IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso n. 1373/2006
proposto  da  Chahafi  Rahal  rappresentato e difeso dall'avv. Amedeo
Rizza  nello studio del quale e' elettivamente domiciliato in Milano,
piazza del Tricolore, n. 2;
    Contro  la  Questura  di  Milano,  in  persona  del  Questore pro
tempore,  ed  il  Ministero  dell'interno, in persona del Ministro in
carica,  rappresentati  e  difesi dalla Avvocatura distrettuale dello
Stato,  presso  cui sono domiciliati ex lege in Milano, via Freguglia
n. 1,  per  l'annullamento del provvedimento n. 132/2006 IMM., emesso
dal  Questore  della  Provincia  di  Milano  in  data  23 marzo 2006,
notificato  il  5 maggio 2006, di rigetto dell'istanza di rinnovo del
permesso di soggiorno presentata dal ricorrente per motivi di lavoro.
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto   l'atto   di   costituzione   in  giudizio  del  Ministero
dell'interno;
    Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Nominato  relatore  alla pubblica udienza del 28 febbraio 2007 il
dott. Vincenzo Blanda;
    Uditi  l'avv.  M.L.  Frescura,  in  sostituzione dell'avv. Amedeo
Rizza,  per il ricorrente ed, ai preliminari di udienza, l'avv. dello
Stato Silvana Vanadia;
    Considerato in fatto ed in diritto quanto segue.

                              F a t t o

    Con  ricorso  notificato il 12 maggio 2006 e depositato presso la
segreteria  del tribunale il 23 maggio 2006, Chahafi Rahal, cittadino
del  Marocco,  ha  impugnato  il  decreto con il quale la Questura di
Milano,  in  data 23 marzo 2006, ha negato il rinnovo del permesso di
soggiorno,  sulla  base di una sentenza emessa dal Tribunale di Monza
ai sensi dell'art. 444 c.p.p. di applicazione della pena di mesi otto
di  reclusione e Euro 2.000,00 di multa, ai sensi dell'art. 73, comma
5, del d.P.R. n. 309/1990, per cessione di sostanze stupefacenti.
    A  sostegno  del  gravame  l'interessato  ha  dedotto  i seguenti
motivi:
        1)   violazione  di  legge  intesa  come  falsa  applicazione
dell'art. 4 del d.lgs. n. 286/1998 con riferimento agli articoli 1, 2
e  3 della legge n. 1423/1956, dell'art. 86 del d.P.R. n. 309/1990 in
ordine ai criteri di valutazione della pericolosita' sociale.
    Il  provvedimento  di  diniego  si  fonderebbe  unicamente su una
sentenza  di applicazione della pena su richiesta delle parti, per la
quale   sarebbe   stato   concesso  il  beneficio  della  sospensione
condizionale della pena.
    Nella  sentenza  in  questione  il  Tribunale  di  Monza  avrebbe
evidenziato  «la  non  particolare gravita' dei fatti in relazione al
quantitativo  della  sostanza  rinvenuta nonche' l'incensuratezza del
ricorrente»,   elementi  dai  quali  avrebbero  tratto  «un  giudizio
prognostico favorevole in ordine alla futura astensione dall'illecito
penale».
    L'Autorita'  di  pubblica  sicurezza,  anche  in virtu' di quanto
stabilito  dalla  Corte  di  cassazione,  sez. I civ. con la sentenza
n. 12721/2002,  avrebbe  dovuto  precisare le ragioni per le quali il
ricorrente  e'  da  considerare  socialmente  pericoloso, non potendo
essere   ritenute  sufficienti  in  tal  senso  il  mero  riferimento
all'esistenza di denunce penali o di sentenze di condanna.
    Nel caso di specie mancherebbero, inoltre, i presupposti previsti
dall'articolo  1  della  legge n. 1423/1956 e dall'art. 86 del d.P.R.
n. 309/1990, stante l'assenza di una concreta pericolosita' sociale e
di  una  valutazione  globale  dell'intera  personalita' del soggetto
destinatario del provvedimento.
    L'amministrazione  non  avrebbe  tenuto  conto  del  fatto che la
condanna  ha  riguardato  un  singolo  episodio  di  cessione  di  un
quantitativo  minimo di cocaina, tant'e' che il Tribunale di Monza ha
riconosciuto  l'ipotesi  lieve  di  cui  al  comma 5 dell'art. 73 del
d.P.R. n. 309/1990;
        2) violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990. Eccesso di
potere nelle forme del difetto di motivazione dell'atto impugnato.
