IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Visti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti di Aladje Fall, nato a Dakar (Senegal) il 6 diugno 1973, ha pronunciato la seguente ordinanza. Premesso che all'imputato nel presente giudizio e' ascritto il reato di cui: a) agli aicoli 110 c.p., 73, d.P.R. n. 309/1990, perche', in concorso con Campini Gianluca, senza autorizzazione, illecitamente cedeva ad un acquirente non identificato in quanto datosi alla fuga, un ovulo termosaldato di sostanza stupefacente (cocaina), nonche' illecitamente detenevano a fini di spaccio ulteriori due ovuli termosaldati della medesima sostanza per un quantitativo complessivo - tra ceduto e detenuto - pari a gr. 1,27 lordi di sostanza stupefacente (cocaina); b) agli articoli 61 n. 2, 337 c.p. perche', per assicurarsi l'impunita' del reato di cui al capo a) usava violenza nei confronti degli agenti operanti della stazione C.C. di Collegno che compivano un atto d'ufficio, violenza consistita nel dimenarsi, nel tentativo di sottrarsi all'arresto. Fatti commesso in Collegno il 15 dicembre 2006; con la recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale. Rilevato che, a seguito di notifica del decreto di giudizio immediato, l'imputato Campini Gianluca depositava richiesta di applicazione pena a mezzo del procuratore speciale, chiedendo la definizione del procedimento con l'applicazione della pena di mesi 10 di reclusione ed euro 2.800,00 di multa, condizionata alla applicazione del beneficio della sospensione condizionale, previo riconoscimento dell'attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, nonche' delle circostanze attenuanti generiche; il pubblico ministero prestava il consenso alla suddetta richiesta. L'imputato Aladje Fall chiedeva invece la definizione del procedimento con il rito abbreviato. All'udienza del 26 marzo 2007 il pubblico ministero chiedeva che fosse affermata la penale responsabilita' dell'Aladje Fall per il reato allo stesso ascritto e che lo stesso venisse condannato alla pena di anni sei di reclusione ed euro 24.000 di multa, pena gia' ridotta per la scelta del rito. La difesa chiedeva in via principale, in relazione al capo a) l'assoluzione perche' il fatto non sussiste o perche' l'imputato non lo aveva commesso e per il capo b) l'assoluzione perche' il fatto non sussiste; in subordine chiedeva escludersi l'aggravante della recidiva reiterata in quanto la stessa non risultava dichiarata in nessuna delle precedenti sentenze a carico dell'imputato, e concedersi le circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione e l'attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 e contenersi la pena nei minimi edittali. All'udienza del 18 aprile 2007 il processo a carico di Campini Luigi si concludeva con l'applicazione della pena nella misura richiesta. Circa la posizione dell'Aladje Fall deve invece osservarsi quanto segue. In tale processo appare particolarmente evidente la rilevante differenza di trattamento sanzionatorio previsto in astratto dal legislatore per l'autore recidivo ai sensi dell'art. 99, comma 4, rispetto a quello riservato all'autore incensurato, malgrado agli stessi sia contestato un identico fatto (nel caso di specie la detenzione a fini di spaccio di tre ovuli contenenti cocaina, fattispecie che per la sua lievita' evidentemente rientra tra quelle previste dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990). Infatti mentre all'autore incensurato (il Campini) poteva essere riconosciuta ed applicata la diminuente ad effetto speciale prevista dal comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, tale diminuente, pur riconosciuta, non poteva essere effettivamente applicata all'autore recidivo reiterato. In relazione all'Aladje infatti l'art. 69, comma 4, impedisce di effettuare un giudizio di prevalenza delle attenuanti sull'aggravante «protetta» prevista dall'art. 99, comma 4, dunque inibisce la diminuzione effettiva della pena, consentita dal riconoscimento dell'attenuante ad effetto speciale di cui al comma 5, dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, che prevedendo per i fatti di lieve entita' una pena minima di un anno di reclusione e di euro 3000 di multa consente un trattamento sanzionatorio decisamente piu' mite rispetto a quello previsto dal comma 1, dell'art. 73, d.P.R. 309/1990, il quale prevede invece una pena minima di 6 anni di reclusione ed euro 26.000 di multa. La valutazione della legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4 appare rilevante nel processo in esame in quanto costituisce il necessario presupposto per l'individuazione dei limiti della pena applicabile nel giudizio di responsabilita' penale che riguarda l'Aladje. Occorre pertanto valutare se il vincolo posto dal legislatore alla discrezionalita' del giudice con la nuova formulazione dell'art. 69, comma 4 c.p. sia conforme ai principi della Costituzione, ed in particolare se esso rispetti i principi di offensivita-materialita' nonche' di proporzionalita' e ragionevolezza della pena desumibili dagli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo comma della Carta fondamentale. Deve essere inoltre valutata la compatibilita' della normativa in questione con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dunque il rispetto dell'art. 117, primo