IL TRIBUNALE 
 
    Letti gli atti del procedimento innanzi numerato nei confronti di
Iacca Mario, nato a Taranto il 4 ottobre  1985  detenuto  per  questa
causa presso la casa  circondariale  di  Taranto  tratto  a  giudizio
direttissimo in stato di detenzione; 
    Sciogliendo la riserva di cui all'udienza del 23 settembre 2009 e
ritenuto di dover sollevare d'ufficio la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 449, quarto comma c.p.p. nella parte in  cui
non consente al giudice  del  dibattimento,  investito  del  giudizio
direttissimo, di delibare  la  flagranza  del  reato,  a  seguito  di
arresto gia' convalidato, ai  soli  fini  di  valutare  la  legittima
adozione del rito speciale; 
 
                        Rileva quanto segue: 
 
        l'imputato e' stato tratto a giudizio direttissimo  ai  sensi
dell'art. 449, quarto comma del c.p.p. - non gia' dell'art. 558  come
indicato nella richiesta del p.m. - a seguito di arresto  convalidato
dal giudice per le indagini preliminari, ma a tal fine il  tribunale,
per quanto si argomentera', ritiene che la scelta  del  rito  sia  il
frutto di una non corretta applicazione delle norme  processuali  che
disciplinano il reato flagrante e, conseguentemente, la presentazione
dell'arrestato dinanzi al  giudice  per  essere  giudicato  col  rito
direttissimo, essendosi concretate nel caso di specie  violazioni  di
diritti costituzionali ineludibili posti  a  garanzia  dell'imputato,
piu' specificamente il diritto della liberta' personale e  di  difesa
(artt. 13 e 24 della Costituzione). 
    A tale riguardo, occorre subito evidenziare  i  dati  fattuali  a
monte della questione. 
    Alle ore 23,15 del 10 settembre 2009 la  centrale  operativa  del
comando provinciale carabinieri di Taranto, ricevuta le  segnalazione
da parte della famiglia De Ponzio di un tentativo di rapina in  danno
di De Ponzio Salvatore, ordinava ad una pattuglia del NOR di portarsi
in viale Liguria 57, abitazione dei  predetti.  Giunti  sul  posto  i
militari notavano al balcone del primo piano i genitori di  costui  e
la stessa presunta vittima del delitto,  i  quali  li  invitavano  ad
entrare nel portone  ove  si  trovava  un  giovane  che,  poco  prima
sostenevano  aver  tentato  di  rapinare  il  ragazzo.   In   effetti
all'interno del portone rivenivano tale Iacca Mario, di  anni  24  e,
conseguentemente, invitavano i De  Ponzio  ad  esporre  i  fatti  che
avevano determinato la richiesta di  intervento.  Dopo  aver  appreso
oralmente quanto lamentato, alle ore 00,50  il  De  Ponzio  Salvatore
veniva  assunto  a  sommarie  informazioni  presso  il  comando   dei
carabinieri esponendo che intorno alle ore  22,30,  mentre  camminava
nella pubblica via, intento a rientrare in casa, era stato fermato da
un giovane che, profferendo minacce gli aveva chiesto  di  dargli  il
proprio cellulare; l'individuo lo aveva poi seguito sino alla propria
abitazione dove egli, salito in casa, aveva raccontato l'accaduto  ai
genitori, i quali avevano  chiesto  l'intervento  dei  militari  che,
interpellato il p.m. di turno, alle ore 23,25 traevano in arresto  lo
Iacca,  peraltro  sottoposto  a  perquisizione  personale  con  esito
negativo. 
    Cosi' riassunte le emergenze del verbale di arresto, nessuno puo'
dubitare  che  la  denunziata  tentata  rapina  sarebbe  avvenuta  in
contesto  spaziale  e  temporale  del  tutto  estraneo  alla  diretta
percezione dei carabinieri e, pertanto, non si comprende  perche'  fu
effettuato  l'arresto  in  flagranza  di  reato,  rectius  in   quasi
flagranza, atteso che lo Iacca non fu sorpreso con tracce del  reato,
e la sua mera presenza per interloquire con il  denunziante  e'  dato
che avrebbe dovuto costituire oggetto di indagini,  esperibili  -  se
del caso - dall'inquirente. 
    All'esito dell'arresto, e previa conforme richiesta del p.m.,  il
giudice per le indagini  preliminari  con  modulo  a  stampa,  e  con
evidente difetto di motivazione, ha  convalidato  l'arresto  «poiche'
eseguito in flagranza». Ha poi applicato allo Iacca  la  custodia  in
carcere. 
    Cio'  detto  in  fatto,  il  giudicante  investito  del  giudizio
direttissimo e privo di  ogni  supporto  conoscitivo  concernente  le
ragioni giuridiche della convalida dell'arresto, 
 