    Il  decreto  impugnato  e'  stato  adottato  omettendo  qualsiasi
valutazione  concreta  della pericolosita' sociale del ricorrente, ai
sensi degli articoli 1, 2 e 3 della legge n. 1423/1956 e dell'art. 86
del   d.P.R.   n. 309/1990,  sulla  base  di  un  giudizio  meramente
probabilistico.
    Un'istruttoria  piu'  accurata  avrebbe  consentito di verificare
l'assenza di quelle condizioni di pericolosita' idonee a giustificare
il diniego alla permanenza dell'interessato sul territorio nazionale.
    Si  sono  costituiti  in  giudizio il Ministero dell'interno e la
Questura di Milano.
    Con  ordinanza  n. 1267  resa  nella  camera  di consiglio del 31
maggio  2006  la  Sezione  ha  respinto la domanda cautelare avanzata
dall'interessato.
    Le   parti   hanno   prodotto   memorie  nelle  quali  illustrano
ulteriormente le loro rispettive posizioni.
    Alla  udienza  pubblica  del  28  febbraio 2007, il difensore del
ricorrente  ha insistito per l'accoglimento del ricorso e la causa e'
stata trattenuta in decisione.

                            D i r i t t o

    1. - In    via    preliminare,   il   Collegio   deve   occuparsi
dell'eccezione sollevata nella memoria depositata il 14 febbraio 2007
dalla Avvocatura dello Stato riguardante la carenza di legittimazione
passiva della Questura di Milano.
    Sostiene in particolare la difesa dell'Amministrazione che, sulla
base  di  quanto  disposto  dall'art.  11  del  T.U. n. 1611/1933, la
legittimazione  a resistere in giudizio spetterebbe esclusivamente al
Ministero  dell'interno  e  non  alla  Questura quale «organo interno
dell'Amministrazione   centrale   dello   Stato   priva  di  autonoma
soggettivita».
    L'assunto non rileva ai fini di causa posto che l'impugnazione e'
stata correttamente notificata sia al Ministero dell'interno che alla
Questura  di  Milano,  quale  organo  che ha adottato l'atto gravato,
presso la sede della Avvocatura distrettuale dello Stato del predetto
capoluogo, cosi' come previsto dalla norma sopra menzionata.
    2. - Venendo   al   merito  del  ricorso  i  due  motivi  esposti
dall'interessato  possono  essere  trattati  congiuntamente attesa la
loro evidente e stretta connessione.
    L'istante  lamenta  l'illegittimita'  del  diniego di rinnovo del
permesso  di  soggiorno,  il  quale  si  fonderebbe  unicamente sulla
sentenza  emessa  il  21  marzo  2004  a  carico dell'interessato dal
Tribunale  di  Monza,  a seguito di patteggiamento, alla pena di mesi
otto  di  reclusione  ed  Euro  2.000,00  di  multa,  per il reato di
cessione  illecita di sostanze stupefacenti di cui all'art. 75, comma
5, del d.P.R. n. 309/1990.
    Il  ricorrente contesta l'automatismo applicato dall'Autorita' di
P.S.  che  ha  ritenuto  sussistente  la  pericolosita' sociale dello
straniero  senza  che  tale  giudizio sia stato puntualmente motivato
sulla   base   di   una  adeguata  istruttoria  riguardante  l'intera
personalita' del soggetto.
    L'amministrazione, in particolare, non avrebbe tento conto che il
ricorrente risulta gravato da un'unica condanna, la cui pena e' stata
condizionalmente sospesa; ne' della prognosi favorevole formulata dai
giudici  penali in ordine alla futura astensione dalla commissione di
altri   reati;   e   nemmeno   della   lunga   permanenza  in  Italia
dell'interessato,  il  quale sarebbe entrato nel territorio nazionale
per la prima volta il 1° febbraio 1997.
    3. - Osserva    innanzitutto    il   Collegio   che   l'impugnato
provvedimento  di diniego si fonda sul combinato disposto degli artt.
5,  comma 5, e 4, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998, che impediscono al
cittadino  straniero che abbia commesso determinati reati di ottenere
il rilascio od il rinnovo del permesso di soggiorno.
