Sentenza
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 195, comma 4,
e  627, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte
di  cassazione  nel  procedimento  penale  a  carico  di  L.  S., con
ordinanza  del  30  maggio  2006,  iscritta  al  n. 19  del  registro
ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 8, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio dell'11 giugno 2008 il giudice
relatore Francesco Amirante.
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di  un  procedimento  penale per associazione a
delinquere di stampo mafioso e tentata estorsione aggravata, la Corte
di  cassazione  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
della  Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale degli
artt.  195,  comma  4,  627,  comma  3, e 628, comma 2, del codice di
procedura penale.
   Premette, in punto di fatto, la Corte che l'imputato sottoposto al
suo giudizio era stato ritenuto responsabile, dalla Corte d'assise di
Reggio  Calabria,  di  tutti i reati a lui ascritti e condannato alla
pena di anni dodici di reclusione e lire 3.500.000 di multa; proposto
appello,  la Corte d'assise d'appello lo aveva assolto dal delitto di
tentata  estorsione aggravata, riducendo conseguentemente la pena. La
Corte  di  cassazione,  con  sentenza del 14 febbraio 2002, aveva poi
annullato  la  sentenza  d'appello  con  rinvio al giudice di secondo
grado,  limitatamente  all'assoluzione  per  il  delitto  di  tentata
estorsione aggravata. La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria,
chiamata  ad  un secondo giudizio, aveva quindi condannato l'imputato
anche  per il delitto in contestazione, confermando nella sostanza la
sentenza  di primo grado e ricalcolando la pena in anni undici e mesi
nove di reclusione, convertendo la multa in quella di euro 1.807,59.
   Rileva  la Corte di cassazione che il giudice di primo grado aveva
affermato  la  responsabilita'  penale  dell'imputato  anche  per  il
delitto   di   tentata   estorsione   aggravata   sulla   base  delle
dichiarazioni  di  due  funzionari  di  polizia  giudiziaria, i quali
avevano  riferito  che l'episodio era stato loro narrato da un terzo,
con dichiarazioni rese «fuori verbale». Sul punto erano stati svolti,
in  dibattimento,  i  dovuti  confronti, e la Corte d'assise di primo
grado  aveva ritenuto di riscontrare in tal modo le dichiarazioni non
verbalizzate.  Di  diverso  avviso  era  stato  il giudice d'appello,
secondo  cui  la  natura  informale del colloquio tra i funzionari di
polizia   ed   il  terzo  erano  motivo  di  inutilizzabilita'  delle
dichiarazioni   rese   dai   primi,   con   conseguente   assoluzione
dell'imputato  sul  punto.  La  Corte  di  cassazione,  pero',  aveva
annullato la sentenza d'appello sul rilievo che non fosse corretta la
valutazione  in termini di inutilizzabilita', affermando nel contempo
che  «le  dichiarazioni  non  verbalizzate, rese dalla persona offesa
potevano  essere  oggetto  di  testimonianza  indiretta  da  parte di
ufficiali  di  polizia giudiziaria». Il giudice di rinvio - pur dando
atto  del  nuovo  orientamento  della  medesima  Corte di cassazione,
rappresentato  dalla  sentenza  n. 36747 del 2003 delle sezioni unite
(Torcasio)  - si e' ritenuto vincolato, ai sensi dell'art. 627, comma
3,   cod.  proc.  pen.,  al  principio  di  diritto  antecedentemente
enunciato, ed ha quindi deciso nel senso della condanna dell'imputato
valutando  anche  le  testimonianze  de  relato dei due funzionari di
polizia.
