IL TRIBUNALE 
    Esaminata la richiesta del pubblico ministero/sezione D.D.A. sede
di inoltro alla Camera dei deputati della richiesta di autorizzazione
all'utilizzo delle  intercettazioni  telefoniche  nei  confronti  del
parlamentare, on. Mario Landolfi nato a  Mondragone  (Caserta)  il  6
giugno 1959 ed elett.te dom.to ivi alla via Fiume n. 18  imputato  in
relazione ai reati di cui agli artt. 110, 319, 321  c.p.,  640  cpv.,
378 c.p. e 7 legge n. 203/1991; 
    Premesso che in data 5  marzo  2008  veniva  esercitata  l'azione
penale nei confronti del Landolfi Mario e  di  altri  37  imputati  a
mezzo del deposito della richiesta di rinvio a giudizio; 
        nell'udienza preliminare il p.m.  depositava  intercettazioni
telefoniche  aventi  ad  oggetto  la  posizione  del  Landolfi  e  ne
chiedeva, - previa trascrizione -,  l'autorizzazione  all'utilizzo  a
mezzo dell'inoltro dell'apposita autorizzazione ex art.  6  legge  n.
140/2003 alla Camera dei deputati; 
        in  relazione  a  tale  richiesta  l'estensore  dava  formale
incarico  peritale  per  la  trascrizione  delle  intercettazioni   e
quest'ultima veniva depositata, entro il termine concesso, presso  la
cancelleria di quest'ag, deposito di cui si dava formale avviso  alle
Parti; 
        nell'udienza del 24 ottobre 2008, fissata  nel  rispetto  del
canone di cui all'art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140
e nelle  forme  di  cui  all'art.  127  c.p.p.,  il  p.m.  depositava
ulteriore documentazione e quest'ag. concedeva  termine  alla  difesa
sino al 15 novembre 2008 per controdedurre, riservandosi all'esito la
decisione - (In tale udienza il p.m. chiedeva,  altresi',  di  essere
autorizzato  al  deposito  presso  la  cancelleria  di  quest'ag.  di
un'ulteriore  memoria  illustrativa,  richiesta  che  veniva  accolta
dall'estensore  il  quale   concedeva   alla   difesa   termine   per
controdedurre sino  al  15  novembre  2008  a  quest'ultima  data  il
pubblico ministero non  depositava  la  suddetta  memoria  facultando
l'estensore alla decisione qui di seguito esposta). 
    La riserva da ultimo  menzionata  viene  sciolta  nei  sensi  qui
appresso indicati nel dettaglio; 
Rilevanza. 
    In relazione al presupposto di cui alla rubrica, - indispensabile
al fine della rimessione  della  questione  di  costituzionalita'  -,
occorre osservare che esso trova in questa sede peculiare coincidenza
con il requisito della «necessarieta» previsto dall'art. 6, comma  2,
della  legge  n.  140/2003  («Qualora  ...  il  giudice  ...  ritenga
necessario utilizzare le intercettazioni ...». 
    S'intende con tale constatazione evidenziare che, mentre per  una
qualsiasi  altra  disposizione  normativa  il   giudice,   prima   di
sottoporla al vaglio di costituzionalita',  deve  motivare  anche  in
ordine  alla  «rilevanza»  della  questione  rispetto  alla   propria
decisione,  nel  caso  di  specie  tale  requisito  trova  gia'   nel
presupposto  di  applicazione  della  norma  in  questione  una   sua
ineludibile valutazione in fatto. 
    Il primo comma dell'art.  6  della  legge  n.  140/2003  prevede,
difatti,  che  il  giudice,  eventualmente  anche  d'ufficio,   possa
soprassedere ad ogni richiesta di inoltro alla Camera di appartenenza
delle conversazioni indirette del  parlamentare  laddove  le  ritenga
«irrilevanti ... ai fini del procedimento». 
    Nel  caso  di   specie,   l'utilizzazione   delle   conversazioni
trascritte    appare    «necessaria»     (=rilevante)     ai     fini
dell'approfondimento probatorio in ordine alle condotte contestate al
Landolfi in presunto concorso con gli altri coimputati, in quanto  le
medesime  non  solo  attengono   ai   fatti   in   contestazione   ma
rappresentano anche un elemento concreto dei  collegamenti  esistenti
tra i coimputati. 
    Senza qui poter ovviamente  dare  alcuna  valutazione  di  merito
circa il significato accusatorio ovvero difensivo dei contenuti delle
comunicazioni sopra menzionate le stesse,  inserite  nel  piu'  ampio
contesto degli altri elementi acquisiti in atti, non  solo  non  sono
prive di rilevanza ma si  contraddistinguono  per  la  loro  utilita'
probatoria al fine delle adozioni delle pronunce alternative  di  cui
all'art. 424 c.p.p. 
    La  lettura  delle  singole   conversazioni   rende   palese   la
«necessarieta»  che  le  stesse  possano  trovare  utilizzazione  nel
processo, attesa la loro pertinenza fattuale  rispetto  alle  singole
imputazioni formulate nei confronti del Landolfi,  dovendo  poi  solo
successivamente  questo  giudice  valutare,  nel  merito,   il   loro
significato concludente ovvero escludente in ordine al  concorso  del
medesimo nelle condotte contestate. 
    L'utilizzazione delle  intercettazioni  sopra  descritte  riveste
allo  stesso  tempo,  ad  avviso   questo   Giudice,   carattere   di
«necessarieta» e «rilevanza» ai fini delle successive valutazioni  di
merito  probatorio,  fossero   quest'ultime   finalizzate   all'esito
dell'udienza preliminare (ex art. 425 c.p.p. o ex  art.  429  c.p.p.)
ovvero  ad  una  delle  opzioni  alternative  connesse  a  tale  fase
processuale per come attivabili dall'imputato. 
Legittimazione. 
    Occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da eventuali equivoci
circa la legittimazione di quest'ag., nelle sue funzioni  di  giudice
dell'udienza preliminare, a sollevare  (d'ufficio)  la  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    Se, invero, il dato letterale di cui all'art. 6  della  legge  n.