    L'art.  5,  comma 5, cit. dispone in particolare che «il permesso
di  soggiorno  o  il  suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di
soggiorno  e'  stato  rilasciato,  esso  e' revocato quando mancano o
vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno
nel  territorio  dello  Stato», rinviando quindi all'art. 4, comma 3,
cit. secondo il quale non e' ammesso in Italia, tra le altre ipotesi,
lo straniero che «risulti condannato, anche a seguito di applicazione
della  pena  su  richiesta  ai  sensi dell'art. 444 c.p.p., per reati
previsti  dall'art.  380,  commi  1  e 2, del c.p.p. ovvero per reati
inerenti  gli  stupefacenti, la liberta' sessuale, il favoreggiamento
dell'immigrazione   clandestina  verso  l'Italia  e  dell'emigrazione
clandestina  dall'Italia  verso  altri  Stati  o per reati diretti al
reclutamento  di  persone  da  destinare  alla  prostituzione  o allo
sfruttamento   della  prostituzione  o  di  minori  da  impiegare  in
attivita' illecite».
    L'interpretazione che la giurisprudenza amministrativa ha dato di
queste  norme  e'  nel senso di ritenere che la sopravvenienza di una
sentenza  di  condanna  per una delle ipotesi di reato previste dalla
legge,  anche a seguito di patteggiamento, costituisce il presupposto
che impone e legittima l'adozione del provvedimento amministrativo di
revoca  del  permesso  gia'  concesso  o del rifiuto di rinnovo dello
stesso,  senza che residui spazio alcuno all'Autorita' amministrativa
di valutazione e ponderazione di interessi e senza che in particolare
vi sia spazio per una necessaria valutazione di pericolosita' sociale
dello  straniero,  solo in presenza della quale ritenere legittimo il
provvedimento  negativo (in tal senso ex multis Cons. Stato, sez. VI,
1°  febbraio  2007,  n. 411;  id.  30 gennaio 2007, n. 359; 29 agosto
2006, n. 4410; Tribunale amministrativo regionale Toscana, sez. I, 20
luglio  2006,  n. 3188; Tribunale amministrativo regionale Umbria, 12
giugno  2006,  n. 319; Tribunale amministrativo regionale Lazio Roma,
sez. I, 5 giugno 2006, n. 4230).
    In  senso sostanzialmente analogo altra giurisprudenza (Tribunale
amministrativo  regionale Piemonte, 31 marzo 2006, n. 1605; Tribunale
amministrativo regionale Umbria, 24 febbraio 2006, n. 64; 14 novembre
2005,  n. 496;  6  settembre  2005,  n. 416; Tribunale amministrativo
regionale  Toscana,  Sez.  I,  30  gennaio  2006,  n. 210;  Tribunale
amministrativo  regionale  Lombardia Milano, Sez. I, 18 gennaio 2006,
n. 140; 7 settembre 2005, n. 3617; T.r.g.a. Bolzano, 12 gennaio 2006,
n. 7) sostiene che nel caso in cui la condanna rientri tra le ipotesi
alle  quali  il  legislatore  ricollega un'efficacia preclusiva della
permanenza del cittadino extracomunitario nel territorio dello Stato,
la  pericolosita' sociale e' presunta ex lege, sicche' l'Autorita' di
pubblica  sicurezza  non  e'  chiamata  a  svolgere alcuna necessaria
valutazione  in tal senso e comunque, se il giudizio e' reso in senso
sfavorevole,  il ricorrente non e' legittimato a contrastarlo, se non
per contestare l'esistenza o la rilevanza della condanna, giacche' il
provvedimento  di  rifiuto  del  permesso di soggiorno o di revoca e'
vincolato ed e' tale per cui l'amministrazione, accertata la condanna
ostativa, non potrebbe adottarne uno di contenuto diverso.
    3.1. - Acclarato,   pertanto,  che  nella  vicenda  in  esame  la
puntuale  applicazione  della  normativa  in  vigore non potrebbe che
portare  al  rigetto  del  ricorso,  il  Collegio  ritiene  di  poter
esaminare  d'ufficio la questione concernente la compatibilita' della
normativa suddetta con i principi costituzionali.
