IL TRIBUNALE
   Nel  procedimento  penale  in  epigrafe  rubricato a carico di: 1)
Pugliese  Vincenzo,  numero  il 21 agosto 1972 a Taranto, domiciliato
presso  Questura del V.C.O., difeso dall'avv. Luca Ruppen del Foro di
Verbania,  difensore di fiducia; 2) Rossetti Roberta, n. il 21 giugno
1970  a  Bussolengo (Verona), domiciliata presso Questura del V.C.O.,
difesa  dall'avv.  Luca  Ruppen  del  Foro  di Verbania, difensore di
fiducia, imputati:
     a)  per il delitto p. e p. dagli artt. 61 n. 9), 110, 582, 583.1
nn.  1)  e  2)  c.p.,  perche',  in  concorso  tra  loro, il Pugliese
sferrando  violenti  calci  -  da tergo - a Manyani Mustapha, che gli
voltava  le  spalle,  all'altezza degli organi genitali, e colpendolo
successivamente  con  pugni al volto e al torace; quindi, dopo che il
Manyani  era caduto in terra, la Rossetti sferrando calci all'altezza
dei testicoli, cagionavano al Manyani lesioni personali consistite in
(cfr. certificato del medico curante dr. Arslanian) «trauma scrotale,
contusione angolo mandibolare sinistra, con frattura del terzo molare
inferiore sinistro, contusione lacerata labiale inferiore, contusione
in  sede  pretibiale  destra»,  lesioni  personali  gravi dalle quali
derivava  allo stesso una malattia nel corpo con prognosi iniziale di
gg. 15 s.c. (referto n. 5104 dell'8 maggio 2001 Ospedale Domodossola)
e  durata  sino  al luglio 2001 (come da certificati medici in atti),
nonche'  con  indebolimento permanente dell'organo della riproduzione
avendo,  in  seguito  alle  percosse  subite,  riportato  necrosi del
testicolo  sinistro, asportato con intervento di orchiectomia in data
8  maggio  2001  presso  l'Ospedale  San  Biagio  di  Domodossola-, e
dell'organo della masticazione.
   Con  l'ulteriore aggravante di aver commesso il fatto con abuso di
poteri  inerenti  a  una  pubblica  funzione  ovvero  a  un  pubblico
servizio, essendo gli imputati agenti di pubblica sicurezza.
   In Verbania, il 6 maggio 2001.
   E'  in corso il dibattimento a carico dei due imputati; sono stati
escussi  i  testi  dell'accusa  e  sono  stati  resi  gli esami dagli
imputati.
   Si  deve  dare  ingresso ai testi della difesa colleghi poliziotti
della Questura di Verbania.
   La  persona offesa ha ribadito al dibattimento le accuse in ordina
alla lesione conseguente a volontarie percosse in Questura, altri due
dichiaranti  arrestati  insieme  alla  persona  offesa  e  portati in
Questura hanno ribadito tali fatti, un medico intervenuto in Questura
ha  riferito la sussistenza delle lesioni un medico ha certificato la
sussistenza  della  lesione a meno di 48 ore dal fatto subito dopo il
rilascio della persona offesa e la dichiarazione della persona offesa
sulle  percosse  subite,  altro  medico ha riferito che ha operato la
persona  offesa  subito dopo e ha riferito gli esiti di tali riferite
percosse;  ha  confermato  che il paziente dichiarava di essere stato
percosso  in  Questura  e  che  la  mancata  prestazione di immediato
soccorso  puo'  aver  cagionato la perdita del testicolo alla persona
offesa.
   Non  vi  sono state contestazioni di precedenti dichiarazioni rese
che  possano  far  ritenere  che  le  originarie  dichiarazioni della
persona  offesa  e  degli  altri  dichiaranti fin qui sentiti fossero
sostanzialmente difformi da quanto riferito al dibattimento.
   E'  pacifica  e confermata dagli stessi imputi in sede di esame la
presenza  di  altri  poliziotti  nei  sotterranei  della Questura nel
momento  in cui, secondo l'imputazione, sarebbero avvenuti i fatti al
momento dei fatti.
