Ordinanza 
nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  146,  primo
comma, numeri 1) e 2), del codice penale, promossi dal  Tribunale  di
sorveglianza di Venezia con ordinanze del 10 giugno e dell'11  agosto
(3 ordinanze) 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 325 e  da  403  a
405 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 44 e 52, 1ª serie speciale, dell'anno 2008; 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 1°  aprile  2009  il  giudice
relatore Paolo Maddalena; 
    Ritenuto  che  il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia,  con
ordinanza emessa il 10 giugno 2008 (reg. ord. n. 325  del  2008),  ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3,  27,  terzo  comma,  e  30
della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 146, primo comma, numero  2),  del  codice  penale  (Rinvio
obbligatorio dell'esecuzione della pena),  nella  parte  in  cui  non
prevede che il giudice possa negare il differimento della pena quando
lo ritenga non adeguato alle finalita' previste dall'art.  27,  terzo
comma, della Costituzione e la detenzione domiciliare non sia  idonea
a prevenire il pericolo di recidiva, sempre  che  l'espiazione  della
pena possa avvenire senza pregiudizio per le esigenze di  tutela  del
rapporto del minore infante con la madre; 
        che il  Tribunale  rimettente  afferma  di  essere  investito
dell'istanza di differimento  dell'esecuzione  in  ordine  alla  pena
inflitta con sentenza del Giudice per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale di Padova in  data  22  novembre  2007  per  tentato  furto
aggravato in abitazione, il cui residuo e' di un anno, sette  mesi  e
quindici giorni, e che per tale titolo la condannata, che in data  11
aprile 2008 ha partorito un bambino, e' gia' in stato di  liberta'  a
seguito del decreto interinale del magistrato di sorveglianza, emesso
quando la donna si trovava ancora in stato di gravidanza; 
        che il Tribunale di sorveglianza premette che  la  condannata
e'  una  nomade  di  spiccata  pericolosita'  sociale,   piu'   volte
condannata per reati  contro  il  patrimonio  e,  anche  di  recente,
arrestata per tentato furto e sottoposta alla misura  della  custodia
cautelare in carcere dopo che era stata scarcerata  per  effetto  del
provvedimento interinale emesso dal magistrato di sorveglianza; 
        che,  ad   avviso   del   rimettente,   detta   pericolosita'
esigerebbe, ai fini di un adeguato  contenimento,  l'applicazione  di
una  misura  detentiva,  perche'  il  richiesto   differimento,   ove
concesso, sarebbe abusivamente utilizzato per commettere altri reati,
senza alcun riguardo per le esigenze alla cui tutela il beneficio  e'
preordinato, posto che gia' in  passato  la  nascita  dei  primi  due
figli, avvenuta nell'anno 2005 e nell'anno 2006, non ha  dissuaso  la
donna dal commettere delitti; 
        che, tuttavia, il giudice a quo afferma di non  poter  negare
il differimento della pena, potendo al piu'  disporre,  quale  misura
sostituiva del  richiesto  differimento,  anche  in  assenza  di  una
richiesta in tal senso dell'interessata, la detenzione domiciliare ai
sensi dell'art. 47-ter della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e   sull'esecuzione   delle   misure
privative e limitative della liberta'),  per  la  quale  difetterebbe
pero'  il  requisito  minimo  necessario,  ovvero  un  luogo   idoneo
all'esecuzione  della  misura  (la  condannata  essendo  senza  fissa
dimora); 
        che, in punto di non  manifesta  infondatezza,  il  Tribunale
rimettente afferma di condividere  il  principio  secondo  il  quale,
tendenzialmente, in un Paese democratico la detenzione delle donne in
gravidanza e  delle  madri  che  accudiscono  figli  in  tenera  eta'
dovrebbe essere prevista  solo  «in  ultima  istanza»,  e  di  essere
consapevole del fatto che l'alternativa  tra  l'immediata  esecuzione
della pena o la sua temporanea inesigibilita' a causa  di  situazioni
soggettive,  che  il  legislatore   ritiene   di   qualificare   come
incompatibili con la carcerazione, non  comporta  soluzioni  univoche
sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente  ammettere  spazi