    4. - Nel  caso  in  esame  il  ricorrente e' stato condannato con
sentenza  del  21  luglio 2004 per fatti avvenuti il 9 novembre 2003,
sicche' sia l'una che gli altri sono successivi all'entrata in vigore
della  legge  30  luglio  2002,  n. 189, con la ulteriore conseguenza
della  insussistenza  nel caso di specie dei presupposti di fatto che
hanno  indotto  il Tribunale amministrativo regionale Lombardia, sez.
staccata di Brescia, dapprima con l'ordinanza 25 agosto 2003, n. 1190
e,   successivamente,   con   l'ordinanza  n. 561/2005,  a  sollevare
questione di legittimita' costituzionale della normativa in questione
in  considerazione  della  ritenuta applicabilita', ai fini della non
ammissione  in  Italia  dello  straniero,  anche  delle  sentenze  di
patteggiamento  pronunciate anteriormente all'entrata in vigore della
legge sopraccitata.
    5. - Secondo   l'interpretazione   del   diritto  positivo  sopra
evidenziata,   e   costituente   diritto   vivente  alla  luce  della
giurisprudenza  amministrativa, la condanna subita dal ricorrente per
il  reato inerente agli stupefacenti preclude, dunque, l'accoglimento
dell'istanza  di  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,  integrando,
l'applicazione  della  ridetta  norma,  l'esercizio  di una attivita'
amministrativa  rigorosamente  vincolata,  come  tale  priva  di ogni
possibile  spazio  per  una  interpretazione  adeguatrice nei termini
dell'insegnamento  che  i  giudici di merito debbono prioritariamente
trarre dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
    Corollario   del   suesposto  ordine  argomentativo  e'  che  una
eventuale  declaratoria  di illegittimita' costituzionale dell'art. 5
comma  5,  e  dell'art. 4, comma 3 (nel testo modificato dall'art. 4,
comma  1,  lett.  b), della legge 30 luglio 2002, n. 189), del d.lgs.
n. 286   del  1998,  nella  parte  in  cui  attribuiscono  automatica
rilevanza  alle  condanne pronunciate anche a seguito di applicazione
della  pena  su  richiesta  ai  sensi  dell'art.  444  del  codice di
procedura  penale,  comporterebbe  l'accoglimento del ricorso, mentre
una   eventuale   pronuncia   di   infondatezza  della  questione  di
incostituzionalita' comporterebbe necessariamente la loro reiezione.
    La questione di costituzionalita' e' dunque palesemente rilevante
nella specie.
    In  proposito va anche annotato che l'eventuale sopravvenienza di
mutamenti   del   quadro   normativo,  secondo  i  criteri  direttivi
risultanti  dal  disegno  di  legge delega recentemente approvato dal
Consiglio  dei  ministri, non potrebbe influire sulla rilevanza della
questione,  in base al principio del tempus regit actum che impone al
Collegio  di  valutare  la  legittimita'  del provvedimento alla luce
delle sole disposizioni vigenti all'epoca della sua adozione.
    6. - Sotto  il  profilo  della  non  manifesta  infondatezza,  il
Collegio  ritiene  che  il  combinato disposto dell'art. 5, comma 5 e
dell'art.  4,  comma  3  (nel  testo modificato dall'art. 4, comma 1,
lett.  b), della legge 30 luglio 2002, n. 189), del d.lgs. n. 286 del
1998,  si  ponga  in contrasto con gli artt. 2, 3, 4, 16, 27, 35 e 97
della  Costituzione  per  i  seguenti  motivi  concorrenti  tra loro,
analiticamente sviluppati nei punti successivi:
        a)  nella parte in cui introduce un automatismo nel negare il
rinnovo  del  permesso  di  soggiorno  a  fronte  di una condanna per
determinati reati anche di lieve o lievissima entita';
        b) nella parte in cui pone quale elemento ostativo al rinnovo
del  permesso di soggiorno la condanna per determinati reati subita a
seguito  di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del codice
di  procedura  penale senza alcuna valutazione circa la pericolosita'
in concreto del soggetto interessato dalla pronuncia;
        c) nella parte in cui sottrae all'autorita' amministrativa il
potere  di  valutazione  della  pericolosita'  sociale  del cittadino
extracomunitario,  al  fine  di  tutelare  l'ordine  e  la  sicurezza
pubblica nello Stato italiano.
