IL TRIBUNALE
   Nel  processo  nei  confronti  di Redzic Benjamin, nato a Busovaca
Kacuni (YU) il 25 luglio 1974, ha emesso la seguente ordinanza.
   1.  -  In  data  29  giugno  2006 Benjamin Redzic veniva tratto in
arresto  dalla  Polizia  di  Stato,  perche'  ritenuto  versare nella
flagranza  del  reato  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter del d.lgs.
n. 286/1998. Il pubblico ministero chiedeva la convalida dell'arresto
e  la  celebrazione  del giudizio direttissimo; fissata l'udienza per
tale  scopo  il  giudicante,  all'esito del processo, ritenuto che il
fatto fosse diverso da quello contestato (perche' integrante il reato
p. e p. dall'art. 13, comma 13 del d.lgs. n. 286/1998), ha restituito
gli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2 c.p.p.
   Veniva  poi nuovamente tratto a giudizio il Redzic avanti a questo
giudice,  nell'udienza  del  18  dicembre  2006,  con  un'imputazione
alternativa  fra  i  reati  sopra  citati; peraltro, ritenendo questo
giudicante che il fatto dovesse venire qualificato alla stregua della
fattispecie  da  ultimo  citata, anche perche' lo stesso Redzic aveva
ammesso  (peraltro,  senza avere un particolare interesse a farlo) di
essere volontariamente rientrato in Italia dopo l'espatrio effettuato
in ottemperanza al decreto di espulsione.
   In  quella  udienza  lo  scrivente  ha  ritenuto  pregiudiziale  -
rispetto    agli   apprezzamenti   concernenti   la   responsabilita'
dell'imputato  - la valutazione concernente la conformita' alla carta
costituzionale  delle norme di cui poteva essere fatta applicazione a
tal  fine, particolarmente della previsione edittale che si riferisce
al  reato  per  cui  si  procede,  peraltro  nei  limiti  in cui tale
valutazione  e'  consentita  dall'art. 1 della legge costituzionale 9
febbraio  1948,  n. 1  e  dall'art.  23, comma 3 della legge 11 marzo
1953, n. 87.
   Per  tale ragione lo scrivente giudice, nella predetta udienza, ha
sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  riguardo alla
norma incriminatrice invocata dal pubblico ministero, per il ritenuto
contrasto   con   gli   artt.   3  e  27,  terzo  comma  della  Carta
costituzionale.
   Con  ordinanza n. 385 del 5 novembre 2007 la Corte costituzionale,
rilevato  che  l'art.  13,  comma  13  del  d.lgs.  n. 286/1998,  nel
frattempo,  era  stato  modificato dall'art. 2, comma 1, lett. c) del
d.lgs.  8 gennaio 2007, n. 5, ha restituito gli atti a questo giudice
remittente,  per una nuova valutazione in ordine alla rilevanza della
questione  proposta.  In  particolare,  la  Corte  ha ritenuto che la
novella   appena   citata   abbia   modificato   la   fisionomia  del
comportamento   delittuoso,   limitando   la   rilevanza  penale  del
reingresso  ai  soli casi in cui lo straniero precedentemente espulso
non  abbia conseguito ne' la speciale autorizzazione ministeriale ne'
l'autorizzazione al ricongiungimento.
   Percio',  sulla  base dell'esame degli atti, si deve escludere che
nella  fattispecie  in  esame  ricorra il caso previsto dall'art. 13,
comma  13 ultima parte del d.lgs. n. 286/1998. Invero, dagli atti non
risulta  l'esistenza di familiari del Redzic residenti in Italia, ne'
risultano   richieste  avanzate  dall'interessato  per  finalita'  di
ricongiungimento   familiare;  ne',  del  resto,  nell'interrogatorio
effettuato   nell'udienza   di   convalida,  l'interessato  ha  fatto
riferimento a circostanze di tal genere.
   Ritiene  percio'  questo  giudice che il nuovo esame demandato dal
provvedimento  della  Corte  su questo particolare aspetto, incidente
sulla  rilevanza della questione a suo tempo proposta, sortisca esito
negativo.  Di  talche',  non essendo per altro verso mutato il quadro
normativo di riferimento, ne' avendo la norma denunciata subito altre
modifiche  incidenti sui profili demandati alla delibazione di questo
giudice,   debba   venire   riproposta   la   medesima  questione  di
legittimita'  costituzionale,  negli stessi termini gia' espressi con
l'ordinanza del 18 dicembre 2006.