di   valutazione   normativa    che    ben    possono    contemperare
l'obbligatorieta' della pena con le specifiche situazioni di  chi  vi
deve essere sottoposto; 
        che, secondo il giudice  a  quo,  la  previsione  del  rinvio
obbligatorio per la condannata madre di infante di eta' inferiore  ad
un anno, la' dove il differimento provvisorio disposto dal magistrato
di sorveglianza si sia gia' rivelato non adeguato, sotto  il  profilo
sia rieducativo che  della  prevenzione  speciale,  per  l'abuso  del
beneficio concesso e la ricaduta nel crimine, violerebbe il principio
della  proporzionalita'  e  di  individualizzazione  del  trattamento
sanzionatorio,  come   pure   il   principio   della   progressivita'
trattamentale; 
        che la  strumentalizzazione  dell'istituto  del  differimento
(che da extrema ratio in alcuni casi diventa la regola) ha  di  fatto
creato - osserva il rimettente - una sorta di immunita' per le  donne
nomadi in eta' fertile, le quali possono dedicarsi indisturbate  alle
loro attivita' illecite, potendo confidare sul  trattamento  previsto
dall'art. 146 cod. pen. per le donne in stato di gravidanza  o  madri
di figli in tenera eta'; e si tratterebbe di un  fenomeno  imponente,
considerato che generalmente  si  tratta  di  donne  che  iniziano  a
procreare precocemente, appena adolescenti, e che per le abitudini di
vita non conoscono il fenomeno delle nascite ridotte; 
        che nel caso di specie tutte le finalita' che la Costituzione
assegna  alla  pena  risulterebbero   obliterate,   con   conseguente
violazione del principio sancito dalla Corte  costituzionale  con  la
sentenza n. 306 del 1993: totalmente svilita sarebbe la finalita'  di
prevenzione  generale  e  di  difesa  sociale  -  finalita'  la   cui
realizzazione  dipende  non  soltanto  dalla  minaccia  legale  della
sanzione penale, ma anche e soprattutto dalla sua concreta esecuzione
-, giacche' la rigida e prevedibile sospensione del momento esecutivo
esclude  che  la  pena  irrogata  possa  svolgere  una  funzione   di
intimidazione e dissuasione rispetto a possibili futuri comportamenti
criminosi;     sarebbe     vanificato      anche      il      profilo
retributivo-afflittivo, posto  che  la  rinuncia  all'esecuzione  (di
fatto a tempo indeterminato) lascerebbe sostanzialmente  impunito  il
reato commesso; infine, risulterebbero compromesse  le  finalita'  di
prevenzione speciale e di rieducazione; 
        che, secondo il rimettente, la  generalizzata  ed  automatica
applicazione del trattamento di favore  previsto  dalla  disposizione
censurata, nell'assegnare un  identico  beneficio  a  condannate  che
presentino   fra   loro   differenti   stadi    del    percorso    di
risocializzazione  e  diversi   gradi   di   pericolosita'   sociale,
vulnererebbe, ad un tempo, non soltanto il principio di  eguaglianza,
finendo per  omologare  fra  loro,  senza  alcuna  plausibile  ratio,
situazioni diverse, ma anche la  stessa  funzione  rieducativa  della
pena, posto che il riconoscimento di un  beneficio  che  non  risulti
correlato alla positiva evoluzione nel  trattamento  comprometterebbe
inevitabilmente   l'essenza   stessa   della   progressivita',    che
costituisce il tratto saliente dell'iter riabilitativo; 
        che la norma denunciata  configgerebbe  con  l'art.  3  Cost.
anche per  lesione  del  canone  della  ragionevolezza,  giacche'  le
ipotesi del differimento obbligatorio per la donna incinta o madre di
figlio di eta' inferiore ad un anno sono le sole, tra quelle previste
dall'art. 146 cod. pen., a non ammettere alcuna verifica in  concreto
sulla sussistenza di una effettiva  situazione  di  pregiudizio  agli
interessi  che  la  norma  tende  a  tutelare   o   di   contrarieta'
dell'esecuzione penale al senso di umanita', e ad avere una  difforme
regolamentazione in sede cautelare e in sede esecutiva; 
        che, difatti, nelle medesime condizioni (stato di  gestazione
e presenza di un figlio di eta' inferiore ad un anno)  e'  consentito
solo nella fase cautelare disporre  la  carcerazione,  sia  pure  ove
sussistano esigenze di eccezionale rilevanza (art. 275, comma 4, cod.