    7. - Appare  violato,  sotto  un  duplice profilo, l'art. 3 Cost.
(sub punto 5, lett. a).
    7.1. - In   primo  luogo  il  parametro  costituzionale  invocato
risulta  violato  per  la  intrinseca  irragionevolezza  della scelta
compiuta  dal  legislatore,  laddove  collega ad un'ipotesi penale di
lieve  entita',  qual  e'  quella di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R.
n. 309 del 1990, la gravissima conseguenza, sul piano amministrativo,
del diniego di concessione o rinnovo del permesso di soggiorno ovvero
l'obbligo di revocare il titolo di soggiorno gia' concesso.
    L'art.  73,  comma  5,  d.P.R.  n. 309  del 1990 punisce con pena
attenuata  i fatti di reato previsti dallo stesso art. 73, agli altri
commi,  «quando,  per  i  mezzi,  per  la  modalita' o le circostanze
dell'azione  ovvero  per  la  qualita'  e quantita' delle sostanze, i
fatti  previsti  dal presente articolo sono di lieve entita». I fatti
ascrivibili  all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 sono quindi
ontologicamente  caratterizzati  da  una «lieve entita», valutata dal
giudice penale e alla quale si collega una sanzione penale attenuata.
    Tuttavia,  la  condanna  anche  nell'ipotesi di cui all'artt. 73,
comma  5,  del d.P.R. n. 309 cit. e' tale da integrare il disposto di
cui   all'art.   4,   comma  3,  d.lgs.  n. 286  del  1998,  laddove,
nell'indicare  le condanne penali cui si correla l'automatico diniego
di   permesso   di   soggiorno,  contempla,  in  termini  generali  e
omnicomprensivi, i «reati inerenti gli stupefacenti».
    Peraltro,  l'automatico  effetto  del  diniego  di  concessione o
rinnovo  del  permesso  di  soggiorno si determina anche - come nella
vicenda  sottoposta  all'esame  del  Collegio - quando la fattispecie
penale  di  cui  all'art.  73,  comma  5,  cit.  sia stata oggetto di
applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p.,
in  mancanza  quindi  di  un  accertamento penale pieno proprio di un
pronunciamento     giurisdizionale     sulla     sussistenza    della
responsabilita' penale.
    Appare   a  questo  tribunale  che  violi  l'art.  3  Cost.,  per
intrinseca irragionevolezza delle scelta legislativa, la normativa in
esame  laddove  fa  conseguire  in termini di mero automatismo ad una
applicazione  di  pena  su  richiesta delle parti per il reato di cui
all'art.   73,  comma  5,  d.P.R.  n. 309  del  1990,  la  gravissima
conseguenza  sul  piano  amministrativo  del  diniego  di rinnovo del
permesso  di  soggiorno, senza imporre alcuna valutazione in concreto
della pericolosita' sociale dell'istante.
    7.2. - L'invocato  parametro  costituzionale  di  cui  all'art. 3
Cost.  risulta  altresi'  violato dall'art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286
del 1998 sotto altro e diverso profilo e cioe' per aver accumunato in
modo del tutto illogico, ai fini del diniego del titolo di soggiorno,
fattispecie  penali  tra loro assai eterogenee in termini di gravita'
della  condotta  commessa.  In  particolare,  come  gia' rilevato, la
citata  disposizione  impone  il  diniego  automatico  del  titolo di
soggiorno a coloro che siano stati condannati per una serie di reati,
tra   cui  quelli  indicati  dall'art. 380  c.p.p.  e  altre  ipotesi
delittuose,  tra  cui,  per  quel  che  rileva, i «reati inerenti gli
stupefacenti».
    Attraverso  tale generica locuzione il legislatore stabilisce che
una  fattispecie  criminosa  come quella di cui all'art. 73, comma 5,
d.P.R.  n. 309  del  1990,  che  viene espressamente qualificata come
caratterizzata  da  «lieve entita», comporti sul piano amministrativo
gli  stessi  effetti  -  automatico  diniego di titolo di soggiorno -
propri  di  fattispecie  penali comportanti l'arresto obbligatorio in
flagranza di cui all'art. 380 c.p.p.