                            O s s e r v a 
 
    La normativa processuale vigente  concernente  i  procedimenti  a
carico di persone private della liberta' personale,  in  applicazione
dei menzionati articoli della  Carta  costituzionale  e'  strutturata
secondo il seguente, non contestabile paradigma processuale: 
        il cittadino puo' essere tratto in arresto dall'autorita'  di
pubblica sicurezza  soltanto  nello  stato  di  flagranza  (art.  382
c.p.p.) «allorche' viene  colto  nell'atto  di  commettere  il  reato
ovvero,  se  subito  dopo  il  reato  e'  inseguito   dalla   polizia
giudiziaria, ovvero e' sorpreso con cose e tracce dalle quali  appaia
che egli abbia commesso il reato immediatamente  prima».  La  nozione
della flagranza e della quasi flagranza e'  semplice  e  non  ammette
opinabili  interpretazioni,  atteso  che  in  entrambi  i   casi   il
presupposto della privazione della liberta' da parte del soggetto  da
parte della polizia fonda sul fatto che la commissione del reato  sia
caduta sotto la diretta percezione della polizia operante 
        al  di  fuori  dei  casi  di  flagranza,  e   nelle   ipotesi
tassativamente previste dalla legge, la polizia puo' operare il fermo
di chi sia ritenuto autore del reato 
        in entrambe le ipotesi, il pubblico  ministero,  dapprima,  e
poi il giudice per le indagini preliminari  in  sede  di  udienza  di
convalida dispongono la immediata liberazione del soggetto, ai  sensi
degli artt. 389 e 391 del c.p.p., se accertano  che  l'arresto  o  il
fermo non sono stati legittimamente eseguiti 
        l'ultima ipotesi di privazione della  liberta'  personale  e'
quella in cui l'autore del reato sia sottoposto  a  misura  cautelare
coercitiva adottata dal giudice che  procede  (gip  nel  corso  delle
indagini preliminari). 
    La  regolamentazione  dell'iter  processuale  che  segue,  per  i
soggetti in stato di detenzione a  seguito  dei  casi  di  privazione
della liberta' innanzi evidenziati, in ossequio al diritto di  difesa
sancito  dall'art.24  della  Costituzione  e  dalle  norme  di   rito
attuative dello stesso consiste: 
        per il fermato e colui che e' sottoposto a  misura  cautelare
nello  svolgimento  di  indagini   preliminari   e   dell'avviso   di
conclusioni delle stesse, all'esito  delle  quali,  a  seconda  della
tipologia dei reati, la responsabilita' dell'imputato  va  sottoposta
anche al vaglio del giudice dell'udienza preliminare; 
        soltanto l'accertamento flagrante del  fatto  reato,  vale  a
dire di una situazione fattuale non  opinabile  ne'  controvertibile,
priva l'imputato della fase delle indagini  preliminari,  consentendo
che  lo  stesso  sia  tratto  a  giudizio  con  le  forme  del   rito
direttissimo  che,  in   diretta   correlazione   con   la   certezza
dell'accertamento del  fatto,  costituisce  procedura  dibattimentale
agile e di rapida definizione. 
    Peraltro,  il  rito  direttissimo  con  imputati  in   stato   di
detenzione  e'  disciplinato  dal  codice  con  duplice   fattispecie
processuale, entrambe  previste  dall'art.  449:  quella  in  cui  la
convalida e' demandata allo stesso giudice del dibattimento e quella,
come nel caso di specie, prevista dal quarto comma in cui,  allorche'
il giudice per le indagini preliminari ha convalidato  l'arresto,  il
pubblico ministero presenta l'imputato al giudice perche'  proceda  a
giudizio direttissimo. 
    Cosi'  riassunta  la  normativa  processuale  che  interessa   il
presente procedimento va rilevata una evidente anomalia insita  nella
disciplina  dell'art.  439  laddove,  mentre  se   il   giudice   del
dibattimento  non  convalida  l'arresto   in   flagranza   di   reato
restituisce gli atti al pubblico ministero perche', in ossequio  allo
schema processuale innanzi tratteggiato e nel  rispetto  e  a  tutela