   Cio'  premesso  in  ordine  alla  vicenda processuale, la Corte di
cassazione  riferisce  che  il  difensore  dell'imputato  ha eccepito
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  195, comma 4, cod. proc.
pen.,  nella  parte  in cui non prevede che non siano utilizzabili le
dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone
informate sui fatti, anche senza le modalita' di cui agli artt. 351 e
357,  comma  2,  lettere  a) e b), del codice stesso. Il difensore ha
ricordato,  inoltre,  che  le  sezioni unite della Cassazione, con la
menzionata  sentenza  Torcasio,  hanno  stabilito  che  il divieto di
testimonianza   indiretta   da   parte  degli  ufficiali  di  polizia
giudiziaria  vale  tanto  per  le  dichiarazioni  da loro ritualmente
documentate  quanto per quelle non verbalizzate; tale interpretazione
e' stata ritenuta dalle sezioni unite come l'unica costituzionalmente
accettabile,  rendendo in tal modo incostituzionale quella resa dalla
medesima Corte nel giudizio in corso, alla quale il giudice di rinvio
si e' adeguato.
   Dopo   aver   dato   conto   della   linea  seguita  dalla  difesa
dell'imputato,  il  giudice  a  quo  dichiara  che  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  prospettata  dalla  parte e' rilevante,
perche'  «l'utilizzazione  delle  testimonianze  de  relato  dei  due
ufficiali di polizia giudiziaria e' il perno sul quale ruota l'intero
apparato argomentativo esibito dal giudice di rinvio».
   In  ordine  alla non manifesta infondatezza, la remittente osserva
che  il  giudice  di  rinvio,  per  pacifica giurisprudenza, puo' non
uniformarsi   al  principio  di  diritto  enunciato  dalla  Corte  di
cassazione  ove  la  disposizione applicata sia stata, nel frattempo,
modificata  da  una  legge  successiva. Nel caso specifico, pero', la
sentenza  di  annullamento e' successiva alla modifica dell'art. 195,
comma 4, cod. proc. pen., introdotta dalla legge 1° marzo 2001, n. 63
(Modifiche  al  codice  penale  e  al  codice  di procedura penale in
materia  di  formazione e valutazione della prova in attuazione della
legge   costituzionale   di   riforma   dell'   articolo   111  della
Costituzione),  norma  della  quale la sentenza stessa «deve, dunque,
necessariamente  aver  tenuto  conto  nel  fornire  l'interpretazione
imposta  al  giudice  di rinvio». Tuttavia, dopo l'annullamento della
sentenza  d'appello,  ma  prima  che  si  pronunciasse  il giudice di
rinvio,  la  citata sentenza delle sezioni unite penali ha fissato il
principio  generale  -  da  considerare  come  diritto  vivente - del
divieto  di  testimonianza indiretta da parte degli appartenenti alla
polizia giudiziaria, affermando che questa e' l'unica interpretazione
conforme  alla  Costituzione.  In  sede  di  giudizio  di  rinvio, il
principio   affermato  dalla  sentenza  di  annullamento  «in  quanto
immodificabile  da parte del giudice e sottratto a ulteriori mezzi di
impugnazione,  acquista autorita' di giudicato interno per il caso di
specie»,  come  risulta  da  numerose  sentenze  costituzionali  e di
legittimita'.  Al  giudice  remittente,  peraltro, «sembra incongruo,
irragionevole  e  iniquo  che  il  giudice  di rinvio debba ritenersi
vincolato  a  un'interpretazione  contra  Constitutionem  fornita dal
giudice  di  legittimita'  e  smentita  da  successiva sentenza delle
Sezioni  Unite».  Di  qui  la  necessita'  di  sollevare questione di
legittimita' costituzionale degli artt. 627, comma 3, e 628, comma 2,
cod. proc. pen., poiche' - osserva la Corte di cassazione - non ci si
potrebbe,    nella    sede    attuale,    adeguare   all'orientamento
giurisprudenziale di cui alla sentenza Torcasio, in quanto il vincolo
che  la  legge  pone al giudice di rinvio necessariamente si riflette
anche  sul  giudizio di legittimita' avverso la sentenza dal medesimo
pronunciata.