    In  questa seconda prospettiva l'art. 3 Cost. e' violato per aver
il  legislatore  posto  sullo  stesso  piano,  sotto il profilo degli
effetti  scaturenti  sul  piano amministrativo, ipotesi criminose del
tutto   eterogenee   e   caratterizzate   da   gravita'   del   tutto
incomparabili.
    Quanto  sopra  si verifica nella fattispecie dedotta in giudizio,
nella  quale  si verrebbe ad attuare una irragionevole equiparazione,
quoad  effectum,  della  condanna penale per le piu' gravi ipotesi di
reato  legate alla partecipazione ad associazioni criminose dedite al
traffico  internazionale  di stupefacenti con le fattispecie di reati
inerenti  pur  sempre  gli  stupefacenti,  ma  attenuate dalla «lieve
entita»,  ovvero  dall'assenza  di continuazione o concorso con altri
reati, con concessione di tutti i benefici di legge.
    Cio',  in  una  prospettiva  del  tutto  avulsa  da un confacente
rapporto di adeguatezza col caso concreto, senza cioe' che attraverso
il procedimento amministrativo sia possibile operare, nella selezione
delle determinazioni da assumere, alcuna graduazione riferita al caso
concreto:  in  tal  modo,  a  parere del Collegio, verrebbero a esser
vulnerati  i  principi  fondamentali  di  ragionevolezza  chiaramente
desumibili  dall'art.  3 Cost., oltre la tutela del lavoro (artt. 4 e
35) e del buon andamento amministrativo (art. 97).
    L'indispensabile   gradualita'   importa   -   dunque  -  che  le
valutazioni relative agli effetti derivanti dalla condanna sul titolo
di  soggiorno  siano ricondotte alla naturale sede di valutazione: il
procedimento  amministrativo  di  verifica  delle  condizioni  per il
rilascio  o  il  rinnovo del permesso di soggiorno, in difetto di che
ogni   relativa   norma   risulta   incoerente,  per  il  suo  rigido
automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.
    8. - Il  combinato disposto degli artt. 5, comma 5, e 4, comma 3,
d.lgs.  n. 286  del  1998  sembra  violare, altresi', l'art. 24 della
Costituzione  (sub  punto  5,  lett. b), nella parte in cui impone il
rigetto  del  titolo  di  soggiorno  per il cittadino straniero a cui
carico  sia  stata  applicata una pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p.,
senza   quindi   che   ci  sia  stato  un  accertamento  pieno  della
responsabilita'  penale  dell'istante  (dalla quale possa emergere la
gravita'  della  condotta  tenuta  dal  reo  o  la  pericolosita' del
medesimo   sia  sotto  il  profilo  criminale,  che  della  sicurezza
pubblica)  ed  anzi  traducendo  quello  che  per  la generalita' dei
consociati  e'  un rito premiale in una procedura pregiudizievole per
lo straniero.
    Ne'  ad  escludere  il  denunciato contrasto potrebbe rilevare la
consapevolezza,   generata   dal  dettato  normativo,  degli  effetti
preclusivi  al  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno derivanti dalla
scelta  del  rito del patteggiamento, tenuto conto che l'applicazione
concordata  della  pena  non  rappresenta  circostanza  sufficiente a
denotare  di  per se' la proclivita' dell'interessato alla violazione
delle  norme  che  tutelano  il  rispetto della tranquillita' e della
sicurezza pubblica.
    9. - Il  Collegio,  sotto  altro  profilo (sub punto 5, lett. c),
ritiene  non  manifestamente  infondata  la questione di legittimita'
costituzionale,  per  contrasto  con  gli  artt. 2, 3, 24 e 97 Cost.,
dell'art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui,
in  correlazione  con  l'art. 4, comma 3, ultimo periodo del medesimo
decreto   legislativo,   relativamente  allo  straniero  regolarmente
soggiornante  in  Italia,  pone  quale  automatico,  inderogabile  ed
assoluto  elemento ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno (con
obbligo   della   sua   revoca)  un'unica  ed  isolata  condanna  per
determinati  reati,  anche  di  lieve o lievissima entita', senza che
possa  assumere  rilievo  alcuno  l'esame  in concreto dell'eventuale
pericolosita'    sociale    dell'istante    compiuto   dall'Autorita'
amministrava.
    9.1. - Or  bene,  se  per  i cittadini extracomunitari, come gia'
piu'  volte evidenziato, la pronuncia penale comporta automaticamente
il  rigetto  dell'istanza  di  permesso di soggiorno, al contrario il
legislatore  si  e' ben diversamente orientato per altre categorie di
persone.