   Taluni  di  questi  poliziotti sono stati indotti come testimoni a
discarico dalla difesa.
   Su  tali elementi pare indubbio che si sarebbe dovuto procedere ad
iscrizione degli altri poliziotti presenti per indagarli in ordine ad
ipotesi  alternative  di concorso morale o materiale, omessa denunzia
ex  art.  361  c.p.,  omissione  di  atto di ufficio, lesione colpose
quantomeno  per coerenza logica con l'avvenuta iscrizione e richiesta
di rinvio a giudizio degli odierni imputati.
   Gli  stessi  invece, come dichiarato dalla difesa e confermato dal
P.M.,  non  sono  stato  iscritti  in  alcun  procedimento connesso o
collegato e sono ora indotti come testimoni dalla difesa.
   La  questione  che  si  solleva  e'  pertanto  rilevante dovendosi
procedere alla loro escussione.
   La  questione e' altresi' non manifestamente infondata. Ed invero:
in  tale  ipotesi,  a  tenore  dell'art.  210  c.p.p.  e  secondo  la
giurisprudenza  vivente,  costante e non smentita sul punto da alcuna
pronuncia  della  suprema  Corte  regolatrice,  sfugge  ai poteri del
giudice   del   dibattimento   la  decisione  in  ordine  alla  forma
processuale  con  cui  assumere il dichiarante mancando una pregressa
iscrizione.
   Soccorrerebbe  invece  l'art.  63  primo  comma  c.p.p. che impone
all'interrogante   di   sospendere   le   dichiarazioni  ove  in  se'
autoindizianti  e  proseguire  nelle  forme  assistite  e comunque la
complessiva disciplina dell'art. 63 c.p.p.
   Tale norma contempla due diverse ipotesi:
     la  prima  (comma  1) e' quella di una persona non imputata, ne'
indagata,  che  venga  sentita  dall'autorita'  giudiziaria  o  dalla
polizia  giudiziaria  come  persona  informata  dei fatti (nella fase
delle  indagini preliminari), o come teste (nel dibattimento) e dalle
cui dichiarazioni emergano indizi di reita' a suo carico;
     la  seconda  (comma  2)  e'  quella di persona non imputata, ne'
indagata,  venga  sentita  dall'autorita' giudiziaria o dalla polizia
giudiziaria  come  persona  informata  dei  fatti  (nella  fase delle
indagini  preliminari),  o  come  teste  (nel dibattimento) dalle cui
dichiarazioni emergano indizi di reita' a carico altrui (comma 2).
   Nel  primo  caso l'autorita' ignora gli elementi qualificativi del
soggetto  come  indiziato  di  un  reato, venendone a conoscenza solo
durante le dichiarazioni e grazie ad esse.
   Nel secondo caso l'autorita' e' (o dev'essere) consapevole di tali
indizi  e  tuttavia procede egualmente all'incombente, nell'omissione
delle garanzie difensive.
   Il  primo  comma  prevede un regime di inutilizzabilita' contra se
per la ipotesi fisiologica di rispetto delle norme di tutela;
   Il  secondo  comma  prevede  l'inutilizzabilita'  erga omnes quale
deterrente  contro  la  prassi  patologica  di  ignorare preesistenti
indizi  di  reita'  a  carico  dell'escusso  per  avere dichiarazioni
negoziate o compiacenti.
   La  stessa  relazione  al progetto preliminare del cod. proc. pen.
conferma  esplicitamente  la  netta  distinzione  tra le due ipotesi,
riconducendo  il  primo  comma  al  principio del diritto al silenzio
(nemo  tenetur  se  detegere)  ed  il  secondo  ad  un'incapacita'  a
testimoniare,  concepita,  secondo  la  mens  legis, quale tutela nei
confronti dei condizionamenti probatori.