   2.   -   Anzitutto,   pare   opportuna   una   breve   digressione
sull'evoluzione  della  normativa di cui si deve fare applicazione in
questa sede.
   Prevedeva  l'art.  151  TULPS che lo straniero espulso non potesse
rientrare   nel   territorio   dello   Stato   senza   una   speciale
autorizzazione  del Ministro dell'interno e che il trasgressore fosse
punito con l'arresto da due a sei mesi.
   L'art.  46,  comma  1  lett. a) della legge 6 marzo 1998, n. 40 ha
abrogato  l'art.  151/  TULPS;  a  questa e' subentrata la previsione
incriminatrice  di  cui  all'art.  13;  comma 13 del d.lgs. 25 luglio
1998,  n. 286,  rimanendo  pero' immutata la sanzione prevista per il
trasgressore.
   L'art.  12,  comma  1  della  legge 30 luglio 2002, n. 189, ha poi
pero'  inasprito  la  sanzione,  prevedendo  che la medesima condotta
fosse punibile con l'arresto da sei mesi a un anno.
   Infine,  la  sanzione  edittale  e' stata ulteriormente modificata
dall'art.  1  del  d.l.  14  settembre  2004,  n. 241, convertito con
modifiche  dalla  legge  12  novembre  2004,  n. 271, per il quale la
medesima  condotta  e'  punibile  con  la reclusione da uno a quattro
anni.
   Peraltro,  il  d.l.  241,  nelle  modifiche  introdotte in sede di
conversione, ha inasprito anche la sanzione edittale stabilita per il
reato  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter del d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286,  portandola  - dall'originaria previsione dell'arresto da sei
mesi a un anno - a quella della reclusione da uno a quattro anni.
   Le  modifiche  alla  normativa  de  qua dettate dal citato decreto
conseguono alla pronuncia, da parte della Corte costituzionale, della
sentenza n. 223 del 15 luglio 2004, con la quale era stata dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14, comma 5-quinquies del
d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286  per contrasto con gli artt. 3 e 13
della  Costituzione,  «...  nella  parte in cui stabilisce che per il
reato  previsto  dal comma 5-ter del medesimo art. 14 e' obbligatorio
l'arresto    dell'autore   del   fatto   ...»,   per   la   manifesta
irragionevolezza della previsione dell'arresto obbligatorio, previsto
dalla  norma  nonostante  che  sulla  base  del  vigente  ordinamento
processuale  esso non fosse suscettibile di sfociare in alcuna misura
cautelare.
   D'altro   canto,   dalle   dichiarazioni   degli  esponenti  della
maggioranza  parlamentare  (nella  misura in cui dalle stesse si puo'
desumere  1'«intenzione»  del  Legislatore) e dagli atti parlamentari
relativi  all' di approvazione della legge di conversione si ricavano
indicazioni univoche, le quali confermano che le modifiche introdotte
con  il  d.l.  241  del  2004 sono state motivate dalla necessita' di
ovviare  alla  pronuncia  della  sentenza  della Corte costituzionale
n. 223 del 2004.
   Invero, in tali atti si rinviene piu' volte l'espressa indicazione
della   necessita'   di   superare   le  censure  mosse  dalla  Corte
costituzionale  («... Sul cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la
mannaia  della  Corte  costituzionale...  Ritengo  che con il d.l. in
esame il Governo ed il Parlamento siano intervenuti correttamente per
rispondere  ai  rilievi della Corte...» (A.C. 5369, discussione del 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  al  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
   Va  dunque  notato  che l'innalzamento del limite edittale massimo
porta la fattispecie in esame nell'ambito di operativita' del sistema
generale   di   applicabilita'  delle  misure  coercitive,  ai  sensi
dell'art.  280, comma 2 c.p.p., sicche' viene meno il presupposto dal
quale  la Corte aveva argomentato l'irragionevolezza della previsione
dell'arresto obbligatorio per siffatto reato.