140/2003 - («...  Fuori  dalle  ipotesi  previste  dall'art.  4,  ...
qualora, su istanza di una parte processuale, sentite le altre parti,
... ritenga necessario utilizzare le intercettazioni o i tabulati  di
cui  al  comma  1,  il  giudice  per  le  indagini  preliminari   ...
richiede...») - individua precipuamente il «giudice per  le  indagini
preliminari»  come  il  soggetto  giurisdizionale  legittimato   alla
richiesta di autorizzazione al Parlamento -  e  conseguenzialmente  a
sollevare la questione di costituzionalita' - e' altrettanto vero che
lo stesso dato testuale va letto alla luce della sistematica logico -
processuale. 
    In altri termini, questo giudicante ritiene che la norma  di  cui
all'art. 6 della legge n. 140 del 2003, se  interpretata  in  maniera
razionale, sistematica e analogica, non puo' che trovare applicazione
anche  nei  procedimenti  penali  pendenti   in   fase   di   udienza
preliminare. 
    Una diversa lettura esegetica, fondata sul mero tenore  letterale
della norma, che non ritenga applicabile la stessa in fase di udienza
preliminare e attribuisca quindi al g.u.p. il  potere  di  by-passare
l'applicazione (=disapplicare) dell'art. 6 della legge  n.  140/2003,
non  puo'  trovare  spazio  in  questa  sede,  in  quanto  la  stessa
condurrebbe alla paradossale conclusione che il  pubblico  ministero,
scegliendo il momento del deposito delle intercettazioni e  facendolo
cadere in un momento successivo a quello  dell'esercizio  dell'azione
penale (come, del resto, e' accaduto nel caso  di  specie),  potrebbe
legittimamente aggirare il meccanismo autorizzatorio  previsto  dalla
legge. 
    In altri termini, la possibilita' di utilizzo di una  prova  gia'
legittimamente formatasi all'interno del procedimento penale  sarebbe
rimessa ad una scelta di tempistica da parte della pubblica accusa. 
    Proprio la lettura sistematica della norma di riferimento,  e  la
ratio posta a presidio della stessa, induce, dunque, a  ritenere  che
la menzione del giudice per le indagini preliminari -  affermata  nel
primo comma e ribadita nel secondo comma  dell'art.  6  cit.  -  vada
interpretata in senso non meramente letterale  investendo  a  seconda
della fase processuale in cui la domanda del p.m. viene a  cadere  il
«giudice  che  procede»,  sia  esso  -  nella  fase  delle   indagini
preliminari - il g.i.p. ovvero sia  esso  -  in  quella  dell'udienza
preliminare, com'e' nel caso di specie - il g.u.p. 
    Il principio generale del  «giudice  che  procede»  svolge  nella
sistematica del codice di procedura penale un ruolo rilevante tant'e'
che l'art. 279 c.p.p. lo delinea con una netta demarcazione proprio a
proposito del passaggio dalla fase (procedimentale) del  giudice  per
le indagini preliminari a quella giurisdizionale. 
    Del resto, alcuna rilevanza le risultanze  delle  intercettazioni
potrebbero piu' svolgere in merito  alle  competenze  funzionali  del
giudice per le indagini preliminari, le quali  sono  codicisticamente
perimetrate nell'ambito  di  una  fase  procedimentale  che  ha  gia'
trovato  termine  con  l'esercizio  dell'azione  penale  apparirebbe,
quantomeno, incongruo che una valutazione sull'uso  di  un  mezzo  di
ricerca della prova venga rimessa ad un organo giurisdizionale che ha
gia' esaurito la propria competenza, con  diretta  incidenza  su  una
fase processuale che oramai non gli «appartiene» piu'. 
    Si  potrebbe  ipoteticamente  obiettare,  pero',   che   siffatta
interpretazione dell'art. 6 cit., sebbene affetta da evidenti vizi di
irrazionalita' ed incoerenza sistematica,  consentirebbe  al  giudice
che procede, diverso dal «giudice per  le  indagini  preliminari»  (e
quindi, anche a questo  giudice  dell'udienza  preliminare),  di  non
applicare  una  norma  che  si  ritiene  essere  in  forte  odore  di
incostituzionalita';  anzi,  il  conseguimento  di  tale   risultato,
potrebbe non solo  consentire  ma  addirittura  imporre  la  suddetta
opzione interpretativa,  nell'ottica  dell'onere  di  interpretazione
adeguatrice secundum constitutionem incombente sui giudici. 
    Invero, questo giudice rimettente non  disconosce  l'insegnamento
dei Giudici delle leggi secondo cui si impone all'interprete un onere
di lettura costituzionalmente orientata delle norme  «sospettate»  di
illegittimita'   costituzionale,   sicche'    l'eventualita'    della
rimessione della questione  alla  Consulta  debba  configurarsi  come
extrema ratio, ma e' anche consapevole del fatto che tale onere possa
e debba spingersi fino al punto dell'impossibilita' di rinvenire,  di
fronte ad una pluralita' di possibili interpretazioni, almeno una  di
esse  che  sia  costituzionalmente  compatibile,  e   giammai   possa
spingersi oltre, fino al punto di ritenere «disapplicabile» (sia pure
allorquando la  «disapplicazione»  sia  secundum  costitutionem)  una
norma  che,  invece,   risulta   razionalmente   e   sistematicamente
applicabile al caso di specie. 
    Si  vuole  rappresentare,  in  altri  termini,  che  l'onere   di
interpretazione secundum costitutionem sia  e  debba  rimanere  tale,
vale a dire un canone ermeneutico della norma da applicare al caso di
specie, e non gia' un criterio che possa  influire,  a  monte,  sulla
scelta da parte del giudice della norma da applicare alla fattispecie
concreta, fino al punto da indurlo a  «disapplicare»  una  norma  che
invece, chiaramente, per  coerenza  logica  e  sistematica,  dovrebbe
disciplinare il caso di specie. 
Non manifesta infondatezza. 
