LA CORTE DI APPELLO
Nel  procedimento  penale in grado di appello n. 296/04 R.G. App. nei
confronti  di  Cucumazzo  Gianni,  giudicato  con  sentenza  datata 7
febbraio  2003  del  Tribunale  di  Trieste, con la quale il medesimo
imputato  e'  stato  assolto  dal  reato  di  cui  all'art.  12, d.l.
n. 142/1991  per  non avere commesso il fatto ed e' stato assolto dai
reati  di  cui agli artt. 56, n. 629 c.p. e 648 c.p. perche' il fatto
non  sussiste,  sentenza  gravata  da  rituale  appello  da parte del
Procuratore  della  Repubblica  di  Trieste con richiesta di condanna
alla pena di giustizia, ha pronunciato la seguente ordinanza.
Nel  corso  dell'udienza  dibattimentale del 7 giugno 2006 il p.g. ha
formulato  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 10,
legge  20  febbraio  2006, n. 46, in riferimento all'art. 593 c.p.p.,
come  modificato dall'art. 1 della medesima legge, per violazione del
principio  della parita' delle parti nel processo e della ragionevole
durata   del   processo  sanciti  dall'art.  111  Cost.  nonche'  per
violazione    del   principio   dell'obbligatorieta'   dell'esercizio
dell'azione  penale  sancito  dall'art.  112  Cost.  chiedendo che la
Corte,  ritenuta  la  rilevanza e la non manifesta infondatezza della
questione    dedotta,    sollevasse    questione    di   legittimita'
costituzionale  delle norme summenzionate con conseguente sospensione
del   giudizio   in  corso  e  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale.
Ritiene   la   Corte   che   la  dedotta  questione  di  legittimita'
costituzionale  e'  rilevante  e  non  manifestamente  infondata, nei
termini appresso indicati.
Sotto  il profilo della rilevanza e', infatti, evidente che la Corte,
in  applicazione della sopravvenuta normativa di cui all'art. 10 cit.
legge n. 46 del 2006 in rif. all'art. 593 c.p.p., dovrebbe defmire il
grado  di giudizio mediante pronuncia di ordinanza non impugnabile di
inammissibilita',  di  talche'  verrebbe  ad  essere precluso l'esame
delle  questioni di merito proposte con l'interposto gravame, siccome
non   deducibili   nell'eventuale   ricorso  per  Cassazione  che  il
procuratore  generale  intendesse  proporre, ai sensi del comma 3 del
cit.  art.  10,  legge  n. 46  del  2006, contro la sentenza di primo
grado.
Sotto  il  diverso  profilo della non manifesta infondatezza, non par
dubbio  alla  Corte che la menzionata normativa si ponga in contrasto
con i parametri degli artt. 3 e 111 Cost..
A  tale  riguardo  conviene  ricordare che nella giurisprudenza della
Corte  costituzionale  e' stato piu' volte «ribadito che il principio
della  parita'  tra  accusa  e  difesa  non  comporta necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato   e   del   suo   difensore»  ed  e'  stato,  altresi',
«sottolineato  come  una  diversita'  di  trattamento rispetto a tali
poteri  possa  risultare  giustificata  sia dalla peculiare posizione
istituzionale  del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso
affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla corretta amministrazione
della  giustizia:  ma, in ogni caso, il diverso trattamento riservato
al  pubblico  ministero,  per  essere conforme a Costituzione, dovra'
trovare  una  ragionevole  motivazione  proprio  in  quella peculiare
posizione   o   in  quella  funzione  o  in  quelle  esigenze  appena
richiamate» (Corte cost. sent. n. 363 del 1991).