   Peraltro,  va notato che, pur non venendo direttamente interessata
dalle  pronunce  della  Corte  costituzionale  la  fattispecie di cui
all'art.  13,  comma  13, la modifica della sanzione edittale ad essa
relativa   si   giustifica   per   il   coordinamento   del   sistema
sanzionatorio,  posto  che anche in precedenza le previsioni edittali
dell'art. 14, comma 5-ter e dell'art. 13, comma 13 erano analoghe.
   Dunque   anche   per  quest'ultima  fattispecie  e'  ora  previsto
l'arresto obbligatorio in flagranza ed e' possibile l'applicazione di
tutte  le  misure  coercitive  contemplate  nel Capo II, Libro IV del
Codice di procedura penale.
   3. - Dubita lo scrivente giudice che la misura della pena edittale
prevista   per   il   reato   in   esame   sia  conforme  al  dettato
costituzionale.
   In  primo  luogo,  essa  pare  in  contrasto  con  l'art.  3 della
Costituzione,   perche'   non  appare  rispettosa  del  principio  di
uguaglianza,   sotto   i   profili   della   ragionevolezza  e  della
proporzionalita'.
   Si   deve  pero'  premettere  che  la  Corte  costituzionale,  pur
riservando  alla  discrezionalita'  del legislatore lo «... stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'  di  situazioni  ...», ha affermato ripetutamente che «...
l'esercizio  di  tale  discrezionalita'  puo' essere censurato quando
esso  non  rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo
ad   una   disparita'  di  trattamento  palese  e  ingiustificata...»
(sentenza  n. 25  del  1994;  il  principio e' richiamato anche nella
sentenza  n. 333  del  1992,  nell'ordinanza  n. 220 del 1996 e nella
sentenza n. 84 del 1997).
   Allora,  riguardo  ai profili dianzi richiamati, e' stato chiarito
(sentenza  n. 409  del  1989) che il principio di uguaglianza sancito
dall'art.   3   della   Costituzione  «...  esige  che  la  pena  sia
proporzionata  al  disvalore del fatto illecito commesso, in modo che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni individuali...». Tale
funzione  non  verrebbe  adempiuta  qualora non venisse rispettato il
limite della ragionevolezza.
   Per  meglio  delineare  quest'ultimo si puo' fare riferimento alla
giurisprudenza   della  Corte  costituzionale  che,  nell'intento  di
specificare  i connotati del principio costituzionale di uguaglianza,
ha fatto riferimento a un piu' ampio sistema di valori, che abbraccia
molteplici  principi  costituzionali,  che va letto nel suo insieme e
impone  soluzioni interpretative fra loro coerenti: il riferimento va
alla sentenza n. 91 del 1973 e, soprattutto, alla sentenza n. 215 del
1987,  che  afferma  «...  Sul  tema  della  condizione giuridica del
portatore   di  handicaps  confluiscono  un  sistema  di  valori  che
attingono    ai    fondamentali   motivi   ispiratori   del   disegno
costituzionale...   conseguentemente,   il   canone   ermeneutica  da
impiegare    in    siffatta    materia    e'    essenzialmente   dato
dall'interrelazione  e  dall'integrazione  tra i precetti in cui quei
valori  trovano espressione e tutela ...»; ancor piu' esplicitamente,
la  sentenza  n. 204  del  1982  insegna  che  il  valore  essenziale
dell'ordinamento giuridico di un paese civile va ricercato «... nella
coerenza tra le parti di cui si compone... canone di coerenza che nel
campo  delle  norme  di  diritto  e'  l'espressione  del principio di
uguaglianza  di  trattamento  tra  eguali posizioni sancito dall'art.
3...».