    Va, in primo luogo, evidenziato che le intercettazioni di cui  si
chiede  l'utilizzazione  nel  presente  procedimento   attengono   al
contenuto di conversazioni tra l'imputato  Landolfi  Mario  ed  altri
coimputati,  non  quale  frutto   di   captazioni   «dirette»   delle
comunicazioni del citato parlamentare,  -  nel  qual  caso  avrebbero
dovuto essere oggetto di un'autorizzazione  preventiva  e  sarebbero,
pertanto, ove acquisite contra  legem,  inutiliabili  tout  court  -,
bensi' come occasionale interloquire di quest'ultimo con i primi,  le
cui utenze erano sottoposte a legittimo controllo ex artt. 266 e  ss.
cpp. 
    La   richiesta   della   parte   pubblica   di   utilizzare    le
intercettazioni sopra menzionate non riguarda, pertanto,  i  soggetti
terzi, - ipotesi, per la quale, alla luce della pronuncia n. 390/2007
non e' piu' necessaria alcuna preventiva autorizzazione della  Camera
di appartenenza ed in relazione alla quale questo giudice ha in pieno
svolgimento l'udienza preliminare -, bensi' ha ad oggetto proprio  il
parlamentare, on. Mario Landolfi, imputato dei tre capi sub  nn.  13,
14 e 16 sopra riportati - (Il Landolfi risulta  essere  stato  eletto
alla Camera dei deputati sia  nella  precedente  legislatura  che  in
quella attualmente in corso ragion per cui alcuna rilevanza svolge la
questione di cui alla sentenza n. 389/2007 della Consulta). 
    Nel   prospettare   la   non   manifesta    infondatezza    della
incostituzionalita' dell'art.  6  della  legge  n.  140/2003  occorre
prendere le mosse da una domanda incidentale presente nel corpo della
fondamentale sentenza n. 390 del  2007  della  Corte  costituzionale,
vale a dire  dal  quesito  sul  se,  una  volta  «escluso  ...che  la
disciplina   censurata   possa   considerarsi    ''costituzionalmente
imposta'' dall'art. 68, terzo  comma,  Cost.,  ...  la  stessa  possa
ritenersi comunque ''costituzionalmente consentita''.  Si  tratta  di
stabilire,  cioe',  se  il  legislatore  ordinario  sia  abilitato  a
prevedere,  -   in   un'ottica   di   prevenzione   di   ipotizzabili
condizionamenti sullo  svolgimento  del  mandato  elettivo  -,  forme
speciali di tutela della riservatezza del parlamentare,  rispetto  ad
un mezzo di ricerca della prova  particolarmente  invasivo,  come  le
intercettazioni», quesito che e' rimasto, a seguito  della  pronuncia
della Consulta, «impregiudicato» quanto al profilo «della  disciplina
circa l'utilizzabilita' o  meno  delle  intercettazioni  casuali  nei
confronti dello stesso parlamentare intercettato» (cfr.  sent.  Corte
cost. n. 390 del 2007, punto 5.5 del Considerato in diritto). 
    lA) Alla luce della generale premessa sin qui svolta ed  ai  fini
del  primo  rilievo  di  incostituzionalita'  da  illustrare,   giova
anzitutto rilevare che la Consulta, al fine di risolvere  l'incidente
di costituzionalita' sottopostoLe, ha precisato i confini della ratio
dell'art. 6 legge n. 140/2003, affermando  come  non  si  sia  inteso
predisporre uno strumento di controllo parlamentare sulle  violazioni
surrettizie  della  norma  costituzionale,  poiche'  anche  le   c.d.
intercettazioni   «indirette»   (intese   come   «captazioni    delle
conversazioni del membro  del  Parlamento  effettuate  ponendo  sotto
controllo le utenze dei suoi interlocutori abituali») gia'  rientrano
nell'alveo di tutela predisposto dall'art. 68, terzo comma,  Cost.  e
dalla relativa disposizione attuativa dell'art. 4 legge n.  140/2003,
ma e', diversamente, «uno strumento di controllo  sulla  divulgazione
strumentale dei  colloqui  accidentalmente  captati  a  tutela  della
riservatezza dei parlamentari». 
    Pertanto, poiche' tale strumento di controllo si sostanzia in  un
sindacato parlamentare che non incide sull'«esecuzione» di operazioni
di intercettazioni «ancora da disporre», bensi'  sull'utilizzabilita'
di intercettazioni «gia' legittimamente eseguite» (poiche',  appunto,
meramente «occasionali» e quindi non bisognevoli  dell'autorizzazione
«preventiva» di cui all'art. 68, terzo comma, Cost.), la norma di cui
all'art. 6, comma 2, legge n. 140/2003 si colloca al di  fuori  della
copertura costituzionale fornita dall'art. 68, terzo comma, Cost. 
    Si e' di fronte, come piu' compiutamente  precisato  dalla  Corte
costituzionale, ad una «forma speciale di tutela  della  riservatezza
parlamentare», giacche' si rimette alla  volonta'  della  maggioranza
della Camera di appartenenza  del  Parlamentare  l'utilizzazione  nei
suoi confronti delle  intercettazioni  c.d.  «accidentali»,  ritenute
«rilevanti» (rectius:  «necessarie»)  dall'autorita'  giurisdizionale
(poiche', se fossero «irrilevanti»,  sarebbe  attivabile  il  rimedio
generico, previsto per tutti i consociati, di  cui  agli  artt.  268,
comma 6 a 269, commi 2-3 c.p.p., richiamato dal primo comma dell'art.
6). 
    La questione da  porsi  e',  dunque,  se  tale  disciplina  possa
definirsi, sebbene «non  costituzionalmente  imposta»  dall'art.  68,
terzo comma,  Cost.,  almeno  «costituzionalmente  consentita»  (cfr.
sentenza Corte cost.  n.  390/2007,  punto  5.5  del  Considerato  in
diritto). 
    E' proprio questo, infatti, il profilo che resta,  all'esito  del
precedente  vaglio  incidentale  dei  Giudici  delle  leggi,   ancora
«impregiudicato». 
    Ebbene, l'esistenza di siffatto dubbio, in capo ai Giudici  delle
leggi, gia' di per se'  solo  sembra  imporre  a  questo  Giudice  di
ritenere  incerta  la  legittimita'  costituzionale  della  norma  in
questione, - (norma che Egli si appresterebbe ad applicare  nel  caso
di specie) -,  derivandone  la  «non  manifesta  infondatezza»  della
relativa questione. 