    In  primo  luogo  viene in considerazione la disciplina contenuta
nel  d.lgs.  8  gennaio  2007,  n. 3 avente ad oggetto la «Attuazione
della  direttiva  2003/109/CE  relativa  allo  status di cittadini di
Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo». L'art. 1 del d.lgs. cit.,
nel sostituire l'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, prevede che anche
per i soggiornanti di lungo periodo il permesso di soggiorno non deve
essere  concesso  in  presenza  di  condanne  penali  per determinate
categorie  di  reati  ma  aggiunge  che  «ai fini dell'adozione di un
provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno di cui
al  presente  comma il Questore tiene conto altresi' della durata del
soggiorno   nel  territorio  nazionale  e  dell'inserimento  sociale,
familiare e lavorativo dello straniero».
    Merita quindi di essere esaminato il successivo d.lgs. 6 febbraio
2007,  n. 30 avente ad oggetto «Attuazione della direttiva 2004/38/CE
relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di
circolare  e  di  soggiornare  liberamente nel territorio degli Stati
membri».  L'art.  20 del d.lgs. cit., nel disciplinare le limitazioni
al  diritto  di ingresso e di soggiorno dei cittadini dell'Unione per
motivi  di  ordine  pubblico, stabilisce che i relativi provvedimenti
«sono  adottati  nel rispetto del principio di proporzionalita' ed in
relazione  a  comportamenti  della  persona,  che  rappresentino  una
minaccia  concreta  e  attuale  tale  da  pregiudicare  l'ordine e la
sicurezza  pubblica»,  aggiungendo poi, per quel che piu' rileva, che
«la  esistenza  di  condanne  penali  non  giustifica automaticamente
l'adozione di tali provvedimenti».
    9.2. - Il Collegio e' ben consapevole che le normative richiamate
hanno  riguardo a categorie di persone ben individuate, in modo tale,
non solo da non essere invocabili dai cittadini extracomunitari privi
dei  necessari  requisiti  soggettivi,  ma  da  non  poter costituire
neppure   un   valido   tertium   comparationis   nel   giudizio   di
costituzionalita'.
    Tuttavia  ritiene  che le normative invocate esplicitino principi
che  sono  di  portata  generale, in base ai quali le conseguenze sul
piano amministrativo devono di necessita' correlarsi ai comportamenti
tenuti  dalla  persona sulla base del principio di proporzionalita' e
devono  essere  il frutto di un'ampia e concreta valutazione da parte
dell'Amministrazione della specifica posizione di ogni interessato.
    Detta  disciplina  deve  pertanto  potersi assumere come punto di
riferimento  per  verificare se il regime applicabile alle persone di
provenienza  extracomunitaria  sia  analogo  al  regime  generale dei
cittadini  comunitari o se, al contrario, attribuisca loro un livello
di  tutela  minore,  incompatibile  con  il  divieto  fondamentale di
discriminazione fondata sulla cittadinanza (art. 48 Trattato CE).
    Tali  principi,  che  inverano  valori  costituzionali scaturenti
dagli  artt.  2,  3,  24  e  97  Cost.,  sono violati dalla normativa
all'attenzione  di  questo  Collegio nella parte in cui preclude agli
organi   amministrativi   di  compiere  una  valutazione  concreta  e
specifica della posizione di ciascun istante, guardando cioe' a tutti
i  profili  inerenti  il suo radicamento sul territorio ovvero la sua
pericolosita'  sociale,  imponendo  al  contrario  il  rigetto  delle
istanze  di  soggiorno  in  modo  automatico, in presenza di condanne
penali, ancorche' patteggiate e per fatti di lieve entita'.
    9.3. - Invero,  la regolamentazione della materia dell'ingresso e
del  soggiorno  e'  collegata alla ponderazione di svariati interessi
pubblici,   quali  la  sicurezza  e  la  sanita'  pubblica,  l'ordine
pubblico,   i   vincoli  di  carattere  internazionale,  la  politica
nazionale  in tema di immigrazione. E' evidente che tale ponderazione
spetta,  in  via  primaria,  al legislatore che possiede, in materia,
un'ampia discrezionalita'.
