Ordinanza
nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 5, comma 3, del
d.lgs.  26  maggio  1997,  n. 153 (Integrazione dell'attuazione della
direttiva  91/308/CEE  in  materia  di  riciclaggio  dei  capitali di
provenienza  illecita),  promossi con ordinanze del 30 marzo 2007 dal
Tribunale  di  Cagliari, del 17 maggio 2007 dal Tribunale di Novara e
dal  10  luglio  2007  dal  Tribunale  di  Mondovi',  rispettivamente
iscritte  ai  nn.  600,  718  e  785  del  registro  ordinanze 2007 e
pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica nn. 35, 41 e
48, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
   Visti  gli atti di costituzione di F.G. e di B.G. nonche' gli atti
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
   Udito  nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il giudice relatore
Giovanni Maria Flick;
   Uditi gli avvocati Oreste Dominioni e Stefano Guadalupi per F. G.,
Stefano  Guadalupi per B. G. e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
   Ritenuto  che,  con  le  tre  ordinanze  indicate  in epigrafe, di
analogo tenore, il Tribunale di Cagliari, il Tribunale di Novara e il
Tribunale di Mondovi' hanno sollevato, in riferimento agli artt. 76 e
77  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione
dell'attuazione  della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio
dei  capitali  di provenienza illecita), nelle parti in cui configura
come  delitto  la  fattispecie criminosa ivi descritta e commina pene
superiori ai «limiti edittali» indicati nella legge delega 6 febbraio
1996,  n. 52  (Disposizioni  per  l'adempimento di obblighi derivanti
dall'appartenenza   dell'Italia   alle   Comunita'   europee -  legge
comunitaria 1994);
     che  i giudici a quibus - investiti di processi nei confronti di
persone  imputate  del  delitto  previsto dalla norma denunciata, per
avere  eseguito  operazioni  di incasso e trasferimento di fondi, per
conto  di  intermediari  finanziari,  senza  la prescritta iscrizione
nell'elenco degli agenti in attivita' finanziaria; ovvero imputate di
concorso  nel  medesimo  delitto  - riferiscono che i difensori degli
imputati  avevano  eccepito  l'illegittimita' costituzionale di detta
norma, per contrasto con gli artt. 25, 76 e 77 Cost.;
     che,  al  riguardo,  i  rimettenti  muovono da una ricostruzione
preliminare  del  quadro  normativo,  rilevando,  in  specie, come la
disposizione  denunciata  sia  stata  emanata sulla base della delega
legislativa  conferita  al Governo dalla legge n. 52 del 1996 ai fini
dell'integrazione   dell'attuazione  della  direttiva  n. 91/308/CEE,
relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di
riciclaggio dei proventi di attivita' illecite;
     che -  in  correlazione  alle  statuizioni  dell'art.  12  della
direttiva -  l'art.  15,  comma  1,  lettera  c),  della legge delega
prevedeva,  tra  i principi e criteri direttivi, quello di «estendere
[...], in tutto od in parte, l'applicazione delle disposizioni di cui
al  decreto-legge  3  maggio 1991, n. 143» (Provvedimenti urgenti per
limitare   l'uso  del  contante  e  dei  titoli  al  portatore  nelle
transazioni  e  prevenire  l'uso  del  sistema finanziario a scopo di
riciclaggio),  convertito,  con  modificazioni,  nella legge 5 luglio
1991,  n. 197,  «a  quelle  attivita' particolarmente suscettibili di
utilizzazione  a  fini  di  riciclaggio  per  il  fatto di realizzare
l'accumulazione   o   il   trasferimento  di  ingenti  disponibilita'
economiche   o   finanziarie   o   risultare   comunque   esposte  ad
infiltrazioni da parte della criminalita' organizzata»;
     che  la  medesima  norma  di  delega  demandava,  altresi',  «la
formazione o l'integrazione dell'elenco di tali attivita' o categorie
di  imprese»  a  uno o piu' decreti legislativi, da emanare entro due
anni  dalla  data  di  entrata  in vigore del decreto attuativo della
delega stessa;
     che,  dando  attuazione  alla delega, l'art. 5 del d.lgs. n. 153
del 1997 ha esteso le previsioni del d.l. n. 143 del 1991 ai soggetti
che svolgono le attivita' individuate nei decreti legislativi emanati
ai  sensi  del citato art. 15, comma 1, lettera c), della legge n. 52
del  1996  (comma 1); ed ha stabilito che, ai fini di tali attivita',
«e' istituito un elenco di operatori, suddiviso per categorie, tenuto
dal  Ministro  del  tesoro,  che  si avvale dell'Ufficio italiano dei
cambi» (comma 2);
     che   il  comma  3  dello  stesso  art.  5 -  recante  la  norma
