LA CORTE DI APPELLO
   Riunita in Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza.
   Con  sentenza  in  data  28 giugno 2007 il G.u.p. del tribunale di
Napoli,  assolveva,  ai  sensi degli artt. 85 e 88 c.p. e 530 c.p.p.,
G.M.  dal  reato di tentato omicidio in danno della convivente D.C.M.
perche'  non  imputabile  per  vizio  totale  di  mente  e,  ai sensi
dell'art. 222 c.p., gli applicava la misura di sicurezza del ricovero
in  ospedale  psichiatrico  giudiziario  per la durata minima di anni
cinque.
   Avverso   detta   sentenza  hanno  proposto  appello  i  difensori
dell'imputato   chiedendo  di  qualificarsi  il  fatto  come  lesione
personale  non  avendo  la  persona offesa corso pericolo di vita; di
riconoscersi  la  desistenza ai sensi dell'art. 56, comma 3, c.p.; di
applicarsi  una  misura di sicurezza meno afflittiva, come consentito
dalla sentenza n. 253/2003 della Corte costituzionale.
   All'odierna  udienza  camerale  presente  l'imputato,  il  p.g. ha
chiesto  dichiararsi l'inammissibilita' del proposto appello ai sensi
dell'art.  443 c.p.p., come novellato dall'art. 2 legge n. 46/2006; i
difensori  hanno  sollevato  eccezione  di  incostituzionalita' della
suddetta norma in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
   La corte si e' riservata la decisione.
   La  dedotta questione di costituzionalita' dell'art. 443, comma 1,
c.p.p., come modificato dall'art. 2, legge n. 46/2006, e' rilevante e
non manifestamente infondata.
   La   questione   e'   sicuramente  rilevante:  la  suddetta  norma
prescrive,  infatti, in via generale che l'imputato non puo' proporre
appello contro le sentenze di proscioglimento e pertanto la decisione
in  ordine  all'ammissibilita'  del  presente  gravame  dipende dalla
soluzione della questione proposta.
   Al  fine  della  valutazione  della  rilevanza,  si osserva che la
sentenza pronunciata ex art. 88 c.p., che presenta, come si chiarira'
nel  prosieguo, aspetti particolari, e' qualificata espressamente dal
primo  comma dell'art. 530 c.p.p. sentenza di assoluzione e tale dato
letterale  non consente alcuna interpretazione del novellato art. 443
c.p.p. idonea a superare la preclusione dell'appello.
   Ne' soccorre nell'ipotesi in esame la norma dell'art. 680, secondo
comma,   c.p.p.,   che   prevede   la  competenza  del  tribunale  di
sorveglianza  sull'impugnazione  contro  le sentenze di condanna o di
proscioglimento  concernenti le disposizioni che riguardano le misure
di  sicurezza  in  quanto,  per giurisprudenza costante della suprema
Corte,   detta  norma  si  applica  unicamente  nell'ipotesi  in  cui
l'impugnazione  abbia  ad  oggetto  in  via  esclusiva  il capo della
sentenza che riguarda le misure di sicurezza, com'e' agevole desumere
dalla  lettera degli artt. 579, primo e secondo comma, e 680, secondo
comma,  c.p.p. Nel caso di specie, invece, la difesa dell'imputato ha
contestato con il gravame anche la qualificazione giuridica dei fatti
ascritti  e  sul punto la decisione non puo' attribuirsi al tribunale
di sorveglianza.
   La questione di costituzionalita' e', altresi', non manifestamente
infondata  perche'  l'art.  443, primo comma, c.p.p., come modificato
dall'art.  2,  legge  n. 46/2006,  viola gli artt. 24, secondo comma,
111, secondo comma, e 3 della Costituzione.
   La  sentenza  di  assoluzione  dell'imputato  per  incapacita'  di
intendere  e  volere  presenta aspetti peculiari in quanto presuppone
che   il  giudice  abbia  accertato  la  configurabilita'  del  reato
attribuito  all'imputato  in  termini  materiali  e  di colpevolezza;
richiede,  cioe',  che  il  giudice  abbia verificato l'esistenza del
fatto-reato,  la  riferibilita'  all'imputato e l'assenza di cause di
giustificazione.
   Ne  consegue  che,  pur  in presenza di tutti i presupposti di una
condanna,   e'  pronunciata  sentenza  di  assoluzione  solo  perche'
l'imputato  e' riconosciuto non punibile per vizio totale di mente al
momento   del   fatto.  Ulteriore  peculiarita'  di  detta  pronuncia
assolutoria  e'  rappresentata dalla circostanza che, diversamente da
tutte  le  altre  sentenze di assoluzione, comporta l'applicazione di
una  sanzione  particolarmente  invasiva  e limitativa della liberta'
personale,  quale  il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o
in  una  casa  di  cura e custodia per una durata massima non fissata
dalla legge, ma soggetta al riesame ai sensi dell'art. 208 c.p.
   La  peculiarita'  di  detta  pronuncia e' stata riconosciuta dalla
Corte  costituzionale  che  con  le sentenze n. 233/1984 e n. 41/1993
sottolineava la necessita' che fosse attribuita al giudice istruttore
e   poi   al   giudice   dell'udienza  preliminare  un  ampio  potere
deliberativo  cosi'  da  rendere effettiva e non meramente teorica la
pienezza del diritto di difesa.