   D'altra  parte,  prosegue  l'ordinanza  di  rimessione,  se  ci si
adeguasse   all'orientamento  imposto  al  giudice  di  rinvio  dalla
precedente  sentenza  della Corte di cassazione, vi sarebbe anche una
violazione  del  principio  di uguaglianza, perche' si verificherebbe
un'irragionevole  disparita' di trattamento tra l'indagato/imputato a
carico  del  quale  siano state rese dichiarazioni verbalizzate dalla
polizia   giudiziaria   e   colui   nei   confronti  del  quale  tale
verbalizzazione non sia stata compiuta.
   In  conclusione,  la  Corte  di  cassazione  solleva  questione di
legittimita' costituzionale:
     1)  dell'art.  627,  comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con
gli  artt.  3,  24  e  111  Cost., nella parte in cui non consente al
giudice  di  rinvio  di  rilevare  e sollevare eventuale eccezione di
incostituzionalita' con riferimento ai principi di diritto impostigli
dalla  Corte di cassazione con la sentenza di annullamento, quando lo
stesso  giudice di legittimita', in data successiva a detta sentenza,
ma   anteriore  alla  sentenza  del  giudice  di  rinvio,  abbia  poi
abbandonato, in quanto costituzionalmente incompatibile, il principio
di diritto enunziato nel giudizio rescindente;
     2)  in via subordinata, sempre in riferimento agli artt. 3, 24 e
111  Cost.,  dell'art.  195,  comma  4,  cod.  proc.  pen., nel testo
successivo alla modifica apportata con la legge n. 63 del 2001, nella
parte  in  cui consente agli appartenenti alla polizia giudiziaria di
riferire circa notizie apprese da persone informate sui fatti, le cui
dichiarazioni  non siano state verbalizzate, mentre non consente tale
testimonianza  de  relato  nel  caso  in  cui  la verbalizzazione sia
avvenuta.
   2.  -  E'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,   chiedendo  che  le  proposte  questioni  vengano  dichiarate
inammissibili o, comunque, infondate.
   Osserva,  in  primo  luogo,  l'interveniente  che  la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen.
poteva  essere  sollevata  dal  giudice di rinvio, mentre la Corte di
cassazione  avrebbe  potuto  sollevare  questione solo sull'art. 628,
comma  2,  cod.  proc.  pen.,  cosa  che  sembra aver fatto nel corpo
dell'ordinanza  di remissione ma non nel dispositivo. D'altra parte -
come  risulta  anche  dall'ordinanza  n. 11  del 1999, riguardante la
stessa  norma  -  e'  consentito  solo al giudice di rinvio sollevare
questioni  relative  al  principio  di  diritto, sicche' la questione
sull'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. e' priva di rilevanza.
   Residua,  quindi,  la  sola  questione sull'art. 195, comma 4, del
codice di rito.
   Al riguardo l'Avvocatura rileva che, dopo le modifiche di cui alla
legge  n. 63 del 2001, il divieto di testimonianza indiretta da parte
degli  ufficiali  e agenti di polizia giudiziaria non e' assoluto, ma
vale  solo  nell'ipotesi  in cui la deposizione sia stata formalmente
raccolta  con  atti  utilizzabili, sia pure limitatamente. E, d'altra
parte, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha
dichiarato  la  questione  non  fondata (sentenza n. 32 del 2002). La
sentenza delle sezioni unite indicata nell'ordinanza di rimessione e'
servita  proprio  a  delimitare  il  campo di quegli «altri casi» nei
quali  gli  ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono rendere
testimonianza  sul  contenuto  di  dichiarazioni acquisite da persone
informate  sui  fatti.  Ne  consegue  -  secondo  l'Avvocatura  - che
dovrebbe  essere ammessa la testimonianza de relato anche in ordine a
dichiarazioni  della  persona  offesa  che,  pur richiesta, non abbia
voluto,  per  timore  di  ritorsioni,  formalizzare  per  iscritto le
dichiarazioni  accusatorie  in  precedenza  rese  «fuori verbale». La
questione,  impostata  in  tali  termini,  sarebbe  dunque infondata,
perche' il teste appartenente alla polizia giudiziaria sara' chiamato
in   dibattimento   a   rendere   informazioni,  in  contraddittorio,
sull'avvenuta  raccolta delle stesse da parte della persona informata
sui fatti.
