generale dubita) impone
peraltro  di  escludere  il potere di appello della parte civile pure
contro tutte le sentenze, sia di condanna che di proscioglimento, «ai
soli effetti della responsabilita' civile».
    Prima   dell'entrata   in   vigore   della   novella   n. 46/2006
l'appellabilita'  delle sentenze ad opera della parte civile «ai soli
effetti  della  responsabilita'  civile»,  era sancita dall'art. 576,
primo  comma  che  cosi'  recitava:  «La  parte  civile puo' proporre
impugnazione  con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro
i capi della sentenza che riguardano l'azione civile».
    Poiche'  al p.m. era attribuito, a norma dell'art. 593 c.p.p., il
potere  di  appello,  questo  si  estendeva,  in virtu' del succitato
richiamo, alla parte civile.
    La  soppressione  dell'inciso  «con  il  mezzo  previsto  per  il
pubblico  ministero»  ha  ora  totalmente  svincolato  il  potere  di
impugnativa  della  parte  civile  da  quello del pubblico ministero,
sicche'  ad  essa  non  puo'  piu' essere riconosciuta la facolta' di
appello,  ne'  contro le sentenza di condanna, ne' contro le sentenze
di  assoluzione,  e  neanche nei residui casi in cui tale facolta' e'
tuttora concessa al p.m. dal nuovo art. 593, secondo comma c.p.p.
    Cio'  configura  una  disparita'  di  trattamento  ed  una palese
irrazionalita'  tali  da  integrare  la  violazione  del principio di
uguaglianza  di  cui  all'art. 3  Cost.,  del diritto di difesa della
parte civile di cui all'art. 24 della Cost., del principio di parita'
tra le parti di cui all'art. 111 della Cost.
    L'art. 74  c.p.p. stabilisce che il soggetto al quale il reato ha
recato danno, ovvero i suoi successori universali, possano esercitare
nel  processo  penale, nei confronti dell'imputato e del responsabile
civile,  l'azione  civile  per le restituzioni ed il risarcimento del
danno di cui all'art. 185 c.p., ossia «a norma delle leggi civili».
    Seppur   detta  azione  civile  sia  regolata  dai  principi  che
disciplinano   il  giudizio  civile,  per  quanto  espressamente  non
derogato, appare contraddittoria l'introduzione in sede penale di una
deroga rispetto ai normali strumenti di impugnazione previsti in sede
civile.
    La  soppressione della facolta' di appello impedisce infatti alla
parte  civile  di  chiedere  il  riesame  nel merito di decisioni che
potrebbero  esserle  irreparabilmente  pregiudizievoli,  in  base  ai
meccanismi preclusivi di cui agli artt. 652 e 654 c.p.p..
    Il  quadro normativo scaturente dalla legge n. 46/2006 si delinea
allora  come  gravemente  irrazionale,  poiche', da un lato, mantiene
inalterata la possibilita' per la parte civile di azionare le pretese
civilistiche  nel  processo  penale,  e,  dall'altro,  scoraggia tale
scelta,  deprivandola  degli  adeguati  strumenti di tutela giuridica
delle medesime.
    Nessuno   dubiterebbe   della  costituzionalita'  di  una  scelta
legislativa  che  rimuovesse  del  tutto l'azione civile dal processo
penale,  ma  una  volta concessa al danneggiato l'opzione se agire in
sede  civile  o  in  sede  penale,  non  si puo' non accordargli, ove
propenda   per   la   seconda   soluzione,   gli  strumenti  atti  al
perseguimento ed alla difesa dei propri diritti.
    E'  vero  che  in  taluni  casi  il legislatore ha sacrificato le
aspettative  della  parte  civile,  ad  esempio,  nel  caso  del rito
alternativo  di  cui all'art. 444 c.p.p., ma cio' ha fatto, non solo,
non  pregiudicandone la successiva riproposizione dell'azione in sede
civile,  ma  evidentemente  al fine di bilanciare gli interessi della
parte  privata  con  altro bene costituzionalmente protetto, ossia la
speditezza del processo.
    Strettamente  connesso all'aspetto dianzi esaminato e' il profilo
di  incostituzionalita'  dell'art. 576 c.p.p., rispetto al diritto di
difesa,  garantito  dall'art. 24  della Cost. anche alla parte offesa
dal  reato,  diritto  che non puo' ritenersi attuato dalle sole norme
connesse  all'istituto  della  costituzione  di  parte civile, ma che
dovrebbe  estrinsecarsi  nell'effettivita' della tutela delle pretese
civilistiche,    invece    chiaramente   frustrate   dalla   radicale
inappellabilita' evincente dalla nuova normativa.
    Vi  e'  infine  un  altro  profilo  di  rilevanza costituzionale,
attinente al principio di cui all'art. 111 secondo comma Cost. per il
quale  il  processo  deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti,
ivi  ovviamente compresa la parte civile, ed in condizioni di parita'
fra le stesse.