   E'  allora  di  tutta  evidenza  che l'imputato e' portatore di un
rilevante interesse a veder rivalutata nel merito anche con l'appello
la  sussistenza  dei  presupposti  della  pronuncia  e,  venuto  meno
l'automatismo  dell'applicazione  della misura di sicurezza a seguito
degli   interventi  legislativi  e  della  Corte  costituzionale,  la
ricorrenza degli estremi per l'applicazione della misura di sicurezza
e  l'adeguatezza  della  misura applicata in relazione alle accertate
condizioni di salute.
   La  preclusione  dell'appello  ora  introdotto  dall'art. 2, della
legge  n. 46/2006  rappresenta un'evidente menomazione del diritto di
difesa  tutelato  dall'art.  24 della Costituzione, che assume «nella
disciplina processuale valore preminente essendo il diritto di difesa
inserito  nel  quadro  dei  diritti inviolabili della persona talche'
esso  non  puo'  essere  sacrificato in virtu' di altre esigenze come
quella  relativa alla speditezza del processo» (cfr. sent. n. 98/1994
Corte cost.)
   Ne' l'eliminazione del potere di appello puo' ritenersi compensata
dall'ampliamento  dei motivi del ricorso per cassazione operato dalla
stessa  legge n. 46/2006 in quanto, quale che sia l'effettiva portata
dei  nuovi  e  piu'  ampi  casi  di  ricorso,  il rimedio non attinge
comunque alla pienezza del riesame di merito consentito dall'appello.
In  tal  senso  si e' espressa la Corte costituzionale nelle sentenze
n. 26  e  320  del  2007  con le quali ha dichiarato l'illegittimita'
costituzionale  degli  articoli  593  e 443 c.p.p. nella parte in cui
escludevano  che il p.m. potesse proporre appello avverso le sentenze
di proscioglimento.
   Neppure    e'    ipotizzabile    che   detta   limitazione   trovi
giustificazione  nella  scelta  del  rito  operata  dall'imputato. Il
potere  d'impugnazione  riconosciuto in via di principio all'imputato
quale  esplicazione  del  diritto  di  difesa  e dell'interesse a far
valere  la  propria  innocenza  non  puo' essere sacrificato in vista
delle finalita' deflattive proprie del giudizio abbreviato.
   Siffatto  principio  e'  stato espresso dalla Corte costituzionale
nella   sentenza   n. 363/1991   con  la  quale  si  e'  riconosciuta
l'insopprimibilita'  del  diritto  dell'imputato  a  far valere in un
ulteriore  grado  di  merito  le  proprie  doglianze  ed e' stata per
l'effetto  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 443
c.p.p. nella parte in cui precludeva l'appello avverso le sentenze di
condanna a pena che non deve essere eseguita.
   Del resto la modifica apportata dall'art. 2 della legge n. 46/2006
rappresenta  un tassello del piu' ampio disegno, evocato dallo stesso
titolo  della  legge,  volto  a  configurare l'inappellabilita' delle
sentenze   di   proscioglimento   come   regola   generale   valevole
nell'ordinamento  processuale,  quindi  anche  nell'ambito  del  rito
ordinario, come previsto dall'art. 593 c.p.p. novellato.
   Sotto  altro  profilo,  l'inappellabilita'  da parte dell'imputato
delle  sentenze  di  assoluzione ai sensi dell'art. 88 c.p. appare in
contrasto anche con l'art. 111, secondo comma, della Costituzione.
   A  seguito  delle pronunzie di illegittimita' costituzionale degli
artt.  1  e  2, legge n. 46/2006 di cui alle sentenze n. 26 e 320 del
2007,  e' oggi consentita al p.m. la proposizione dell'appello contro
le sentenze di proscioglimento pronunciate sia nel giudizio ordinario
che  in quello svolto con rito abbreviato. Tale asimmetria dei poteri
delle   parti   processuali   e'   in   contrasto  con  il  principio
costituzionale della parita' delle parti all'interno del processo.
   Va  infine  segnalata  un'intrinseca  incoerenza  della disciplina
delle  impugnazioni  proponibili  dall'imputato che si traduce in una
violazione  dell'art.  3  della  Costituzione  sotto  il  profilo del
difetto di ragionevolezza.
   Invero,  a  seguito della modifica dell'art. 443 c.p.p. l'imputato
non  puo'  appellare le sentenze di assoluzione ai sensi dell'art. 88
c.p.,  che  determinano  l'applicazione  di  una  misura di sicurezza
limitativa  della  liberta'  personale  e  di  durata non fissata nel
massimo  perche'  soggetta  al  riesame  della pericolosita' ai sensi
dell'art.  208  c.p.,  mentre  ha  il potere di proporre impugnazione
avverso  le  sentenze  di  condanna  alla  sola pena pecuniaria della
multa, sanzione obiettivamente meno afflittiva.
   Alla  luce  di tali considerazioni resta il ragionevole dubbio che
la  disciplina  dell'art.  443,  primo  comma, c.p.p. come modificato
dall'art.  2, legge n. 46/2006, nella parte in cui preclude l'appello
dell'imputato  avverso  la sentenza di assoluzione ai sensi dell'art.
88  c.p.  costituisca violazione del diritto di difesa, del principio
di  parita' delle parti processuali e del principio di ragionevolezza
ponendosi cosi' in contrasto con gli articoli 24, secondo comma, 111,
secondo comma, e 3 della Costituzione.