In   base   a   tale  orientamento,  la  Corte  ha,  in  particolare,
costantemente  ritenuto  che l'art. 443, comma 3, c.p.p., nella parte
in  cui  non  prevede  la  possibilita'  per il pubblico ministero di
proporre  appello avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di
giudizio  abbreviato, salvo che si tratti di sentenza che modifica il
titolo  del reato, non contrasta con l'art. 111, comma 2, Cost., come
inserito  dalla  legge  costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che ha
conferito  veste  autonoma  ad  un principio, quale quello di parita'
delle  parti,  pacificamente  gia'  insito  nel pregresso sistema dei
valori  costituzionali,  trovando  tale  preclusione  giustificazione
«nell'obiettivo  primario  di  una  rapida e completa definizione dei
processi  svoltisi  in primo grado secondo il rito alternativo di cui
si   tratta:  rito  che  -  sia  pure,  oggi,  per  scelta  esclusiva
dell'imputato  -  implica  una  decisione  fondata,  in  primis,  sul
materiale  raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata,
fuori delle garanzie del contraddittorio» (ord. n. 21 del 2001; nello
stesso  senso, ord. n. 363 del 1991, n. 373 del 1991, n. 305 del 1992
e n. 165 del 2003).
Orbene,  l'esame  della relazione di accompagnamento alla proposta di
legge  d'iniziativa  del  deputato  Pecorella  (Camera  dei  deputati
n. 4604) rende evidente che la limitazione dei poteri processuali del
pubblico  ministero,  lungi  dal venire giustificata in ragione della
sua  peculiare  posizione  istituzionale,  o  della  funzione ad esso
affidata ovvero delle esigenze connesse alla corretta amministrazione
della  giustizia,  e' stata ricondotta esclusivamente alla necessita'
di  adeguamento  dell'ordinamento  interno  al  principio sancito dal
Protocollo  addizionale n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei
diritti   dell'uomo   e   delle  liberta'  fondamentali,  adottato  a
Strasburgo  il  22 novembre 1984, reso esecutivo dalla legge 9 aprile
1990,  n. 98, che «all'art. 2 statuisce il diritto al doppio grado di
giurisdizione   in  materia  penale  per  chiunque  venga  dichiarato
colpevole  di  una  infrazione  penale  da  un tribunale», e cio' sul
rilievo  che  tale  principio  «allo  stato  e' reso vano dal vigente
codice  di  procedura penale nella parte in cui, prevedendo che possa
essere  impugnata  la  sentenza  di  primo  grado  di proscioglimento
dell'imputato da parte del pubblico ministero, in caso di sentenza di
condanna  in sede di gravame, non concede la possibilita' di ottenere
un secondo grado di giudizio nel merito in favore del condannato, che
ne avrebbe diritto in forza del principio esposto».
Le  ragioni  addotte a fondamento della disciplina normativa in esame
appaiono  alla  Corte  non solo estranee a quelle che legittimano una
limitazione  dei  poteri  processuali del pubblico ministero ma anche
del tutto prive di fondamento.
Ed,   infatti,  la  Corte  costituzionale,  mentre  ha  ripetutamente
affermato  che  «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma
oggetto  di  garanzia  costituzionale»  (sent. n. 117 del 1973; sent.
n. 62  del  1981;  sent. n. 301 del 1986; n. 543 del 1989, n. 438 del
1994;  ord.  n. 421 del 2001) ha ritenuto che «il tenore dell'art. 2,
comma  1,  del  Protocollo  addizionale  n. 7,  anche  attraverso  il
confronto  con quanto gia' disposto in tema di impugnazioni dall'art.
14,  comma  1,  del patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici  del  19  dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25
ottobre  1977,  n. 881,  non legittima una interpretazione per cui il
riesame  ad  opera  di un tribunale superiore debba coincidere con un
giudizio  di  merito.  La  formulazione dell'art. 2, nel demandare al
legislatore  interno  ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del
diritto  all'impugnazione,  non esclude, infatti, che il principio si
sostanzi  nella  previsione  del ricorso in Cassazione, gia' previsto
dalla Costituzione italiana».
Ne',   secondo   la   Corte,   varrebbe  sostenere  che,  essendo  la
ricorribilita' in Cassazione gia' prevista dalla Costituzione, l'art.