proc. pen.): in presenza delle medesime esigenze di sicurezza sociale
e delle medesime situazioni personali, l'ordinamento consente solo al
giudice della cautela la  salvaguardia  delle  prime,  ove  siano  di
eccezionale rilevanza, mentre  dopo  il  passaggio  in  giudicato  le
stesse esigenze  sarebbero  postergate  e  nessuna  verifica  sarebbe
consentita al giudice di sorveglianza  in  merito  all'eccezionalita'
delle stesse e all'esistenza effettiva di pregiudizio per la madre  e
il minore; 
        che, del resto, anche in  altri  settori  l'ordinamento,  nel
prevedere particolari forme di tutela della maternita' e  del  minore
nella fase  immediatamente  successiva  al  parto,  non  oblitera  la
salvaguardia delle esigenze di sicurezza sociale (si cita il  divieto
di espulsione della donna in stato  di  gravidanza  o  nei  sei  mesi
successivi al parto, previsto dall'art. 19 del d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286, che trova un limite  nelle  esigenze  di  tutela  dell'ordine
pubblico e della sicurezza dello Stato); 
        che, ad avviso del rimettente, la  particolare  normativa  di
favore per le donne in stato di gravidanza e puerperio puo'  indurre,
come nella  pratica  avviene,  «ad  una  strumentalizzazione  a  fini
illeciti  della  maternita'  e  del  rapporto   di   filiazione   con
conseguente scelta  della  procreazione  al  solo  fine  di  ottenere
l'impunita' di fatto dai delitti commessi»: di  qui  lo  snaturamento
della  funzione  dell'istituto,  con  lesione  dell'art.   30   della
Costituzione; 
        che  nel  giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale   e'
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso  per  la
manifesta infondatezza della questione; 
        che la difesa erariale osserva  che,  ai  sensi  del  secondo
comma dell'art. 146 cod.  pen.,  il  differimento  non  opera  o,  se
concesso, e' revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre  e'
dichiarata decaduta dalla potesta' sul figlio ai sensi dell'art.  330
del codice civile, se  il  figlio  muore,  viene  abbandonato  ovvero
affidato ad altri, sempreche' l'interruzione di gravidanza o il parto
siano avvenuti da oltre due mesi; 
        che  nel  caso  di   specie,   ad   avviso   dell'Avvocatura,
sembrerebbero sussistere nei confronti della madre condannata tutti i
gravi elementi richiesti per l'adozione, anche in via  d'urgenza,  da
parte dell'autorita' giudiziaria  competente,  del  provvedimento  di
decadenza ex art. 330 cod. civ., con i conseguenti riflessi in ordine
al diniego del differimento provvisorio dell'esecuzione della pena; 
        che la disposizione censurata,  pertanto,  non  configgerebbe
con i parametri  costituzionali  evocati,  perche'  essa,  in  virtu'
dell'articolato sistema delineato al secondo comma, armonizzerebbe  e
bilancerebbe adeguatamente le esigenze di tutela  del  minore  e  del
rapporto  madre-figlio  e  quelle  di  sicurezza   sociale   connesse
all'esecuzione penale; 
        che questioni identiche o analoghe, aventi ad  oggetto  anche
l'art. 146, primo comma, numero 1), cod. pen., che dispone il  rinvio
obbligatorio dell'esecuzione della pena se  deve  aver  luogo  contro
donna incinta, sono state sollevate dal Tribunale di sorveglianza  di
Venezia con altre tre ordinanze di analogo tenore emesse in  data  11
agosto 2008 (reg. ord. n. 403, n. 404 e n. 405 del 2008); 
        che anche in questi tre giudizi e' intervenuto il  Presidente
del Consiglio dei ministri, concludendo per la manifesta infondatezza
delle questioni; 
    Considerato  che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
investono l'art. 146, primo comma, numeri 1) e 2), del codice penale,
che dispone il rinvio obbligatorio della pena detentiva se deve  aver
luogo nei confronti di donna incinta o di madre di  infante  di  eta'
inferiore ad un anno; 
        che,  ad  avviso  del  giudice  rimettente,  la  disposizione
denunciata violerebbe gli articoli 3, 27, terzo  comma,  e  30  della
Costituzione, nella parte in cui non prevede  che  il  giudice  possa
negare il differimento della pena quando lo ritenga non adeguato alle
finalita' di prevenzione generale e di difesa sociale e la detenzione
domiciliare non sia idonea  a  prevenire  il  pericolo  di  recidiva,
sempre che l'espiazione della pena possa avvenire  senza  pregiudizio
per le esigenze di tutela dello stato di gravidanza  o  del  rapporto
del minore infante con la madre; 
        che il  contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione  viene
prospettato sotto un triplice  ordine  di  profili:  (a)  perche'  il
rinvio dell'esecuzione della pena detentiva  in  base  ad  un  rigido
automatismo non sarebbe temperato da  alcuna  valutazione  di  merito
volta ad assicurare il perseguimento delle  finalita'  costituzionali
della   pena   e   l'individualizzazione   e   proporzionalita'   del
trattamento, cosi' finendosi con l'assegnare il medesimo beneficio  a
condannate che presentano tra loro differenti stadi del  percorso  di
risocializzazione e  diversi  gradi  di  pericolosita'  sociale;  (b)
perche', nella medesima  situazione  (gravidanza  o  presenza  di  un
figlio di eta' inferiore ad  un  anno),  solo  nella  fase  cautelare
sarebbe possibile disporre la carcerazione, sia pure  ove  sussistano
esigenze di eccezionale rilevanza (art.  275,  comma  4,  cod.  proc.