    E'  noto,  tuttavia, che la discrezionalita' legislativa incontri
un  limite  costituzionale,  integrato  dalla preclusione di compiere
scelte   manifestamente   irragionevoli  (vedi:  Corte  cost.:  sent.
n. 104/1969; 144/1970; 62/1994).
    9.3.1. - In  proposito  appare ipotizzabile una netta distinzione
tra  il primo ingresso del c.d. «migrante economico», per il quale un
siffatto   rigoroso   divieto   non   appare   irragionevole  per  un
Legislatore,  il  cui scopo e' contenere il fenomeno, contingentare e
programmare  il  numero  dei  flussi migratori e non ammettere coloro
che,  in  una  logica  di  prevenzione  dell'ordine  pubblico e della
sicurezza  dei  propri  cittadini, abbiano subito una condanna penale
per determinati reati individuati dallo stesso Legislatore.
    In  tale  ipotesi,  l'adozione di un provvedimento negativo trova
razionale  giustificazione laddove l'interessato, in attesa del primo
rilascio  del permesso di soggiorno, sia incorso nella commissione di
reati  ponendo  in  essere comportamenti non ispirati al tentativo di
inserimento  nella  vita  sociale  e  civile  del  nostro  Paese,  ma
suscettibili  di  riprovevolezza  e  non meritevolezza, ai fini della
permanenza in Italia.
    Siffatta  limitazione,  benche' astrattamente possa comportare la
compressione di alcuni diritti dello straniero, non sembrerebbe porsi
in  contrasto  con  norme e principi di valore costituzionale, atteso
che  detto  divieto e' connesso con una peculiare situazione di fatto
in  cui  lo  straniero  e'  ancora privo di uno stabile legame con la
comunita' nazionale.
    9.4. - La   situazione  si  mostra  invece  radicalmente  opposta
nell'ipotesi  -  come  quella in esame - in cui lo straniero sia gia'
stabilmente  e  regolarmente  soggiornante  in  Italia, in base ad un
titolo  che,  seppure  normalmente  a  termine,  esprime  un tasso di
stabilita'  con  ragionevole  aspettativa  ad  un suo consolidamento,
tanto   e'  vero  che  lo  straniero,  qualora  avesse  mantenuto  la
titolarita'  di un valido permesso di soggiorno, avrebbe avuto titolo
ad  essere annoverato tra i c.d. soggiornanti di lunga durata secondo
quanto previsto dall'art. 9 del T.U. n. 286/1998, come modificato dal
menzionato d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 3.
    In  questo  caso  appare ipotizzabile che le garanzie dei diritti
dello  straniero  non  possano  subire  limitazioni se non in stretto
collegamento    con    l'esigenza   di   tutelare   altri   interessi
costituzionalmente rilevanti.
    Di    conseguenza   la   preclusione   all'ulteriore   permanenza
autorizzata degli stranieri gia' regolarmente soggiornanti in Italia,
attuata  attraverso  il  diniego  del  permesso  di soggiorno, sembra
contrastare  -  come  gia'  accennato  -  con i ricordati principi di
parita' di trattamento, ragionevolezza, adeguatezza, proporzionalita'
e di coerenza interna della legge.
    Da ultimo si osserva che al ricorrente, persona celibe e privo di
familiari con i quali sia possibile attuare il ricongiungimento o che
siano  gia' autorizzati all'ingresso e alla permanenza sul territorio
nazionale,  non  e' applicabile il nuovo regime di particolare tutela
introdotto  dall'art.  2,  primo comma lett. b), d.lgs. n. 5/2007, in
favore   dello   straniero   che   ha   esercitato   il   diritto  al
ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto.
    Ritenuto,  in conclusione, che la controversia in esame non possa
essere  definita  indipendentemente dalla risoluzione della sollevata
questione   di  legittimita'  costituzionale  (che,  per  le  ragioni
indicate,  appare  non  manifestamente infondata), dal momento che il
ricorso  potra'  essere  definitivamente  accolto  oppure respinto, a
seconda   che   la  disposizione  normativa  denunciata  sia  o  meno
dichiarata incostituzionale (in parte qua) nella sede competente.
    Il  giudizio  deve  quindi  essere  sospeso  e  deve  disporsi la
trasmissione  degli  atti alla Corte costituzionale per l'esame della
suindicata questione di costituzionalita'.