incriminatrice  impugnata - punisce, quindi, con la reclusione da sei
mesi  a  quattro  anni  e  con  la  multa da euro 2.065 a euro 10.329
chiunque  esercita  le  attivita'  in questione senza essere iscritto
nell'elenco;
     che  l'individuazione delle attivita' rilevanti e' stata operata
dall'art.  1  del  d.lgs. 25 settembre 1999, n. 374 (Estensione delle
disposizioni  in  materia  di riciclaggio dei capitali di provenienza
illecita  ed  attivita'  finanziarie  particolarmente suscettibili di
utilizzazione  a  fini di riciclaggio, a norma dell'articolo 15 della
legge  6  febbraio  1996,  n. 52),  il  quale  ha  stabilito  che  le
disposizioni  del  d.l.  n. 143 del 1991 si applichino, tra le altre,
all'«agenzia  in attivita' finanziaria prevista dall'articolo 106 del
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico
delle  leggi  in  materia bancaria e creditizia»; attivita' che a sua
volta  abbraccia -  in  virtu'  dell'art. 4, comma 1, lettera a), del
d.m.  6  luglio  1994 (che specifica, ai sensi del comma 4 del citato
art.  106,  il  contenuto  delle attivita' indicate nel comma 1 dello
stesso   articolo) -  anche  quella  di  intermediazione  finanziaria
esercitata   mediante  «incasso  e  trasferimento  di  fondi»:  ossia
l'attivita' oggetto dell'imputazione;
     che -  ravvisata, di conseguenza, la rilevanza della questione -
i  giudici  a  quibus  reputano manifestamente infondate le deduzioni
delle  difese  relative tanto al supposto vizio di eccesso di delega,
in  cui  il  legislatore  sarebbe  incorso nella individuazione della
condotta  incriminata,  stante l'assenza di un'omologa fattispecie di
abusivismo nella normativa di riferimento (quella del d.l. n. 143 del
1991);  quanto alla pretesa violazione del principio della riserva in
legge  in  materia  penale,  avuto  riguardo al fatto che - secondo i
difensori -  la  scelta di configurare come reato l'esercizio abusivo
dell'attivita'  di  incasso  e  trasferimento  di fondi sarebbe stata
operata da una fonte regolamentare (il d.m. 6 luglio 1994);
     che,  al  contrario, i rimettenti condividono l'ulteriore dubbio
di costituzionalita' prospettato dalle difese, sul piano dell'eccesso
di  delega,  relativamente  alla  scelta  del legislatore delegato di
configurare   la   fattispecie   criminosa  de  qua  come  delitto  e
all'entita' della pena per essa comminata;
     che  ad  avviso dei rimettenti, difatti, il legislatore delegato
doveva  ritenersi  abilitato  ad  introdurre  unicamente  fattispecie
criminose   di   tipo  contravvenzionale,  sanzionate  con  pene  non
eccedenti  i  limiti  edittali  che  connotano  le  ipotesi  di reato
previste dal d.l. n. 143 del 1991;
     che a tale conclusione indurrebbe non soltanto il riferimento di
ordine  generale,  contenuto nella norma di delega, all'applicazione,
in  tutto  o  in  parte,  del  decreto-legge  ora citato; ma anche la
specifica  previsione  del comma 2 dell'art. 15 della legge n. 52 del
1996,  in  forza della quale, «in sede di riordinamento normativo, ai
sensi  dell'art.  8,  delle  materie  concernenti il trasferimento di
denaro  contante e di titoli al portatore, nonche' il riciclaggio dei
capitali di provenienza illecita, potra' procedersi al riordino delle
sanzioni  amministrative  e penali previste nelle leggi richiamate al
comma  1,  nei  limiti  massimi  ivi contemplati»: leggi tra le quali
figura proprio il d.l. n. 143 del 1991;
     che  alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  delega -
osservano   ancora  i  rimettenti -  il  decreto-legge  in  questione
contemplava,  tra  gli  illeciti  penali  (art.  5,  commi  4  e  6),
unicamente  fattispecie  di  tipo  contravvenzionale  punite con pene
inferiori  a  quella  comminata  dalla  norma  impugnata  (in specie:
arresto  da  sei  mesi  ad  un  anno,  congiunto  ovvero  alternativo
all'ammenda);
     che  la  figura delittuosa originariamente prevista dall'art. 6,
comma  9,  del  d.l.  n. 143  del 1991 - che puniva l'esercizio delle
attivita'  di  cui  al  comma  1  dello  stesso  articolo da parte di
soggetti  non  iscritti  nell'apposito  elenco,  o  per  i  quali non
sussistessero le condizioni di iscrizione, colpendola con pena uguale
a  quella  stabilita  dalla  norma  contestata -  era stata, infatti,
abrogata  dall'art.  161  del  d.lgs.  n. 385 del 1993: onde dovrebbe
escludersi  che  la norma di delega intendesse riferirsi anche a tale
previsione punitiva;