pen.); e (c) perche' sarebbero obliterate le  esigenze  di  sicurezza
sociale, in altri momenti  invece  tenute  presenti  dal  legislatore
(come avviene per il divieto di espulsione della donna  straniera  in
stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto,  divieto  che
trova un limite nelle esigenze di tutela dell'ordine pubblico e della
sicurezza dello Stato, secondo quanto e' previsto  dall'art.  19  del
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286); 
        che la disposizione denunciata violerebbe  l'art.  27,  terzo
comma, della Costituzione, perche' sarebbe svilita  la  finalita'  di
prevenzione  generale  e  di  difesa  sociale   (finalita'   la   cui
realizzazione  dipende  non  soltanto  dalla  minaccia  legale  della
sanzione  penale,  ma  anche  e  soprattutto   dalla   sua   concreta
esecuzione),   e   sarebbe   del   tutto   vanificato   il    profilo
retributivo-afflittivo  della  pena,  posto  che  la  rinuncia   alla
relativa esecuzione  lascerebbe  sostanzialmente  impunito  il  reato
commesso; 
        che, infine, vi sarebbe un  contrasto  con  l'art.  30  della
Costituzione, perche' «la particolare  normativa  di  favore  per  le
donne in stato di gravidanza e puerperio  puo'  indurre,  come  nella
pratica avviene, ad una strumentalizzazione  a  fini  illeciti  della
maternita' e del rapporto di filiazione con conseguente scelta  della
procreazione al solo  fine  di  ottenere  l'impunita'  di  fatto  dai
delitti commessi»; 
        che le questioni sono state sollevate con  quattro  ordinanze
di  tenore  identico  o   analogo,   riferite,   con   argomentazioni
sovrapponibili, alcune, all'art. 146, primo comma,  numero  2),  cod.
pen., altre, all'art. 146, primo  comma,  numero  1),  cod.  pen.:  i
relativi giudizi possono essere pertanto riuniti  per  essere  decisi
con un'unica pronuncia; 
        che le questioni sono manifestamente infondate; 
        che la  norma  impugnata,  nello  stabilire  una  presunzione
assoluta di incompatibilita' con il carcere per la  donna  incinta  o
che abbia partorito da meno di un anno,  e'  mossa  dall'esigenza  di
offrire la massima tutela al nascituro e al bambino di eta' inferiore
ad un anno (sentenza  n.  438  del  1995),  e  mira  ad  evitare  che
l'inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli
possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare  a
compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere  la
peculiare relazione con la figura materna in un  ambiente  favorevole
per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico; 
        che non irragionevolmente il legislatore, il  quale  gode  di
ampia discrezionalita'  al  riguardo  (sentenza  n.  29  del  1984  e
ordinanza n. 167 del 1983), ha ritenuto, con riferimento  al  periodo
della gravidanza e al primo anno del bambino, che la  protezione  del
rapporto  madre-figlio  in  un  ambiente   idoneo   debba   prevalere
sull'interesse statuale all'esecuzione immediata della pena; 
        che si  e'  cosi'  inteso  privilegiare  esigenze  di  natura
umanitaria  ed  assistenziale  che   hanno   un   sicuro   fondamento
costituzionale: nell'art. 27, terzo  comma,  della  Costituzione,  il
quale, prevedendo che le pene non possono consistere  in  trattamenti
contrari  al  senso  di  umanita',  impone  di  prestare  particolare
attenzione alla condizione della donna condannata che sia  incinta  o
madre  di  un  bambino  in  tenera  eta';  e   nell'art.   31   della
Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la
maternita' e l'infanzia, favorendo  gli  istituti  necessari  a  tale
scopo; 
        che il rinvio obbligatorio del momento esecutivo non  esclude
che la pena irrogata possa svolgere alcuna funzione di  intimidazione
e   dissuasione   e   non   ne   vanifica   pertanto    il    profilo
retributivo-afflittivo: non ci si trova  difatti  di  fronte  ad  una
rinuncia  sine  die  alla  relativa  esecuzione,  ma   solo   ad   un
differimento per un periodo limitato; inoltre, negli stessi  casi  in
cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio della  esecuzione
della pena  ai  sensi  dell'art.  146  cod.  pen.,  il  Tribunale  di
sorveglianza puo' - a norma  dell'art.  47-ter,  comma  1-ter,  della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sull'esecuzione delle misure privative e limitative della  liberta'),