                       Considerato in diritto
   1.  --  Questa Corte e' chiamata a pronunciarsi sulla legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  agli  articoli  3,  24, e 111 della
Costituzione,  degli articoli: A) «195, comma 4 cod. proc. pen., come
modificato  dalla  legge  63 del 2001, nella parte in cui non prevede
che  siano  inutilizzabili  le dichiarazioni acquisite da parte della
polizia   giudiziaria  da  persone  informate  sui  fatti,  senza  le
modalita' di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod.
proc.  pen.; B) 627, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non
consente  di  rilevare e sollevare questione di costituzionalita' con
riferimento   ai   principi  di  diritto  enunciati  dalla  Corte  di
cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio».
   2.  --  La  remittente  Corte di cassazione espone di essere stata
adita  con  ricorso  proposto avverso la sentenza di condanna di S.L.
per il reato di tentata estorsione, emessa in sede di rinvio dopo che
la  stessa  Corte  aveva  cassato  la sentenza assolutoria di appello
perche'  fondata  sul  presupposto, ritenuto erroneo, che l'art. 195,
comma  4,  cod. proc. pen. disponesse l'inutilizzabilita' anche delle
testimonianze  de relato di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria
relative a circostanze da loro non verbalizzate.
   Dall'ordinanza  di  rimessione risulta che, dopo la cassazione con
rinvio     e     l'enunciazione     del    principio    di    diritto
sull'inutilizzabilita'  delle  testimonianze relative a dichiarazioni
acquisite  da agenti di polizia giudiziaria soltanto con le modalita'
di  cui  agli  artt.  351 e 357, comma 2, lettere a) e b), le sezioni
unite  della  stessa  Corte di cassazione, in sede di composizione di
contrasto  di  giurisprudenza,  hanno  affermato  l'opposto principio
secondo  cui  l'inutilizzabilita'  delle  testimonianze  indirette si
riferisce  «anche  ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia
provveduto  alla  redazione  del  relativo verbale, con cio' eludendo
proprio   le   modalita'   di  acquisizione  prescritte  dalle  norme
medesime».
   Siffatta  interpretazione, che le stesse sezioni unite definiscono
l'unica costituzionalmente adeguata, non e' stata seguita dal giudice
di  rinvio  perche' vincolato al principio di diritto enunciato nella
sentenza   di   cassazione.  Per  la  sua  applicazione,  secondo  la
remittente,    e'    anzitutto   necessaria   la   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen.
se  considerato,  come si afferma nella motivazione dell'ordinanza di
rimessione,  in  connessione  con  l'art.  628, comma 2, del medesimo
codice, il quale stabilisce che «in ogni caso la sentenza del giudice
di rinvio puo' essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i
punti  gia'  decisi dalla Corte di cassazione ovvero per inosservanza
della disposizione dell'art. 627, comma 3».
   Secondo  il  ragionamento  seguito  dal giudice a quo, l'art. 627,
comma  3,  cod.  proc. pen. vincola in modo ineludibile il giudice di
rinvio  ad  uniformarsi  alla  sentenza della Corte di cassazione per
cio'  che  concerne  ogni  questione di diritto con essa decisa. Tale
vincolo, per quanto disposto dall'art. 628, comma 2, cod. proc. pen.,
si  riflette  anche  sull'oggetto del giudizio di cassazione promosso
contro  la  sentenza emessa in sede di rinvio, restringendolo al mero
riscontro della sua rispondenza al principio di diritto enunciato con
la  sentenza  di cassazione, senza alcuna possibilita' di riscontrare
la adeguatezza di quest'ultimo alle norme della Costituzione.