     che,  secondo  i  Tribunali di Cagliari e di Novara, inoltre, il
criterio   direttivo   risulterebbe  egualmente  violato,  almeno  in
rapporto  al  livello  della  pena,  ove  pure  si  ritenesse  che il
legislatore  delegante -  nel richiamare, all'art. 15, comma 2, della
legge  n. 52  del  1996,  i limiti massimi delle sanzioni contemplate
dalle  leggi  indicate  nel comma 1 - avesse inteso evocare, oltre al
d.l.  n. 143  del 1991, anche il decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167
(Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l'estero
di  denaro,  titoli  e  valori), convertito, con modificazioni, nella
legge  4  agosto  1990,  n. 227,  richiamato nel comma 1 dell'art. 15
della legge delega; l'art. 5 del citato d.l. n. 167 del 1990 prevede,
difatti,   una   figura   delittuosa   di   false   indicazioni  agli
intermediari,   ma  punita  con  pena  comunque  inferiore  a  quella
comminata dalla norma denunciata (reclusione da sei mesi ad un anno e
multa da lire un milione a lire dieci milioni);
     che   nei   giudizi   di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata  manifestamente  infondata,  per essere i giudici a quibus
incorsi  in  errore  nell'individuazione della «norma interposta», la
quale  andrebbe  identificata, non nell'art. 15 della legge n. 52 del
1996,  ma  nell'art. 3, comma 1, lettera c), della legge stessa, alla
cui  stregua la disposizione denunciata dovrebbe ritenersi pienamente
rispettosa della delega;
     che  si  sono  altresi'  costituiti G. F. (nel giudizio relativo
all'ordinanza   r.o.   n. 600   del  2007  e  nel  giudizio  relativo
all'ordinanza  r.o.  n. 718  del 2007) e G. B. (nel giudizio relativo
all'ordinanza  r.o. n. 785 del 2007), imputati nei processi a quibus,
i  quali  hanno  chiesto,  sulla  base  di  identiche considerazioni,
l'accoglimento della questione;
     che  la  parte  privata  G. F. ha depositato, altresi', memoria,
volta   segnatamente   a  contrastare  le  deduzioni  dell'Avvocatura
generale dello Stato.
   Considerato  che  le  ordinanze  di rimessione sollevano questioni
identiche,  onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti
con unica decisione;
     che   i   giudici   a   quibus   dubitano   della   legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione,
dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione
dell'attuazione  della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio
dei  capitali  di provenienza illecita), nelle parti in cui configura
come  delitto  la  fattispecie criminosa ivi descritta e commina pene
superiori ai «limiti edittali» indicati nella legge delega 6 febbraio
1996, n. 52;
     che,  ad  avviso  dei rimettenti, il legislatore delegato doveva
ritenersi abilitato ad introdurre unicamente fattispecie criminose di
tipo  contravvenzionale,  punite  con  pene  non  superiori  a quelle
previste  per  i  reati  contemplati  dal d.l. 3 maggio 1991, n. 143,
convertito,  con  modificazioni,  nella  legge 5 luglio 1991, n. 197;
ovvero,  in subordine - secondo i Tribunali di Cagliari e di Novara -
anche dal d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni,
nella  legge  4  agosto  1990,  n. 227:  nel qual caso il criterio di
delega  risulterebbe  violato  almeno  per  quanto concerne la misura
della pena;
     che  i rimettenti valutano, tuttavia, la sussistenza del dedotto
vizio  di  eccesso  di delega esclusivamente alla luce dei criteri di
delega  specifici  dettati dall'art. 15 della legge n. 52 del 1996 ai
fini  dell'integrazione  dell'attuazione  della direttiva 91/308/CEE,
senza  tenere  conto  dei  criteri  generali stabiliti dalla medesima
legge in tema di disciplina delle sanzioni: criteri - questi ultimi -
la cui applicabilita' non e' affatto esclusa dai primi;
     che,  secondo  un approccio tipico delle «leggi comunitarie», la
legge  n. 52  del  1996 ha delegato, difatti, il Governo ad emanare i
decreti  legislativi  recanti le norme necessarie per dare attuazione
ad  un  complesso  di direttive comunitarie, indicate nell'allegato A
alla  medesima  legge (art. 1): direttive fra le quali e' compresa la
direttiva  91/308/CEE,  in  tema  di prevenzione dell'uso del sistema
finanziario   a  scopo  di  riciclaggio  dei  proventi  di  attivita'
illecite;
     che la medesima legge n. 52 del 1996 reca, altresi', all'art. 3,
un  insieme  di  criteri  e  principi direttivi «generali»: valevoli,
cioe',  per  tutti i decreti legislativi da emanare, salvi i principi