   La  lettera del secondo comma con l'adozione del verbo «dovere» se
da  un  lato  certamente  non  prefigura  necessariamente un'elusione
maliziosa   ricomprendendo   anche   l'omissione  dovuta  ad  erronea
interpretazione  di  fatti,  dall'altro  sottolinea la doverosita' in
ogni  caso  di  una  riqualificazione  formale  della  posizione  del
dichiarante, non corrispondente alla realta' effettuale.
   Il  dibattito  giurisprudenziale registra contrasti in ordine alla
necessita'  o meno che, per la mera sanzione di inutilizzabilita', si
debba  verificare  oltre  al  dato  sostanziale, anche quello formale
dell'avvenuta   iscrizione  del  dichiarante  (anche  posteriormente)
ritenendo  una  parte (da ultimo sez. 2, sentenza n. 38858 del 2007 e
sez. 6, sentenza n. 40512 del 2007) che debba salvaguardarsi comunque
l'autonomia  del  p.m., un'altra parte (sez. 2, sentenza n. 26258 del
24  aprile  2007)  che il vincolo della iscrizione si risolverebbe in
una  petizione  di  principio,  e  finirebbe col porre come requisito
positivo proprio la condotta dell'organo inquirente, la cui omissione
antidoverosa  -  intenzionale  o  colposa  che  sia  -  viene  invece
fisiologicamente    sindacata   ai   fini   dell'eventuale   giudizio
d'inutilizzabilita' della prova.
   L'applicazione  dell'art.  63  c.p.p.  quale  norma generale (tale
essendo  il  profilo  atteso anche la collocazione sistematica) se, a
prescindere  da  contrasti  interpretativi,  risolve  la problematica
rispetto  ad  ogni fase e grado del giudizio che valuta dichiarazioni
gia'  precostituite,  non  e',  ad avviso di questo giudice, idonea a
superare in modo costituzionalmente corretto la questione che si pone
per  il  giudice  del dibattimento al momento in cui sovrintende alla
formazione della prova.
   Infatti  la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 63 c.p.p. non
sopperisce  al  mancato  rispetto dei principi del giusto processo di
cui all'art. 111Cost.
   Ed  invero  la disciplina sopradelineata, e comunque interpretata,
si pone esclusivamente la problematica della utilizzabilita' e quindi
la  problematica  di  sanzionare  la violazione del principio, ma non
investe  la  problematica  della  sussistenza di idonei strumenti per
garantire  comunque il diritto all'assunzione di una prova legalmente
idonea,  davanti  ad un giudice terzo e nel rispetto del principio di
parita' delle parti.
   Tale  situazione  comporta ad avviso dello scrivente pertanto, una
grave  e  palese  violazione di tre principi costituzionali garantiti
dall'art. 111 Cost.:
     1) principio di terzieta' del giudice;
     2) principio di parita' delle parti;
     3)  principio di tutela del diritto di far sentire le persone in
ordine agli elementi a carico o discarico;
     4)  nonche'  dell'art.  3 Cost quale intrinseca irragionevolezza
della scelta legislativa.
Sub 1) Principio di terzieta' del giudice.
   La situazione impedisce al giudice una corretta esplicazione della
propria terzieta'; infatti, lo stesso e' vincolato nella esplicazione
della  propria  funzione  dal  comportamento patologico di una parte;
nulla rileva il successivo potere sanzionatorio di inutilizzabilita';
nel momento dell'assunzione il giudice e' costretto, contrariamente a
quel  che  ritiene,  a  violare  sia il principio del nemo tenetur se
detegere  sia  il  principio  della  incapacita'  a  testimoniare; e'
costretto  a  far giurare un dichiarante che, per la sua valutazione,
non  dovrebbe  giurare. Tale situazione e' in palese violazione della
sua terzieta' e della sua soggezione solo alla legge.
Sub 2) Principio di parita' della parti.
   La situazione, e' evidente, affida alla parte pubblica nel momento
dibattimentale, e quindi nel momento in cui gli strumenti processuali
dovrebbero  essere di assoluta specularita', uno strumento che non e'
dato  alla  difesa;  potere  che,  anche se patologicamente usato, la
difesa  non puo', al momento dell'assunzione del teste, in assenza di
un  riconoscimento  del  potere  del  giudice di valutare se il teste
doveva essere iscritto nel registro degli indagati, contrastare.