    Con la presente ordinanza, in sostanza, semplicemente, si estende
quel petitum che nella precedente citata pronuncia  era  limitato  ad
altro aspetto della stessa norma, - (l'inutilizzabilita'  erga  omnes
conseguente  al  rifiuto  di  autorizzazione  della   Camera   e   la
conseguente disparita' di trattamento «tra i  terzi»  -,  consentendo
alla Consulta di fornire piena risposta al quesito  che  Essa  stessa
aveva, in maniera illuminante, gia' individuato come  il  reale  nodo
gordiano della questione  rimessaLe  (se,  cioe',  la  disparita'  di
trattamento sia ravvisabile, oltre che «tra  i  parlamentari  terzi»,
anche «tra i parlamentari e i terzi»). 
    Una risposta che, in verita', sembra a questo rimettente  potersi
scorgere  gia'  all'interno  della  trama  argomentativa  ordita  dai
Giudici delle leggi, laddove, nei punti 5.2 e 5.3 del Considerato  in
diritto, si afferma testualmente che: 
        «5.2 ...  giova  premettere  come,  nell'ambito  del  sistema
costituzionale,  le   disposizioni   che   sanciscono   immunita'   e
prerogative a  tutela  della  funzione  parlamentare,  in  deroga  al
principio di parita' di trattamento  davanti  alla  giurisdizione,  -
principio che si pone «alle origini della formazione dello  Stato  di
diritto» (sentenza n. 24 del 2004) -, debbano essere interpretate nel
senso  piu'  aderente  al  testo  normativo.  Tale  esigenza  risulta
accentuata da/passaggio - avutosi  con  la  legge  costituzionale  29
ottobre 1993, n. 3, di riforma dell'art. 68 Cost.  -  ad  un  sistema
basato  esclusivamente  su  specifiche  autorizzazioni  ad  acta:  un
sistema nel quale ogni singola previsione costituzionale  attribuisce
rilievo ad uno specifico interesse legato alla funzione  parlamentare
e  fissa,  in  pari  tempo,  i  limiti  entro  i  quali  esso  merita
protezione,  stabilendo  quali  connotazioni  debba   presentare   un
determinato  atto  processuale,  affinche'  si  giustifichi  il   suo
assoggettamento al nulla osta dell'organo politico. Nella specie, dal
testo dell'art. 68, terzo comma,  Cost.  (analoga  autorizzazione  e'
richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad  intercettazioni,
in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza») non puo' ricavarsi alcun riferimento ad un controllo
parlamentare a posteriori sulle intercettazioni occasionali. La norma
costituzionale ha riguardo, infatti, alla  ''sottoposizione''  di  un
parlamentare ad intercettazione  e  ad  una  autorizzazione  di  tipo
preventivo:  il  nulla  osta  e'  richiesto   per   eseguire   l'atto
investigativo, e non per utilizzare nel processo i  risultati  di  un
atto precedentemente espletato. Il che e' confermato, ove ve ne fosse
bisogno,  dal  fatto  che   la   norma   richiama   un'autorizzazione
''analoga'' a quella - indubitabilmente  preventiva  -  prevista  dal
secondo  comma  dello  stesso  art.  68  cost.   in   rapporto   alle
perquisizioni personali o  domiciliari,  all'arresto  e  alle  misure
privative della liberta' personale [...].  La  ratio  della  garanzia
prevista dall'art. 68, terzo comma, Cost.  converge,  d'altro  canto,
con la lettera della norma. L'art. 68 Cost. mira a porre a riparo  il
parlamentare da illegittime interferenze  giudiziarie  sull'esercizio
del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo,  cioe',  dal  rischio
che  strumenti  investigativi  di  particolare  invasivita'  o   atti
coercitivi delle sue liberta' fondamentali possano  essere  impiegati
con scopi persecutori, di condizionamento, o comunque  estranei  alle
effettive    esigenze    della    giurisdizione.    La     necessita'
dell'autorizzazione viene meno,  infatti,  allorche'  la  limitazione
della liberta' del parlamentare si connetta a titoli o  situazioni  -
come l'esecuzione di una  sentenza  di  condanna  irrevocabile  o  la
flagranza di un delitto per cui sia previsto l'arresto obbligatorio -
che escludono,  di  per  se',  la  configurabilita'  delle  accennate
evenienze. Destinatari  della  tutela,  in  ogni  caso,  non  sono  i
parlamentari uti singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse
si intende preservare la funzionalita', l'integrita' di  composizione
(nel  caso  delle  misure  de  libertate)  e   la   piena   autonomia
decisionale, rispetto ad indebite invadenze  del  potere  giudiziario
(si  veda,  al   riguardo,   con   riferimento   alla   perquisizione
domiciliare,  la  sentenza  n.  58   del   2004):   il   che   spiega
l'irrinunciabilita' della garanzia (sentenza n. 9 del 1970). In  tale
prospettiva, l'autorizzazione preventiva -  contemplata  dalla  norma
costituzionale - postula un controllo sulla legittimita' dell'atto da
autorizzare, a prescindere dalla considerazione dei pregiudizi che la
sua esecuzione puo'  comportare  al  singolo  parlamentare.  Il  bene
protetto si identifica, infatti,  con  l'esigenza  di  assicurare  il
corretto esercizio  del  potere  giurisdizionale  nei  confronti  dei
membri del Parlamento, e non con gli interessi sostanziali di  questi
ultimi  (riservatezza,  onore,  liberta'   personale),   in   ipotesi
pregiudicati  dal  compimento  dell'atto;  tali   interessi   trovano
salvaguardia nei presidi,  anche  costituzionali,  stabiliti  per  la
generalita' dei consociati. Questo rilievo  vale  anche  in  rapporto
alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Richiedendo il
preventivo   assenso   della   Camera   di   appartenenza   ai   fini
dell'esecuzione di tale mezzo investigativo, l'art. 68, terzo  comma,
Cost. non mira a salvaguardare la  riservatezza  delle  comunicazioni
del  parlamentare  in  quanto  tale.   Quest'ultimo   diritto   trova
riconoscimento e  tutela,  a  livello  costituzionale,  nell'art.  15
Cost., secondo il quale la limitazione della  liberta'  e  segretezza
delle  comunicazioni   puo'   avvenire   solo   per   atto   motivato
dell'autorita' giudiziaria, con le garanzie  stabilite  dalla  legge.