   Cosi',  la  Corte  costituzionale  ha  ripetutamente dimostrato di
ritenere  sindacabile l'esercizio della discrezionalita' da parte del
legislatore,  sul  punto  relativo  alla  corrispondenza delle scelte
legislative  al  canone  di  ragionevolezza:  al riguardo, si possono
ricordare la sentenza n. 55 del 1974 (con la quale si e' ritenuto che
la  norma  impugnata dettasse si' una disciplina differenziata, pero'
per  situazioni  che il legislatore aveva ritenuto diverse e che tale
apprezzamento  non  fosse  privo di razionalita) e la sentenza n. 126
del  1979,  nella  quale  si  insegna  che «... effettuata una scelta
politica  nell'esercizio della sua discrezionalita', logica vuole che
il  legislatore  stesso  attui  poi  con  coerenza il crio prescelto,
mediante  una  disciplina  normativa idonea al conseguimento del fine
voluto.  Diversamente,  ove  l'incoerenza  fosse  tale da determinare
irrazionali  discriminazioni,  la legge risulterebbe viziata non solo
nel   merito,   ma   anche   sotto   il  profilo  della  legittimita'
costituzionale...».
   Anche  sullo  specifico tema del giudizio sulla razionalita' delle
scelte  del  legislatore  in tema di proporzione fra reato e pena, la
Corte ha piu' volte affermato la possibilita' di sindacare disparita'
di    trattamento   talmente   rilevanti   da   apparire   prive   di
giustificazione, e cio' e' avvenuto anche quando poi, in concreto, la
Corte ha ritenuto di non rilevare nelle norme denunciate squilibri di
ampiezza  tale  da  comportare il suo intervento demolitivo (cfr., ad
esempio, la sentenza n. 271 del 1974).
   Peraltro,  la  gia' citata sentenza n. 409 del 1989 costituisce un
importante  punto di arrivo nel percorso interpretativo seguito dalla
Corte,   venendo   in   essa   esplicitato   che   il   principio  di
proporzionalita'    induce    a   negare   legittimita'   alle   «...
incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente idonee a raggiungere
finalita'  statuali  di  prevenzione,  producono, attraverso la pena,
danni  all'individuo  (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa'
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
quest'ultima  con  la  tutela  dei  beni  e  dei  valori offesi dalle
predette incriminazioni ...».
   4.  -  Nel caso di specie ritiene questo giudice che, in relazione
ai  principi  sopra  ricordati,  la sanzione edittale prevista per il
reato  in  esame sia eccessiva, oltre che del tutto sproporzionata al
disvalore della condotta che intende reprimere.
   Si nota, invero, che l'inasprimento operato dall'ultima novella e'
macroscopico, sia perche' la medesima condotta ora integra un delitto
anziche'  una  contravvenzione, sia perche' l'odierno minimo edittale
coincide col previgente massimo edittale; se poi si guarda al periodo
immediatamente  precedente,  si nota che la medesima condotta fino al
2002  veniva  punita  con l'arresto da due a sei mesi, dunque con una
sanzione  che,  al  massimo,  arrivava alla meta' dell'odierno minimo
edittale.
   Al  contempo, pero', il fenomeno dell'immigrazione clandestina che
la  normativa  in  esame  si  propone  di  contrastare  non ha subito
apprezzabili evoluzioni, ne' si sono registrati mutamenti che possano
avere  indotto  il  legislatore  a  riconsiderare  il valore dei beni
giuridici tutelati e a introdurre norme piu' severe, e questo nemmeno
se  si  prende  in  esame il maggior arco di tempo che risale fino al
1998.
   D'altro  canto,  una  qualche giustificazione sotto questo profilo
non  si  rinviene  nemmeno  dall'esame  dei  lavori  parlamentari: in
particolare, non si rinviene nella relazione all'emendamento del d.l.
n. 241/2004,   posto  che  i  relatori  fanno  riferimento  esplicito
soltanto  alla  necessita'  di  adeguarsi  alla  sentenza della Corte
costituzionale  n. 223  del  2004,  intendendo  tale adeguamento come
inasprimento  della  pena, cosi' da consentire l'arresto obbligatorio
per coloro che non ottemperino all'ordine del questore.
   Infine, va notato che l'irragionevolezza della previsione in esame
e'  confermata  anche  dal  raffronto  con  la  fattispecie  prevista
dall'art.  13, comma 13-bis prima parte, la quale commina la medesima
pena  a colui che rientri nel territorio nazionale dopo un'espulsione
disposta  dal  giudice: fatto quest'ultimo che, pero', e' da ritenere
ben  piu'  grave,  in  quanto presuppone la commissione di un reato o
quantomeno  la  pendenza  di  un procedimento penale, mentre cio' non
ricorre per la fattispecie di cui all'art. 13, comma 13.