    Il  contraddittorio  assurge qui a valore che pervade il processo
nella  sua  interezza  e  quindi  necessariamente  coinvolge  la fase
dell'appello,  che  del processo costituisce passaggio essenziale. Ed
e',  soprattutto,  valore  in  se'  considerato,  a  prescindere  dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla  fase dell'appello e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti, impedendo radicalmente l'appello alla parte civile, sia in
caso   di  assoluzione  che  di  condanna,  laddove  all'imputato  e'
riconosciuta ampia facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  1)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle  parti. Ma cio' che e' stato escluso e' un vincolo
di  derivazione  necessaria  ed  assoluta  fra i due elementi. Rimane
allora  da  valutare,  quindi,  se,  in  concreto,  la disparita' fra
determinati  poteri,  a  cagione  della loro rilevanza, non alteri in
misura  intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma costituzionale
e,   soprattutto,   se  di  tale  disparita'  non  vada  pretesa  una
giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Occorre  quindi  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la   modifica  dell'art. 576  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano a quello che, a
questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la
compatibilita'   della   norma   esaminata   con   il   principio  di
ragionevolezza  (desumibile  dall'art. 3  Cost.)  da  valutarsi nella
prospettiva  della  tollerabilita' del sacrificio che la norma impone
agli  altri valori costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il
diritto  di  difesa  delle  vittime  dei  reati  ed  il principio del
contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da' forma al giusto
processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma, dovendosi
ritenere   il  vulnus  inferto  ai  principi  appena  citati  non  e'
giustificato da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  appena il caso di rilevare che la deminutio operata sul piano
dell'appello  non  puo'  essere  recuperata dalla parte civile grazie
all'ampliamento  dei  casi  del  ricorso  in Cassazione come previsti
dall'art. 606  nuova  formulazione, senz'altro accessibili anche alle
parti  private  in  base al principio generale sancito dall'art. 568,
secondo comma c.p.p..
    Infatti  la  modestia  dell'estensione,  limitata  alla  «mancata
assunzione  di  una  prova  decisiva,  quando  la  parte  ne ha fatto
richiesta  anche  nel  corso  dell'istruzione dibattimentale», non e'
tale  da  soddisfare  la  legittima esigenza di un riesame nel merito
quale la parte civile potrebbe invece invocare in sede civile.
    E'  infine  appena  il  caso  di rilevare che non possono trovare
ingresso  a  sostegno  dell'inappellabilita'  della  parte civile gli
argomenti  sviluppati  dalla  dottrina  con  riguardo  al  pressoche'
identico  destino  riservato  all'Accusa,  argomenti  che,  anche ove
condivisi,  attengono  precipuamente  al  tema  della responsabilita'
penale  ed  alla  esigenza  di  garantire  all'imputato,  in  caso di
condanna, una doppia pronuncia conforme.
    Tale  preoccupazione  non  ha  invero  ragione  di sussistere con
riferimento  alla  parte  civile  che  agirebbe esclusivamente per la
tutela   di   interessi   patrimoniali   ed   ai   soli   fini  della
responsabilita' civile dell'imputato.
    Il procuratore generale ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale    anche    dell'art. 10,    legge    n. 46/2006   ove
effettivamente    ancora    piu'   evidenti   sono   i   profili   di
incostituzionalita'  con  riferimento  agli  artt. 3,  24 e 111 della
Cost.
    Le  disposizioni  transitorie  della  legge n. 45/2006, contenute
nell'art. 10,  nulla  prevedono in ordine agli appelli proposti, come
quello  che  ci occupa, sotto il vigore della vecchia normativa dalla
parte civile.
    In  particolare l'art. 10 cit. non prevede per la parte civile un
regime  analogo a quello contemplato dal secondo e terzo comma per le
altre parti, imputato e pubblico ministero, con la conseguenza che ad
essa  non compete ne' la notifica dell'ordinanza di inammissibilita',
ne' la possibilita' di integrare il ricorso per cassazione nei limiti
delle  modificazioni apportate all'art. 606 c.p.p. dall'art. 8, legge
cit.
    Ne consegue che la parte civile, gia' deprivata della facolta' di
appello,  si  trova  sguarnita  di  ogni  strumento  di  impugnativa,
costretta  a  subire  l'efficacia  di  un  giudicato  formatosi sulla
sentenza  di primo grado e senza piu' la possibilita' di ricorrere al
giudice  civile,  pur  avendo  optato  per  il  giudizio penale in un
contesto legislativo che le conferiva il potere di appello.
    Risulta  pertanto palesemente violato il principio di uguaglianza
e  ragionevolezza di cui all'art. 3 della Cost., il diritto di Difesa
della  parte  civile,  nonche'  per  le  ragioni  gia'  illustrate il
principio di parita' tra le parti processuali.
    Entrambe  le  questioni  sollevate  sono  rilevanti  nel presente
procedimento   poiche'   dal  loro  accoglimento  dipende  la  tutela
giurisdizionale  delle  pretese risarcitorie delle parti civili nelle
forme,  o  dell'appello  o,  quanto  meno,  del ricorso in cassazione
secondo lo schema dell'art. 10 L. 46/2006.
              1) Sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.