L'ulteriore garanzia accordata dall'art. 68, terzo  comma,  Cost.  e'
strumentale, per contro, anche  in  questo  caso,  alla  salvaguardia
delle funzioni parlamentari:  volendosi  impedire  che  l'ascolto  di
colloqui riservati da parte dell'autorita' giudiziaria  possa  essere
indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento  del  mandato
elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera
esplicazione dell'attivita'. E cio' analogamente a quanto avviene per
l'autorizzazione preventiva alle perquisizioni  ed  ai  sequestri  di
corrispondenza, il cui oggetto ben puo' consistere anche in documenti
a carattere comunicativo. 
        5.3. - Nel caso  delle  intercettazioni  fortuite,  peraltro,
l'eventualita' che  l'esecuzione  dell'atto  sia  espressione  di  un
atteggiamento persecutorio - o, comunque,  di  un  uso  distorto  del
potere giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto
ad inteferire indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni -
resta esclusa, di regola, proprio dalla accidentalita'  dell'ingresso
del parlamentare nell'area di ascolto». 
    Da tali espliciti  passaggi  motivazionali  della  sentenza  pare
evincersi che in rapporto al  «principio  di  eguaglianza»  (art.  3,
primo comma, Cost.), nella sua declinazione in termini di «parita' di
trattamento davanti alla  Giurisdizione»  -  (che  si  colloca  «alle
origini della formazione dello Stato di diritto») - il sistema  delle
immunita' e delle prerogative dei membri del Parlamento possa  venire
in rilievo solo come «eccezione»  e  valere  unicamente  per  i  casi
«espressamente»  considerati   o,   comunque,   almeno   forniti   di
«copertura» costituzionale, in quanto ritenuti dal Costituente idonei
ad interferire sulla libera esplicazione della funzione parlamentare. 
    E, tra i  casi  «espressamente»  previsti,  vi  sono  le  ipotesi
descritte nell'art. 68 cost. - (oltre a quelle scolpite  negli  artt.
90, 96, 98 cost. e nell'art. 3 legge Cost. n. 1  del  1948)  -  nella
portata e nella ratio delucidata dalla Consulta (supra riportata  per
esteso). 
    In questi termini, peraltro, si e'  espressa  anche  larga  parte
della dottrina, secondo cui una disciplina differenziata rispetto  al
«principio della parita' di trattamento dinanzi alla  giurisdizione»,
- principio, lo si ripete, immanente al  nostro  ordinamento  che  si
pone alle origini dello Stato di diritto (cio' che spiega  il  motivo
per  cui  il  Costituente  abbia  ritenuto  di   dover   disciplinare
analiticamente  il  sistema  delle  immunita'  e  delle   prerogative
parlamentari, conscio della deroga che a detto  principio  veniva  in
tal modo introdotta) -, potrebbe provenire solo da una fonte di rango
costituzionale e non gia' da una legge ordinaria. 
    Risulta, in altri termini, fortemente consolidato in  letteratura
il principio per  il  quale  le  guarentigie  conosciute  dal  nostro
ordinamento sono solo quelle espressamente sancite da fonti di  rango
costituzionale, non  potendo  il  «pacchetto  costituzionale»  essere
surrettiziamente ampliato per via ordinaria. 
    Comunque,  anche  non  volendo  aderire   all'orientamento   piu'
rigoroso, secondo il  quale  deroghe  al  «principio  di  eguaglianza
dinanzi alla giurisdizione» possano essere poste  solo  da  norme  di
livello costituzionale, pare possibile  affermare  che  in  tanto  e'
consentita, dal  nostro  sistema  di  equilibri  costituzionali,  una
eccezione a siffatto principio cardine, in quanto tale eccezione: 
        sia espressamente prevista da norme di rango costituzionale; 
        se prevista da legge ordinaria,  sia  dotata  di  «copertura»
nell'alveo delle  norme  costituzionali  poiche'  riconducibile  allo
spirito ed alla ratio che le hanno animate o, quanto meno, sia  volta
a tutelare una situazione «diversa» di valore sovraordinato (o almeno
equiordinato) rispetto a quello  cristallizzato  dall'art.  3,  primo
comma, della Costituzione  (cfr.,  in  particolare,  su  tale  ultima
possibilita', un passaggio del punto 6  del  Considerato  in  diritto
della sent. della  Corte  cost.  n.  24  del  2004:  «...  un  regime
differenziato  riguardo   all'esercizio   della   giurisdizione,   in
particolare  di  quella  penale  ...   non   conduce   di   per   se'
all'affermazione  del  contrasto  della  norma  con  l'art.  3  della
Costituzione. Il principio di eguaglianza comporta  infatti  che,  se
situazioni  eguali  esigono  eguale  disciplina,  situazioni  diverse
possono implicare differenti  normative.  In  tale  seconda  ipotesi,
tuttavia,  ha  decisivo  rilievo   il   livello   che   l'ordinamento
attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversita'
puo' venire in considerazione»). 
    A ben vedere, sulla scorta delle indicazioni fornite dai  Giudici
delle  leggi  nella  pronuncia  n.  390/2007,  il  caso   eccezionale
disciplinato  dalla  norma  in  questione,  che  si   sostanzia   nel
subordinare l'utilizzabilita' delle  comunicazioni  del  parlamentare
intercettate «occasionalmente» e ritenute  «necessarie»  dal  Giudice
all'autorizzazione della Camera  di  appartenenza,  non  risulta  ne'
espressamente previsto dall'art.  68,  terzo  comma,  Cost.  (che  si
riferisce esclusivamente all'autorizzazione  «preventiva»,  a  monte,
delle intercettazioni c.d. «dirette» e «indirette»)  ne'  tanto  meno
riconducibile alla sua ratio (fumus  persecutionis,  a  fronte  della
tutela  della  «riservatezza»  apprestata  dall'art.   6   legge   n.
140/2003), risultandone assolutamente estraneo ed indifferente (come,
acutamente, puntualizzato dalla Consulta nella citata pronuncia). 