comma della Costituzione. Individuata nell'art. 25 Cost. la sede del principio di offensivita', ovvero del principio che legittima la creazione da parte del legislatore di fattispecie di reato che prevedono l'applicazione di sanzioni solo in presenza di fatti offensivi (v. tra le altre le sentenze della Corte cost. n. 354/2002, n. 263/2000, n. 360/1995), l'adesione a tale principio ha consentito la creazione di un diritto penale in cui le fattispecie astratte appaiono rigorosamente ancorato al fatto, e dunque all' evento-offesa patito, relegando le valutazioni relative all'autore del fatto al ruolo di mere circostanze del reato (cosi' anche per la recidiva, dato che il fatto della plurima commissione di reati continua ad essere una circostanza e non un reato autonomo). Deve allora essere valutata la legittimita' della scelta del legislatore che assegna alla circostanza della recidiva reiterata, dunque ad una circostanza non riconducibile al fatto reato, ma collegata invece all'autore dello stesso, un ruolo cosi' rilevante da modificare radicalmente la previsione di pena nei termini sopra descritti. Deve ricordarsi al riguardo che la individuazione dell'entita' della pena e' un elemento estremamente rilevante della struttura della fattispecie astratta di reato. E' la sanzione infatti che individua in modo chiaro e immediatamente percepibile il grado dell'offesa e la conseguente reazione dell'ordinamento. La proporzionalita' della sanzione all'offesa arrecata e la proporzionalita' e ragionevolezza delle risposte sanzionatorie sono principi direttamente desumibili dagli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione cui il legislatore deve uniformarsi. Nel nostro caso l'art. 69, comma 4 c.p., inibendo la discrezionalita' del giudice nella individuazione della pena, attraverso l'imposizione di un giudizio vincolato sulla comparazione delle circostanze, appresta un trattamento sanzionatorio nei confronti dell'autore recidivo estremamente piu' severo di quello applicabile all'autore incensurato, malgrado gli stessi abbiano posto in essere una analoga condotta materiale. Sicche' il piano dell'offensivita' (valutata e percepita attraverso la creazione della sanzione) viene spostato dall'offesa materiale, riconducibile ad uno specifico evento, alle qualita' del soggetto che tale evento ha causato, creando un sistema che supervaluta le circostanze soggettive fino a proporzionare le risposte sanzionatorie non in relazione alla condotta ed all'evento, ma alle qualita' dell'autore. Se alla circostanza soggettiva della recidiva si assegna ex lege il potere di incidere cosi' radicalmente sul trattamento sanzionatorio, si consente ad una circostanza relativa al soggetto, non riconducibile in alcun modo all'evento materiale, di influire sull'applicazione concreta della sanzione, creando disparita' di trattamento, che lasciano intravedere una insinuante, e non costituzionalmente legittima, trasformazione dell'ordinamento penale verso un sistema che persegue i tipi di autore. Ne' tale trasformazione risulta conforme ai principi di proporzionalita' e ragionevolezza della pena desumibili dagli artt. 3 e 27, terzo comma della Costituzione, dato che la proporzionalita' della pena deve essere parametrata principalmente al grado dell'offesa materiale arrecata, e solo in via del tutto subordinata alle qualita' del soggetto autore del reato. Le argomentazioni sinteticamente esposte vanno approfondite in relazione alla giurisprudenza della Corte costituzionale. Deve infatti essere chiarita sia la riconducibilita' del principio di offensivita' all'art. 25 della carta fondamentale e l'interpretazione di tale principio in stretta correlazione con il principio di materialita', sia la riconducibilita' dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza della sanzione agli artt. 3, e 27 della Carta fondamentale, con conseguente valutazione della legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4 c.p. Circa la riconducibilita' del principio di offensivita' all'art. 25 della Costituzione la giurisprudenza della Corte costituzionale ha piu' volte ribadito che l'offensivita' e' un principio cardine del sistema penale e che esso e' ricavabile dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione. In particolare nella sentenza n. 263/2000 la Corte ha ribadito che «l'art. 25, quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo oltre ai parametri indicati dal remittente, l'insieme dei valori connessi alla dignita' umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensivita', dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi ed autorita' giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesivita' in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale». La Corte nella sentenza citata ed in numerose altre (v. Corte cost. n. 247/1997 nonche' Corte cost. n 360/1995, Corte cost. n. 144/1991), oltre a stabilire un nesso tra i massimi valori costituzionali, tra cui la dignita' umana, ed il principio di offensivita', come principio regolatore dell'ordinamento penale stabilisce con estrema chiarezza che tale principio deve operare in modo «ininterrotto» dal momento della previsione normativa della sanzione a quello dell'accertamento concreto della responsabilita' effettuato dal giudice penale. La Corte ribadisce in modo inequivoco che