   3.  -- E' necessario premettere che, per il collegamento esistente
tra  il  giudizio del giudice del rinvio e quello di impugnazione per
la  cassazione  della  sentenza  emessa in quella sede, ai fini della
legittimazione  a sollevare questione di legittimita' costituzionale,
non  vi  e'  differenza  tra  il  giudice  del  rinvio  e la Corte di
cassazione  adita  con  ricorso  avverso  la  sentenza da lui emessa.
Nell'un   caso  e  nell'altro,  oggetto  del  giudizio  e'  la  norma
sospettata di illegittimita', rispetto alla cui applicazione non puo'
parlarsi di situazione esaurita.
   Cio'  premesso,  si  osserva  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale   dell'art.   627,   comma   3,  cod.  proc.  pen.  e'
manifestamente    infondata,    per    erroneita'   del   presupposto
interpretativo.  Infatti,  questa Corte ha costantemente affermato il
principio  per  cui in sede di rinvio la norma dichiarata applicabile
dalla  Corte di cassazione nella interpretazione da essa fornita puo'
essere  sospettata di illegittimita' costituzionale, con la richiesta
del  relativo  scrutinio  da  parte di questa Corte (v., ex plurimis,
sentenze  n. 130  del 1993 e n. 78 del 2007, nonche', con riguardo al
giudizio  di  rinvio  in sede civile, per quanto qui interessa avente
struttura  non  dissimile  dal  giudizio  penale  di rinvio, sentenze
n. 138 del 1977 e n. 349 del 2007).
   4.  --  L'infondatezza  della  suddetta  questione  non  determina
l'inammissibilita'  di  quella  relativa  all'art. 195, comma 4, cod.
proc. pen., in sostanza autonomamente sollevata.
   E'  tuttavia  necessario,  prima  di  procedere  al suo scrutinio,
affermare  che  la  circostanza che le sezioni unite, successivamente
alla  sentenza  di cassazione con rinvio e in altro processo, abbiano
adottato un'interpretazione della disposizione in oggetto difforme da
quella che fonda il principio di diritto enunciato, nulla toglie alla
vincolativita'  di questo, sicche' lo scrutinio deve avere ad oggetto
la  disposizione cosi' come interpretata dalla sentenza di cassazione
con  rinvio.  In casi come quello in esame, infatti, la struttura del
giudizio  di  cassazione  con  rinvio, vietando ai giudici che ancora
debbano  farne applicazione di dare alla disposizione in questione un
significato   diverso   da   quello   ad   essa   attribuito  con  la
determinazione  del principio di diritto, impedisce l'interpretazione
adeguatrice  coerente  all'orientamento  di  questa Corte, secondo il
quale   una   disposizione   non   si  dichiara  illegittima  perche'
suscettibile  di  un'interpretazione  contrastante  con  i  parametri
costituzionali,  ma  soltanto  se  ne  e'  impossibile altra a questi
conforme.
   Cio' premesso, la questione e' fondata.
   E'  infatti  irragionevole  e, nel contempo, indirettamente lesivo
del diritto di difesa e dei principi del giusto processo ritenere che
la  testimonianza  de  relato  possa  essere  utilizzata  qualora  si
riferisca  a  dichiarazioni  rese  con modalita' non rispettose delle
disposizioni  degli  artt.  351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod.
proc.  pen.,  pur sussistendo le condizioni per la loro applicazione,
mentre  non  lo  sia  qualora  la dichiarazione sia stata ritualmente
assunta  e  verbalizzata. Si finirebbe per dare rilievo processuale -
anche  decisivo  -  come  accadrebbe  nel  caso  in  esame,  ad  atti
processuali  compiuti eludendo obblighi di legge, mentre sarebbero in
parte inutilizzabili quelli posti in essere rispettandoli.
   La  disposizione  impugnata va pertanto dichiarata illegittima nei
soli  limiti dell'oggetto con riguardo al quale lo scrutinio e' stato
condotto,  e  cioe'  se  interpretata  nel modo in cui lo e' stato da
parte  della  sentenza della Corte di cassazione e, conseguentemente,
dal giudice di rinvio.