    Resta da chiedersi, quindi, sotto il profilo assiologico, come si
collochi nella gerarchia dei valori  ordinamentali  il  bene  che  il
legislatore ordinario ha inteso salvaguardare con la disposizione  in
esame - (e cioe', la «riservatezza»  del  membro  del  Parlamento)  -
rispetto al «principio di eguaglianza  davanti  alla  Giurisdizione»;
se, cioe', con la previsione normativa in questione,  il  legislatore
ordinario abbia comunque realizzato, al di la' di quanto «impostogli»
dall'art.  68,  terzo  comma,  Cost.,  un   ragionevole   (e   quindi
«consentito») bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. 
    In proposito, questo giudice dubita fortemente del  fatto  che  i
pericoli, paventati da alcuni, di strumentalizzazione  dei  contenuti
«riservati», ma allo stesso tempo ritenuti «rilevanti» e  «necessari»
per il procedimento  penale,  delle  comunicazioni  intercettate  del
parlamentare, indebitamente  diffusi  anche  tramite  i  mass  media,
possano  essere  legittimamente  esorcizzati  attraverso  trattamenti
differenziati e veti all'esercizio delle prerogative giurisdizionali,
ma ritiene che vadano considerati come  il  portato  di  un  fenomeno
patologico (e, in verita',  ormai  allarmante)  da  stigmatizzare  ed
estirpare  grazie  a  strumenti  adeguati  e  proporzionati,  affatto
diversi da quelli creati dalla legge n. 140/2003. 
    Allo stato della legislazione  vigente,  se  il  contenuto  della
comunicazione del Parlamentare «accidentalmente» captata e'  ritenuto
«irrilevante»,  l'ordinamento  prevede  l'attivazione  del   generale
rimedio di cui agli artt. 268, comma 6 e 269,  commi  2  e  3  c.p.p.
(richiamato, peraltro,  dallo  stesso  art.  6,  comma  1,  legge  n.
140/2003); se e' invece ritenuto «rilevante» (rectius  «necessario»),
allora la tutela operativa per il Parlamentare dovrebbe essere quella
di cui agli artt. 114 c.p.p. - 326 c.p., alla pari di qualsiasi altra
persona. 
    A quest'ultimo riguardo, considerata la predisposizione da  parte
dell'ordinamento  di  particolari  strumenti  di  tutela  (oltre  che
dell'efficace svolgimento delle indagini) della «riservatezza»  delle
persone  coinvolte  in  procedimenti  penali,  la  previsione  di  un
trattamento differenziato per i membri del Parlamento  rispetto  alla
restante parte dei consociati non pare  rappresentare  una  legittima
garanzia rafforzativa a tutela delle prerogative di  esercizio  delle
funzioni parlamentari, ma sembra piuttosto risolversi in  un  vero  e
proprio «privilegio» irrazionale, sproporzionato ed  incontrollabile,
-  (se  si  tiene  conto  anche  delle  esigenze  di  utilizzabilita'
processuale che, come di  qui  a  poco  si  avra'  modo  di  esporre,
verrebbero ad essere del tutto frustrate  anche  con  riferimento  ad
eventuali  aspettative  di  difesa  dello  stesso  parlamentare)   -,
concesso e riservato solo a pochi eletti, nonche'  nella  conseguente
implicita, ma altrettanto chiara, abdicazione da parte dello Stato al
dovere di garantire il rispetto delle leggi  gia'  vigenti,  poste  a
tutela  della  riservatezza  di  tutte  le   persone   coinvolte   in
procedimenti penali (artt. 114 c.p.p. e 326 c.p.). 
    Pertanto, questo giudice dubita seriamente del fatto che il rango
del bene della «riservatezza» del parlamentare  sia  sovraordinato  o
almeno equiordinato rispetto a quello diverso, (e posto «alle origini
della  formazione  dello  Stato  di  diritto»),  della  «parita'   di
trattamento davanti alla Giurisdizione», in  maniera  tale  da  poter
legittimamente derogare a quest'ultimo. 
    Affinche' tale dubbio venga definitivamente risolto,  rimette  la
presente questione di legittimita' costituzionale dinanzi alla  Corte
costituzionale. 
    In conclusione, ritiene questo giudice rimettente che l'eccezione
al «principio di parita' di trattamento dinanzi  alla  Giurisdizione»
prevista dall'art. 6 della legge n. 140/2003 non sia consentita dalla
Costituzione; in particolare, il  contrasto  si  pone  con  l'art.  3
Cost., laddove tertium comparationis e' rappresentato  dall'art.  68,
terzo comma, Cost. (quanto all'apprezzamento  di  razionalita'  della
disuguaglianza) e dalla formulazione dell'art. 6 risultante a seguito
dell'intervento ortopedico operato dalla Corte  con  la  sentenza  n.
390/2007,  che  prevede  ora  l'utilizzabilta'  delle   comunicazioni
intercettate occasionalmente nei confronti dei «terzi» (a prescindere
dall'autorizzazione del  ramo  del  Parlamento),  che  risulterebbero
ingiustificatamente oggetto di un trattamento differenziato  rispetto
al  Parlamentare  coinvolto,  le   cui   comunicazioni   intercettate
sarebbero  invece  utilizzabili  subordinatamente  all'autorizzazione
della  Camera   di   appartenenza,   senza   che   tale   trattamento
differenziato rinvenga giustificazione in una diversita' di posizioni
costituzionalmente apprezzabili e meritevoli di rilevanza. 
    1B)  Alcuni  passaggi  salienti  della   sentenza   della   Corte
costituzionale n. 390 del 2007 suscitano, altresi', il dubbio che  la
norma in questione,  attribuendo  al  Parlamento  l'esercizio  di  un
potere  tipicamente   giurisdizionale,   al   di   fuori   dei   casi
espressamente previsti dalla norma di bilanciamento costituzionale di
cui all'art. 68 Cost., si ponga in contrasto  con  il  «principio  di
separazione dei poteri» immanente al nostro assetto costituzionale ed
in particolare con gli artt. 102 e 104, primo comma, Cost. 
    Al riguardo, occorre anzitutto chiarire, in  via  preliminare,  i
motivi per i quali il rimettente ritiene di utilizzare  lo  strumento
della questione di legittimita' costituzionale anziche' quello  della
sollevazione del «conflitto di attribuzioni» tra poteri dello Stato. 