il controllo della offensivita' in concreto deve essere devoluto in ultima istanza al giudice. Essa ha infatti piu' volte affermato che il controllo ultimo circa la riconducibilita' della fattispecie concreta a quella astratta, e dunque la valutazione in concreto dell'offesa, deve essere effettuata dal giudice ordinario riconoscendo allo stesso un ampio margine di discrezionalita'. Non si puo' non rilevare come il legislatore della legge n. 241/2005, nel vincolare la discrezionalita' del giudice, impedendo allo stesso di effettuare un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla aggravante di cui all'art. 99, comma 4 c.p., si pone in aperto contrasto con la interpretazione effettuata dalla Corte del principio di offensivita' come principio «diffuso», la cui operativita' in concreto e' affidata al controllo del giudice di merito dato che tale giudice si trova di fatto impossibilitato ad effettuare il controllo sulla offensivita' in concreto della condotta a causa del forte vincolo all'esercizio della discrezionalita' imposto dall'art. 69, comma 4 c.p. Questo a meno che non si voglia ritenere che la circostanza della sussistenza della recidiva di cui al comma 4 dell'art. 99 c.p. sia un evento di per se' offensivo e dunque meritevole in se' di sanzione penale. Deve essere cioe' esaminato il punto precedentemente segnalato, ovvero se il principio di offensivita' debba essere o meno letto in stretta correlazione con il principio di materialita', ovvero se sia costituzionalmente legittimo reprimere non solo offese materiali, ma anche situazioni personali. Evidentemente la circostanza di avere compiuto in stretta successione temporale una serie di reati e' anch'essa un dato di fatto, ovvero un evento che si compie con la consumazione di piu' reati. Tuttavia il nostro legislatore non ha mai compiuto la scelta di punire il fatto di essere recidivo con una autonoma fattispecie di reato, relegando tale situazione soggettiva al ruolo di mera circostanza, in accordo con l'interpretazione ricorrente effettuata dalla Corte costituzionale, che ha sempre privilegiato una lettura del pincipio di offensivita in stretta correlazione con il pnncipio di materialita', individuando le offese meritevoli di risposta penale nell'ambito delle sole offese materiali. In particolare la Corte nella sentenza n. 354/2002 nel valutare la legittimita' costituzionale dell'art. 688 secondo comma del codice penale ha stabilito che «l'avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l'incolumita' individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di la' dell'intento del legislatore, finisce per punire non tanto l'ubriachezza in se', quanto una qualita' personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all'art. 688 del codice penale. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di offensivita' del reato che, nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalita' legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte». Dunque la Corte ha con chiarezza definito il legame tra il principio di offensivita' e quello di materialita' dell'offesa, escludendo la perseguibilita' delle qualita' personali, qualora queste siano elemento costitutivo della fattispecie astratta. Il caso che ci occupa (ovvero il caso della cessione di sostanza stupefacente posta in essere dal recidivo reiterato) si distingue da quello trattato dalla Corte in quanto il fatto di avere riportato precedenti condanne non e' un elemento costitutivo del reato, ma resta nell'ambito delle circostanze (della recidiva di cui all'art. 99, comma 4 appunto). In tal modo il legislatore ha, almeno in apparenza, rispettato il principio di offensivita-materialita' evitando di considerare le qualita' dell'autore come elemento costitutivo della fattispecie criminosa. Tale rispetto e' tuttavia solo apparente, dato che l'avere previsto il divieto del giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla ritenuta recidiva reiterata, di fatto trasforma la risposta penale in relazione ad offese analoghe creando una vistosa disparita' di trattamento tra l'autore recidivo e l'autore incensurato, ai quali viene contestato un'identico fatto. Sicche' deve ritenersi che il vincolo imposto alla discrezionalita' del giudice, cui viene impedito di effettuare una libera valutazione sull'offensivita' in concreto, tramuti cosi' radicalmente la risposta penale, da assegnare alla circostanza della recidiva reiterata un ruolo sostanzialmente costitutivo della fattispecie e solo formalmente circostanziale. Il che rende attuali, anche nel caso in questione, le considerazioni censorie che gia' la Corte aveva mosso nei confronti della repressione delle qualita' della persona nella sentenza n. 354/2002. La legittimita' della disparita' di trattamento sanzionatorio riservata all'autore recidivo reiterato rispetto all'autore incensurato deve inoltre essere valutata alla luce dei principi di ragionevolezza e proporzionalita' della pena desumibili dagli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, con particolare riferimento alla funzione rieducativa assegnata dalla Costituzione alla sanzione penale. Il principio di offensivita-materialita' comporta infatti la necessita' che la sanzione irrogata sia proporzionata all'offesa arrecata, e che la stessa sia prevista in astratto e comminata in