2,  comma  1,  della  Convenzione avrebbe introdotto il diritto ad un
secondo giudizio di merito, poiche' in tal modo si incorrerebbe in un
palese  vizio  logico  «in  quanto  la  norma  convenzionale verrebbe
interpretata  alla  luce del diritto interno, come se la disposizione
pattizia  avesse  il  ruolo  di  riempire  i  vuoti  dell'ordinamento
nazionale.  Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione
con   l'ordinamento   costituzionale   italiano,   alla   luce  della
consolidata  giurisprudenza  di questa Corte in tema di non rilevanza
costituzionale  della  garanzia  del  doppio  grado di giurisdizione»
(sent. n. 288 del 1997).
Cio'   posto,   appare   evidente   che   la  nuova  disciplina  crea
un'irragionevole  disparita' di trattamento, rilevante ai sensi degli
artt. 3 e 111 Cost., a sfavore del pubblico ministero, disparita' che
non  puo'  trovare  giustificazione  nel  fatto  che  la proposizione
dell'appello  sia  formalmente  preclusa  ad  entrambe  le parti, ben
diverso  essendo  il  rispettivo  interesse  sostanziale  a  proporre
impugnazione   avverso   sentenza   di  proscioglimento,  ne'  appare
legittimata da alcun' altra apprezzabile esigenza.
La  questione  di legittimita' costituzionale del cit. art. 10, legge
n. 46  del  2006 in riferimento al novellato art. 593 cod. proc. pen.
appare,  inoltre, non manifestamente infondata anche sotto il diverso
profilo  della  violazione del parametro della ragionevole durata del
processo sancito dall'art. 111, comma 2, seconda ipotesi, Cost..
Va,  invero,  rilevato  che,  nell'ipotesi  di  ingiusta  sentenza di
proscioglimento  e  di  conseguente impugnazione accolta, il percorso
processuale   ordinario   imposto  dalla  nuova  normativa  si  snoda
attraverso non meno di cinque gradi di giudizio (assoluzione in primo
grado,  annullamento  della  Cassazione,  condanna  in  primo  grado,
conferma  in appello, rigetto del ricorso in Cassazione), laddove nel
precedente  sistema esso si completava in soli tre gradi (assoluzione
in   primo   grado,  riforma  in  appello,  rigetto  del  ricorso  in
Cassazione).
L'allungamento  dei  tempi  processuali  che  ne deriva - e dunque la
compressione del principio, a rilevanza costituzionale, di efficienza
del   processo   -   risulta   ancora   piu'  sensibile  e  privo  di
giustificazione  se si considera che con la recente legge n. 251/2005
sono  stati  ridotti i termini di prescrizione per numerosi reati, in
ordine  ai  quali  dunque l'iter processuale innescato da un'ingiusta
sentenza  di  proscioglimento  pare  destinato  a concludersi con una
sentenza  dichiarativa  della  prescrizione,  piuttosto  che  con una
sentenza definitiva che accerti nel merito la penale responsabilita'.
La violazione del principio di ragionevole durata del processo appare
ancora  piu'  evidente qualora, come appunto nella fattispecie, debba
farsi  applicazione  della  disciplina transitoria contenuta nel cit.
art. 10, legge n. 46 del 2006.
Detta  disposizione,  la  quale  tratteggia  la  sorte  dei  processi
pendenti  in  sede  di  gravame in forza di un appello legittimamente
presentato  dal pubblico ministero, destinandoli ad un'indiscriminata
declaratoria  d'inammissibilita'  e  ad  un  successivo  ricorso  per
Cassazione  da  parte del pubblico ministero avverso l'assoluzione di
primo  grado,  aggiunge ulteriori motivi di violazione del principio,
gia' intaccato dal nuovo disegno normativo, di ragionevole durata del
processo.
Ed,  infatti,  il  nuovo  sistema  normativo,  derogando al principio
tempus  regit  actum  che  governa  la  materia processuale, non solo
sacrifica   ineludibilmente   un   atto  di  gravame  tempestivamente
proposto,  costringendo  la parte interessata a presentarne un altro,
ma  comporta  l'inevitabile  differimento della presentazione di esso
all'eseguita   notifica  del  provvedimento  di  inammissibilita'  e,
pertanto,  ad  un  termine  futuro ed incerto, considerati i tempi di
fissazione  dei  processi  di appello normalmente scanditi in base ai
termini  prescrizionali  misurati  sui tre gradi,del giudizio, sinora
fisiologici.