    In primo luogo, va evidenziato che la lesione  delle  prerogative
giurisdizionali, condicio sine qua non ai fini dell'integrazione  del
«conflitto di attribuzioni», non si e'  nel  caso  di  specie  ancora
concretizzata,  non  essendo  stata  emanata  e  tanto  meno   ancora
richiesta alcuna pronuncia al ramo del Parlamento di appartenenza del
parlamentare, rimanendo  quindi  il  «conflitto»  ancora  allo  stato
potenziale. 
    Basti ricordare, in proposto, che in un  passaggio  della  citata
sentenza n. 390/2007 si  rilevava  l'infondatezza  dell'eccezione  di
inammissibilita' sollevata dalla difesa erariale, «secondo  la  quale
il rimettente avrebbe dovuto censurare il merito del provvedimento di
diniego dell'autorizzazione sollevando conflitto di attribuzioni  fra
poteri dello Stato, posto che  le  censure  del  giudice  a  quo  non
investono il merito della decisione  suddetta  »:  nel  caso  che  ci
occupa, questo rimettente ha addirittura ritenuto opportuno sollevare
la questione di legittimita' costituzionale prima della richiesta  di
autorizzazione alla Camera di appartenenza, ragion per cui  non  puo'
assolutamente venire in rilievo alcun profilo attinente  al  «merito»
di tale decisione che non e' stata neppure allo stato richiesta. 
    Va  precisato,  inoltre,  che  lo  strumento  del  conflitto   di
attribuzioni e' utilizzabile solo nelle ipotesi di sussistenza di  un
«dubbio» in ordine al riparto delle attribuzioni operato dalle  norme
costituzionali,  allorquando  la  determinazione   della   sfera   di
attribuzioni ad opera della Costituzione  manchi  di  nettezza  e  di
inequivocita'. Tanto si ricava  dal  tenore  letterale  dell'art.  38
della legge n. 87 del 1953, a norma del quale «La  Corte  risolve  il
conflitto sottoposto al suo esame  dichiarando  il  potere  al  quale
spettano le attribuzioni in contestazione». 
    Nel caso di specie, invece, l'art. 6 della legge n 140  del  2003
avrebbe predisposto il campo per un'invasione  da  parte  del  Potere
legislativo  di  un  ambito  di  attribuzioni  gia'  precisamente  ed
analiticamente delineato dalla Carta fondamentale, ragion per cui non
sussiste «dubbio» alcuno da  dirimere  attraverso  lo  strumento  del
conflitto di attribuzioni e la conseguente  pronuncia  «dichiarativa»
della Consulta. 
    Ad avviso di questo rimettente non si tratta, in altre parole, di
attivare la Corte costituzionale affinche' «dichiari» a quale  Potere
spettino le attribuzioni in contestazione, ma  occorre  semplicemente
chiedere  ai  Giudici  delle  leggi,   attraverso   la   sollevazione
dell'incidente   di   legittimita'    costituzionale,    l'espunzione
dall'ordinamento di quella norma che si pone sia in contrasto con  la
chiara «norma attributiva» della Costituzione - (nel caso di  specie,
l'art. 102 Cost., in combinata lettura con l'art. 104,  primo  comma,
Cost.) -  che  attribuisce  ai  giudici  l'esercizio  delle  funzioni
giurisdizionali, tra  le  quali  sicuramente  rientra  il  «sindacato
sull'utilizzabilita' di prove gia' legittimamente formatesi», sia  al
di fuori della lettera e della ratio  della  norma,  eccezionale,  di
«bilanciamento dei poteri» di cui all'art. 68, commi secondo e terzo,
Cost. 
    A quest'ultimo proposito,  si  rileva  che  e'  la  stessa  Corte
costituzionale, nel precedente intervento piu' volte citato, ad  aver
precisato che si tratta di un sindacato  di  carattere  squisitamente
giurisdizionale, in funzione - non di garanzia delle  prerogative  di
esercizio del mandato parlamentare, come sarebbe previsto  e  imposto
dall'art. 68 Cost.  -  bensi'  di  tutela  della  «riservatezza»  del
Parlamentare «occasionalmente» intercettato. 
    Si   tratta,   dunque,   di   poteri   di   natura    sicuramente
giurisdizionale, attribuiti a soggetti alieni rispetto  a  quelli  ai
quali il relativo esercizio e' riservato dall'art. 102 Cost.,  al  di
fuori cioe' della lettera e della ratio della norma, eccezionale,  di
«bilanciamento dei poteri» di cui all'art. 68, commi secondo e  terzo
Cost. 
    Sotto tale profilo, quindi,  ripercorrendo  l'insegnamento  della
Consulta, la previsione normativa di cui all'art. 6, comma  3,  legge
n. 140 del 2003 si  risolverebbe  nell'attribuzione  alle  Camere  di
un'potere di sindacato - non sull'espletamento o meno  del  mezzo  di
ricerca della prova - come  nella  logica  generale  delle  immunita'
previste dall'art. 68 Cost., ma sulla  gestione  processuale  di  una
prova gia' (legittimamente) formata», che consente  di  incidere  sul
«risultato probatorio di un'istruttoria gia'  effettuata»,  decidendo
della «rilevanza  e  l'utilizzabilita'  di  tale  risultato  rispetto
all'oggetto dell'accusa» (cfr.  la  relazione  della  Giunta  per  le
autorizzazioni della Camera dei deputati presentata  alla  Presidenza
il 19 marzo  2007,  doc.  IV,  n.  6-A,  citata  nel  punto  5.4  del
Considerato in diritto della sent. Corte cost. n. 390/2007). 