Sub 3) Diritto dell'imputato di interrogare le persone a sua difesa.
   Sotto  tale  aspetto il vulnus costituzionale appare insanabile ed
invero  si  deve  garantire  la  possibilita' reale e concreta di far
sentire  la persone; la diversa graduazione di valenza probatoria tra
teste  e  dichiarante  ex  art.  210  c.p.p. afferisce al criterio di
valutazione  legale  della  prova;  ma in ogni caso esiste un diritto
assoluto  di  far  sentire  le  persone;  diritto  che  il meccanismo
pilatesco  di un giudice che sia limitato nella decisione della veste
processuale  da  qualifiche  formali  derivanti  dal il comportamento
patologico    della    parte    pubblica,    salvo   poi   dichiarare
l'inutilizzabilita'  al momento della decisione, viene garantito solo
formalmente,  ma  non  in modo sostanzialmente rispettoso del diritto
costituzionale di far sentire le persone a discarico.
Sub 4) Contrasto con art. 3 Cost.
   La  norma  e'  irragionevole in quanto mina alla base una corretta
amministrazione  della  giustizia.  Partendo da due principi basilari
individuati  dalla  suprema  Corte  con  sez. U. sentenza n. 7208 del
2008:
     1) L'ambito di appilcazione del secondo comma dell'art. 384 c.p.
...  riguarda le persone che non avrebbero dovuto essere assunte come
testimoni.  Esse  non  sono  punibili  quale che sia la dichiarazione
falsa e la ragione che l'ha determinata.
     2)  Il  coimputato  che viene sentito come testimone, invece che
nelle  forme  dell'art. 210 c.p.p., non e' punibile indipendentemente
della  ragione per la quale ha dichiarato il falso, anche cioe' se ha
commesso la falsa testimonianza.
   Discende  non  solo che, ove il giudice dichiari inutilizzabile la
testimonianza, il riconoscimento ex post della qualita' di coimputato
comporta   la   non   punibilita'  per  la  falsa  testimonianza  del
dichiarante.
   ma   anche   che   la  qualita'  di  teste  debba  essere  assunta
esclusivamente  da  chi  comunque ha l'obbligo di dire la verita'; ed
infatti  afferma  sempre  la  suprema  Corte nella succitata sentenza
SS.UU.
   Una  interpretazione  diversa finirebbe col costituire, come si e'
efficacemente  osservato,  «una  di  sorta  di  grimaldello capace di
scardinare  l'obbligo di verita' imposto dalla norma processuale, con
il  pericolo  di una totale deresponsabilizzazione del dichiarante, a
totale  scapito  dell'interesse  alla  corretta amministrazione della
giustizia.
   Appare pertanto del tutto irragionevole che non sia il giudice che
sovrintende  alla formazione della prova a decidere, sulla base della
sua  responsabilita'  di  direzione  del  dibattimento,  la veste del
dichiarante.
   Cio'  e'  consono e coerente con un processo accusatorio ove primo
compito  del  giudicante e' dirimere il corretto confronto probatorio
delle  parti  ed  evitare  che gli esiti dibattimentali siano deviati
extra  legem;  e'  evidente che la valutazione ex post, logicamente e
giuridicamente,  puo'  essere  diversa  da quella ex ante, ma ai fini
della  corretta  esplicazione processuale quella che deve rilevare e'
la   valutazione   ex   ante,   ponendosi   quella   ex  post  (leggi
inutilizzabilita')  comunque  come  clausola di salvaguardia tanto da
configurarsi  mera  sanzione relativa alla efficacia nei confronti di
qualcuno.
   Sotto   l'aspetto   ora  in  esame  e'  invece  in  gioco  non  la
salvaguardia  di inefficacia di dichiarazioni contro qualcuno, bensi'
la  salvaguardia  del funzionamento in se' della disputa processuale;
salvaguardia che l'art. 210 c.p.p. non garantisce.