   5.  -  Ritiene  ancora lo scrivente Giudice che la norma penale in
esame contrasti con l'art. 27, terzo comma della Costituzione.
   Invero,   deve   venire   anzitutto   ricordato   come   la  Corte
costituzionale,  dopo  avere  inizialmente  ritenuto  che il precetto
costituzionale    appena   invocato   si   riferisse   essenzialmente
all'esecuzione  penale  e  dunque  non  avesse  riguardo  alla misura
edittale   della  pena  fissata  dal  legislatore,  ha  ripetutamente
affermato  che  esso  si  riferisce  a tutti i momenti in cui vige la
sanzione  penale, particolarmente in quello in cui la minaccia di una
pena   per   un   determinato   comportamento  esplica  finalita'  di
prevenzione  generale:  «...  se  la  finalita'  rieducativa  venisse
limitata  alla  fase  esecutiva,  rischierebbe  grave  compromissione
ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non  fossero state
calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne' in quella applicativa) alle
necessita'  rieducative del soggetto...» (v. sentenza n. 313 del 1990
e sentenza n. 341 del 1994).
   Nel  caso  di specie, come si e' gia' notato sopra, l'inasprimento
della   pena   e'   stato   dettato   unicamente   dall'esigenza   di
legittimazione   costituzionale   -   sotto  il  particolare  profilo
esplicitato  dalla Corte nella sentenza 223 del 2004 - un determinato
procedurale,   che   passa   attraverso  la  previsione  dell'arresto
obbligatorio  (art.  13, comma 13-ter) e la possibilita' di applicare
misure  cautelaci  coercitive,  verosimilmente perche' tali scansioni
procedimentali si intendono quali strumenti di prevenzione speciale.
   Tuttavia,  cio'  ha  comportato un vero e proprio rovesciamento di
prospettiva,  che  conferisce  al  diritto  sostanziale  una funzione
servente rispetto alle norme processuali.
   Invero, nel nostro ordinamento la fissazione della misura edittale
della  pena risponde certamente a scelte di politica criminale che il
legislatore  pone  in  essere  sulla base del contesto sociale in cui
opera  e  avendo  di mira la difesa di un determinato bene giuridico;
peraltro,  il  dettato  costituzionale  impone  che  la  pena - anche
nell'astratta previsione edittale - venga proporzionata in guisa tale
da riuscire utile alla rieducazione del condannato.
   Per  tale  ragione,  una  previsione  edittale  che venga modulata
unicamente  in  funzione  dell'esperibilita'  di  un determinato iter
processuale,   in   mancanza  di  altre  ragioni  che  obiettivamente
giustifichino   il   suo   notevole   inasprimento,  viene  di  fatto
disancorata dagli ordinari parametri di riferimento e, percio', perde
anche la sua precipua funzione rieducativa.
   Quindi,  l'entita'  della  pena non e' una leva che il legislatore
possa  muovere  ad  arbitrio,  per  conseguire  finalita' di politica
criminale  determinate,  senza  tenere  in  conto  il disvalore della
condotta  e  il  bisogno  di  rieducazione  del reo che essa mette in
evidenza.
   Fermo  restando  che  non  si intende anticipare in questa sede la
valutazione  in  ordine alla responsabilita' dell'imputato (ovvero in
ordine  alla congruita' della specifica pena concordata dalle parti),
va   notato  che  il  presente  giudizio  non  puo'  venire  definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   questione   sopra
evidenziata,    apparendo    che   necessariamente   dovrebbe   farsi
applicazione  della  norma  sopra citata e sospetta di illegittimita'
costituzionale.
   Per   le  ragioni  sopra  indicate,  questo  giudice  ritiene  non
manifestamente   infondata   l'esposta   questione   di  legittimita'
costituzionale.
   Il  processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente
trasmessi   alla  Corte  costituzionale,  per  la  risoluzione  della
questione.
   Va  ordinata altresi', a cura della cancelleria, la notifica della
presente  ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua
comunicazione ai Presidenti delle Camere.