    Ebbene, se si  considera  la  ratio  dell'art.  68  Cost.,  norma
cruciale di bilanciamento tra  i  poteri  dello  Stato,  che  prevede
un'eccezionale e ben delimitata ipotesi di intromissione da parte del
potere legislativo nel mancipio proprio  di  quello  giurisdizionale,
giustificata unicamente dall'insopprimibile esigenza  di  mettere  al
riparo i parlamentari  da  eventuali  «persecuzioni»  dei  magistrati
(cfr., al riguardo, il passaggio incidentale  della  citata  sentenza
della Corte costituzionale, nel punto 5.2 del Considerato in diritto:
«L'art.  68  Cost.  mira  a  porre  al  riparo  il  parlamentare   da
illegittime inteferenze giudiziarie sull'esercizio  del  suo  mandato
rappresentativo; a proteggerlo,  cioe',  dal  rischio  che  strumenti
investigativi di particolare invasivita' o atti coercitivi delle  sue
liberta' fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori,
di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigente della
giurisdizione),  allora  ben   si   comprende   perche'   l'Assemblea
costituente  non   abbia   incluso,   quale   autonoma   ipotesi   di
autorizzazione   «postuma»,   quella   riguardante   il    caso    di
intercettazioni  «accidentali»  (nel  2003  introdotta,  invece,  dal
Legislatore ordinario), giacche' relativamente  a  queste  ultime  il
periculum persecutionis che «anima»  la  disposizione  costituzionale
non puo'  ontologicamente  sussistere,  stante  la  natura  meramente
«episodica» ed «occasionale» della captazione delle comunicazioni del
rappresentante del Parlamento. 
    L'estensione dell'ingerenza del Parlamento su prerogative proprie
della Giurisdizione - «la gestione  processuale  di  una  prova  gia'
(legittimamente)   formata»   -   in   funzione   di   tutela   della
«riservatezza» del Parlamentare, operata dal comma 2 dell'art.  6  in
questione ben al di la' dei confini delimitati  dall'art.  68  Cost.,
non solo non trova, dunque, alcuna copertura  costituzionale,  ma  si
pone addirittura in netto contrasto con gli artt.  102  e  104  primo
comma Cost., determinando un'incrinatura  dei  fondamentali  principi
posti a presidio della «separazione dei poteri»,  consentendo  ad  un
ramo del Parlamento un ingiustificato ed inedito potere di  sindacato
- in funzione di tutela di un bene diverso  da  quello  salvaguardato
dall'art. 68 Cost. - sull'utilizzabilita' di  prove  gia'  acquisite,
che ha la  sua  sede  naturale  ed  invulnerabile  all'interno  delle
dinamiche proprie del procedimento penale. 
    Pertanto, in considerazione dei motivi sub  lA)  e  sub  1B),  si
richiede, in via  principale,  che  la  Corte  costituzionale  voglia
risolvere la  questione  sottopostaLe  pronunciando  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 6, commi 2, 3, 4, 5, 6 della  legge  n.  140
del 2003, per contrasto con gli  artt.  3,  primo  comma,  68,  terzo
comma, 102 e 104, primo comma, della Costituzione. 
    2) Il profilo di lesione del  «diritto  di  difesa»,  posto  gia'
implicitamente alla base della succitata sentenza  interpretativa  di
rigetto della Consulta e', ad avviso  di  questo  giudice,  non  solo
ravvisabile con riferimento alla posizione  dei  «terzi»  (come  gia'
rilevato dai Giudici delle leggi, poiche' a tale ambito era  limitato
il Loro precedente intervento), ma anche a quella  dei  titolari  del
mandato elettivo. 
    Tale profilo di contrasto con l'art.  24,  secondo  comma,  della
Costituzione risulta evidente ove si consideri che  il  parlamentare,
nell'eventualita' di un contenuto utile (o, addirittura,  decisamente
e risolutivamente utile) di un'intercettazione «occasionale»  di  sue
comunicazioni e,  quindi,  di  una  prova  «pur  gia'  legittimamente
formatasi»,  vedrebbe   condizionata   (e,   quindi,   potenzialmente
frustrata)  la  possibilita'  di  utilizzare  il  contenuto  di  tale
intercettazione ad una decisione della Camera di appartenenza,  nella
quale non potrebbero a priori escludersi, al momento  della  delibera
sull'autorizzazione, pericolose dinamiche antagonistiche tra le parti
politiche  avverse,  con  conseguente  rischio   che   la   decisione
sull'autorizzazione possa essere strumentalizzata per  ritorsioni  di
carattere politico nei confronti del singolo Parlamentare che avrebbe
interesse   all'utilizzo    delle    intercettazioni    eventualmente
«scagionanti». 
    L'estensione dell'ingerenza del Parlamento su prerogative proprie
della Giurisdizione operata dal comma 2 dell'art. 6 in questione, ben
al di  la'  dell'alveo  di  protezione  delle  funzioni  parlamentari
solcato dall'art. 68  Cost.,  non  solo  non  trova,  dunque,  alcuna
copertura costituzionale, ma si pone addirittura in  netto  contrasto
anche con l'art. 24, secondo comma, Cost., determinando  una  lesione
del «diritto di difesa» del Parlamentare,  che  vedrebbe  il  proprio
inviolabile  diritto  di  difendersi  attraverso  le  intercettazioni
eventualmente  «scagionanti»  in  un'ingiustificata  e  inammissibile
posizione di soggezione alla volonta' della Camera  di  appartenenza,
cui verrebbe rimessa la decisione  in  ordine  all'utilizzabilta'  di
intercettazioni di sue comunicazioni, i cui contenuti,  per  ipotesi,
ben potrebbero essere a lui stesso (anche decisivamente) favorevoli. 
    Il diritto di difesa dell'imputato (parlamentare) dinanzi  ad  un
diniego dell'autorizzazione all'utilizzazione da parte  della  Camera
di appartenenza  assumerebbe  connotazioni  addirittura  «definitive»
atteso che a quest'ultimo dovrebbe  «automaticamente»  conseguire  la
distruzione della prova, rendendone cosi' impossibile ogni successivo
uso  processuale  anche  in  forza  di  nuove  acquisizioni  che   ne
renderebbero piu' chiaro l'eventuale portato probatorio. 
    Pertanto, in subordine rispetto alla richiesta riferita ai motivi
sub lA) e sub 1B),  si  richiede  che  la  Corte  costituzionale,  in
considerazione dei motivi  sub  2),  voglia  risolvere  la  questione
sottopostaLe pronunciando l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, per contrasto con l'art. 24,
comma secondo, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che
l'attivazione della procedura ivi prevista sia subordinata al  previo
consenso/nulla osta del Parlamentare interessato.