concreto nel rispetto del principio di uguaglianza e non discriminazione, anche se adeguata alle specificita' concrete dell'evento e calibrata all'esito della valutazione delle circostanze anche soggettive riferibili all'autore. La proporzionalita' della pena deve essere cioe' garantita in astratto dalla ragionevolezza della legislazione penale e deve trova concreta attuazione nel corretto esercizio della discrezionalita' del giudice, il quale deve adeguare e personalizzare la sanzione al fatto ed alle circostanze del reato. In tal senso la Corte costituzionale nella sentenza n. 341/1994 ha affermato che «il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come e' stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza piu' recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza di cui all'art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso", in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza» (v. pure nello stesso senso sentenze n. 343 e 422 del 1993). La scelta di vincolare la discrezionalita' del giudice di merito nella valutazione e nel concreto bilanciamento delle circostanze con la creazione di disparita' di trattamento notevoli e non giustificate dalla diversita' dell'offesa materiale arrecata viola evidentemente il principio di ragionevolezza. Inoltre la creazione di un sistema di sanzioni ingestibile dal giudice di merito che vede vincolata la sua discrezionalita' da aprioristiche scelte legislative, che impediscono di calibrare la risposta sanzionatoria all'offesa in concreto arrecata, appare incompatibile con la funzione rieducativa della sanzione penale, dato che l'effettivita' del valore rieducativo discende direttamente dalla percezione di ragionevolezza e proporzionalita' della pena da parte dell'imputato. A tal proposito la Corte ha affermato che «la finalita' rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue": tale finalita' rieducativa implica pertanto un costante "principio di proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra"» (sent. n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993 confermata dalla sentenza n. 422 del 1993). Deve da ultimo essere esaminata anche la compatibilita' della normativa in questione con la normativa europea e valutato il rispetto dell'art. 117, primo comma della Costituzione che impone alla potesta' legislativa vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. L'art. 69, comma 4 c.p. nella parte in cui impone il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla ritenuta aggravante della recidiva reiterata si pone in contrasto con il principio di non discriminazione, sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Com'e' noto, tale principio, che si fonda sul piu' generale presupposto della pari dignita' di tutti gli esseri umani, impone di assicurare un trattamento uguale - con riguardo al godimento dei diritti garantiti dalla Convenzione, tra cui rientra quello alla liberta' personale - ai soggetti che si trovino in situazioni analoghe o comparabili, laddove non ricorra una giustificazione obiettiva e ragionevole. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha costantemente identificato la giustificazione obiettiva e ragionevole in quella categoria di esigenze che perseguono un fine legittimo all'interno di una societa' democratica e rispettano un rapporto ragionevole di proporzionalita' tra il mezzo impiegato ed il fine proposto (v. in tal senso gia' la sentenza del 23 luglio 1968, Affaire relative a' certains aspects du regime linguistique de l'enseignement en Belgique). Al fine di evidenziare la ragionevolezza della differenza di trattamento tra le varie situazioni, assume un particolare significato la presenza di un denominatore comune ai sistemi giuridici degli Stati membri del Consiglio d'Europa (sentenza del 28 novembre 1984, Rasmussen c. Danimarca). Orbene, non vi e' dubbio che la scelta legislativa di attribuire preminente rilievo, ai fini della commisurazione della sanzione penale, non alla responsabilita' per lo specifico fatto giudicato, ma ad ulteriori condotte criminose estranee al processo de quo, si ponga al di fuori dei parametri fissati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Si tratta, infatti, di un orientamento normativo che, in presenza di un fatto criminoso identico, conduce ad applicare sanzioni penali di entita' enormemente differenziata ai diversi autori, per finalita' che risultano estranee ai fini legittimi perseguibili all'interno di una societa' democratica, in quanto si imperniano sulla logica del «tipo di autore» e non sulla responsabilita' per il singolo fatto commesso; non e' un caso, del resto, che tale scelta non sia affatto condivisa da gran parte degli altri Stati europei. Viene cosi' a realizzarsi una discriminazione vietata dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, cui deve riconoscersi una «natura sovraordinata» rispetto alla legislazione ordinaria. Depongono in tal senso, infatti, le piu' recenti decisioni della Corte di Cassazione (v. in particolare, la sentenza n. 2800 del 25 gennaio 2007, ric. Dorigo), come pure il nuovo testo dell'art. 117, primo comma Cost., che vincola la legislazione statale al rispetto degli obblighi internazionali, e colloca le norme internazionali che ne sono la fonte su un gradino superiore rispetto alle leggi ordinarie.