introdotto dall'art. 4 della legge 27 maggio 1998, n. 165 - disporre,
anche ex officio,  l'applicazione  della  detenzione  domiciliare,  e
cosi' assicurare, anche nell'immediato, le istanze di difesa sociale,
sempre che sia compiuta una idonea valutazione  della  compatibilita'
di quella  misura  alternativa  con  la  condizione  legittimante  il
rinvio; 
        che, comunque, anche nei  casi  nei  quali  la  misura  della
detenzione  domiciliare  non  sia  in  concreto   praticabile,   deve
escludersi che il differimento  della  pena  integri  un  fattore  di
compromissione delle contrapposte esigenze di tutela collettiva; 
        che, difatti, non e' la  pena  differita  in  quanto  tale  a
determinare una situazione di pericolo, ma,  semmai,  la  carenza  di
adeguati strumenti preventivi volti ad impedire  che  la  condannata,
posta in liberta', commetta nuovi reati; tuttavia, se a  colmare  una
simile  carenza  puo'  provvedere  soltanto  il   legislatore,   deve
escludersi che la eventuale  lacunosita'  dei  presidi  di  sicurezza
possa  costituire,  in  se'  e  per  se',  ragione  sufficiente   per
incrinare, sull'opposto versante, la tutela dei valori primari che la
norma impugnata ha inteso salvaguardare (sentenza n. 70 del 1994); 
        che  non  costituisce   idoneo   tertium   comparationis   la
disciplina dettata dall'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., il quale,
mentre  stabilisce  come  regola  l'impossibilita'   della   custodia
cautelare in carcere quando imputate siano una donna  incinta  o  una
madre di prole di eta' inferiore a tre anni, consente tuttavia in via
di eccezione l'applicazione di  detta  misura  allorche'  «sussistano
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza»; 
        che vengono in rilievo,  al  riguardo,  le  diverse  funzioni
della pena  e  della  custodia  cautelare  in  carcere:  soltanto  le
funzioni della pena possono subire una compressione, ed anche  essere
rimodulate, a seguito di una esecuzione procrastinata, tanto piu' che
gia' la  minaccia  della  pena  irrogata  con  la  sentenza  divenuta
irrevocabile svolge una funzione di controspinta e di  inibizione  al
reato (sentenza n. 25 del 1979); 
        che non e' pertinente il richiamo all'art. 19 del  d.lgs.  25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle  disposizioni  concernenti  la
disciplina  dell'immigrazione  e   norma   sulla   condizione   dello
straniero), atteso che l'espulsione della straniera - consentita, per
motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello  Stato,  anche  quando
riguardi una donna in stato di gravidanza o nei sei  mesi  successivi
alla nascita del figlio cui provvede -  non  costituisce  una  misura
restrittiva della liberta' personale; 
        che,  quanto  al  dedotto  contrasto  con  l'art.  30   della
Costituzione, il pericolo che il rimettente paventa - l'utilizzazione
della maternita' come scudo al fine di ottenere il rinvio  (a  volte,
in caso di gravidanze che  si  susseguono  ravvicinate,  anche  molto
lontano nel tempo) dell'esecuzione  della  pena  -  e'  adeguatamente
bilanciato dalla circostanza che il secondo comma dello  stesso  art.
146 cod. pen. prevede espressamente, tra le condizioni ostative  alla
concessione del differimento dell'esecuzione della pena e tra  quelle
di revoca del beneficio, la dichiarazione di  decadenza  della  madre
dalla potesta' sul figlio (che, ai sensi  dell'art.  330  cod.  civ.,
puo' essere pronunciata quando il genitore viola o trascura i  doveri
ad  essa  inerenti  con  grave  pregiudizio   del   figlio)   nonche'
l'abbandono o l'affidamento del figlio ad altri; 
        che e'  evidente,  pertanto,  che  ove  il  persistere  della
condotta criminosa da parte della donna condannata sia tale da  farle
trascurare i suoi doveri di madre, possono verificarsi le  condizioni
per la non operativita' o per la  revoca  del  differimento,  la  cui
concessione  o   il   cui   ulteriore   godimento   si   giustificano
esclusivamente in chiave  funzionalistica,  se  e  finche'  ella  sia
sollecita nell'adempimento dei suoi doveri  di  assistenza  morale  e
materiale verso il figlio; 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.