specifici  dettati  dai successivi articoli in relazione alle singole
materie e in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare;
     che,  con  particolare  riguardo  all'assetto  sanzionatorio, la
lettera c) del citato art. 3 - ripetendo una formula ricorrente nelle
«leggi comunitarie» ― stabiliva che il legislatore delegato potesse
introdurre  sanzioni  amministrative  e penali per le infrazioni alle
disposizioni  dei  decreti  legislativi,  ove  necessario  al fine di
assicurarne  l'osservanza:  entro  il  limite -  quanto alle sanzioni
penali -  dell'ammenda  fino  a  lire duecento milioni e dell'arresto
fino a tre anni, e sempre che le infrazioni ledessero o esponessero a
pericolo  «interessi  generali  dell'ordinamento  interno del tipo di
quelli  tutelati  dagli  artt.  34 e 35 della legge 24 novembre 1981,
n. 689»;
     che  la  medesima  disposizione  soggiungeva, tuttavia, che, «in
ogni caso, in deroga ai limiti sopra indicati, per le infrazioni alle
disposizioni dei decreti legislativi saranno previste sanzioni penali
o  amministrative  identiche  a  quelle  eventualmente gia' comminate
dalle  leggi  vigenti  per le violazioni che siano omogenee e di pari
offensivita' rispetto alle infrazioni medesime»;
     che -  come  emerge chiaramente dalla relazione integrativa allo
schema  del  d.lgs.  n. 153  del  1997  -  e'  proprio sulla base del
criterio  generale di delega da ultimo indicato, e non gia' di quelli
specifici di cui all'art. 15 della medesima legge, che il legislatore
delegato ha inteso emanare la norma incriminatrice di cui si discute:
e  cio'  sul  rilievo che la fattispecie di abusivismo contemplata da
tale  norma  risulterebbe omogenea e di pari offensivita' rispetto al
delitto  di abusiva attivita' finanziaria, previsto dall'art. 132 del
d.lgs.  1°  settembre  1993,  n. 385,  nonche'  al delitto di abusivo
esercizio dell'attivita' di mediazione creditizia, previsto dall'art.
16,  comma  7,  della  legge  7  marzo  1996, n. 108 (Disposizioni in
materia  di usura); delitti al cui trattamento sanzionatorio e' stato
quindi allineato quello della figura di reato di cui si discute;
     che -  conformemente  a  quanto  eccepito  dall'Avvocatura dello
Stato -  i  ricorrenti  hanno  individuato, dunque, in modo errato la
norma  di  delega  alla  cui stregua va apprezzata la sussistenza del
dedotto  vizio  di  eccesso  di  delega,  svolgendo,  di conseguenza,
argomentazioni inconferenti ai fini di tale valutazione: il che rende
le  questioni sollevate manifestamente inammissibili (sentenza n. 382
del 2004; ordinanza n. 72 del 2003);
     che,  per  altro  verso -  secondo la costante giurisprudenza di
questa  Corte -  nel  giudizio  di legittimita' costituzionale in via
incidentale,  non  possono  essere  presi  in considerazione, oltre i
limiti  del  thema  decidendum  fissato dall'ordinanza di rimessione,
ulteriori  questioni  o  profili  di  costituzionalita' dedotti dalle
parti,  tanto  ove siano stati gia' eccepiti, ma non fatti propri dal
giudice  a  quo;  quanto ove risultino comunque diretti ad ampliare o
modificare  successivamente il contenuto della predetta ordinanza (ex
plurimis,  sentenze  n. 134  del  2003,  n. 49  e  n. 330  del  1999;
ordinanze n. 44 e n. 219 del 2001);
     che  non  puo'  essere  presa  dunque in esame, nella specie, la
censura  prospettata da tutte le parti private costituite, secondo la
quale   il   legislatore   avrebbe   ecceduto   dalla   delega  anche
nell'individuare la fattispecie sanzionata penalmente: trattandosi di
deduzione  rispetto  alla quale opera, in questa sede, la preclusione
derivante  dalla  valutazione di manifesta infondatezza formulata dai
giudici a quibus;
     che altrettanto deve dirsi anche per l'ulteriore censura, svolta
dalla  parte  privata G. F., stando alla quale la norma impugnata non
sarebbe  rispettosa neppure del criterio direttivo di cui all'art. 3,
comma   1,  lettera  c),  della  legge  n. 52  del  1996,  in  quanto
l'infrazione  punita dall'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 153 del 1997
non  potrebbe  ritenersi  omogenea  e di pari offensivita' rispetto a
violazioni  previste  da  «leggi  vigenti», e segnatamente rispetto a
quella   contemplata  dall'art.  132  del  d.lgs.  n. 385  del  1993:
trattandosi  di  censura  del tutto distinta rispetto a quelle svolte
nelle ordinanze di rimessione.
   Visti  gli  artt.  26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.