delle  garanzie  difensive  dell'imputato,  proceda  con   le   forme
ordinarie, quando l'arresto e' stato  convalidato  da  altro  giudice
(G.i.p.) la dizione della norma  parrebbe  imporre  la  celebrazione,
comunque, del giudizio direttissimo. 
    Il che gia' di per  se'  appare  una  contraddizione  logica  non
sostenibile perche' la norma viola i diritti della difesa nella parte
in cui, se la flagranza e' inesistente, priva l'imputato del  diritto
di vedere accertata la propria responsabilita' con regolari  indagini
preliminari e, occorrendo, col vaglio dell'udienza  preliminare  che,
quindi, gli sarebbe, arbitrariamente sottratta. Per  altro  verso  la
giurisdizione dibattimentale, per  effetto  di  apparente  e  fallace
rappresentazione    della     flagranza     di     reato,     risulta
incomprensibilmente espropriata della funzione di  accertare  con  la
rapidita', connaturata al rito direttissimo, fatti che,  in  realta',
possono comportare defatiganti istruzioni dibattimentali.  E'  appena
il caso di  ribadire,  al  riguardo,  che  il  rito  direttissimo  e'
caratterizzato dalla  rapida  ed  incontrovertibile  delibazione  dei
fatti nella sede dibattimentale e la recente innovazione  legislativa
(cosiddetto decreto sicurezza d.l. 23 maggio 2008,  n.  92),  che  ha
reso obbligatoria tale forma di giudizio, con le  ricadute  che  cio'
comporta in termini di carico di lavoro, non pare possa  relegare  il
tribunale a spettatore inerte  di  flagranze  di  reato  inesistenti,
soprattutto se non convenientemente motivate in sede di controllo  da
parte dei magistrati a cio' deputati. 
    Ora, e'  pur  vero  che  il  controllo  rituale  della  convalida
dell'arresto e' demandato alla Corte di Cassazione, ma il  fatto  che
un  arrestato  non  abbia  esperito  il  relativo   ricorso   avverso
l'ordinanza di convalida  del  suo  arresto  (per  le  piu'  svariate
motivazioni di scelte processuali) non equivale a dare allo stesso il
suggello della sua legalita', a meno che non si vogliano rispolverare
vetusti  concetti   alla   stregua   dei   quali   il   provvedimento
giurisdizionale facit de albo nigrum e simili. 
    Orbene, le considerazioni innanzi svolte non vengono esposte  dal
giudicante per mera astrazione, in quanto l'esperienza storica  della
propria attivita' giurisdizionale in loco ha  rilevato,  con  estrema
frequenza, le anomale situazioni di fatto innanzi illustrate e in  un
caso, delibata la clamorosa inesistenza della flagranza di reato gia'
oggetto di intervenuta convalida,  gli  atti  sono  stati  restituiti
all'ufficio del pubblico ministero perche'  procedesse  con  il  rito
ordinario, motivando che  la  dizione  dell'art.  449,  quarto  comma
c.p.p. «allorche' l'arresto in flagranza  di  reato  sia  stato  gia'
convalidato» consiste in una endiadi che costituisce  un  presupposto
complesso   della   fattispecie   oggetto   della   valutazione   per
l'esperibilita' del rito, non riferita al mero dato  formale  di  una
intervenuta convalida, ma estesa anche  al  presupposto  fondamentale
della  esistenza  di  una  flagranza  di   reato.   Purtuttavia,   la
conseguente impugnazione (da parte dell'organo inquirente)  ha  fatto
statuire ad una sezione della Suprema Corte che «la dizione letterale
della norma impone, comunque, la celebrazione del rito direttissimo». 
    Sicche', alla luce di cio' e attesa ogni  considerazione  innanzi
svolta che possa coinvolgere la inequivoca compromissione del diritto
di difesa dell'imputato e la celebrazione di un processo «equo»,  non
resta giudicante che dubitare della legittimita' costituzionale della
norma processuale in questione, nella parte in cui  non  consente  al
giudice di dibattimento di sindacare incidenter tantum  la  convalida
gia' effettuata dal G.i.p., al solo fine  stabilire  se  il  giudizio
direttissimo sia da ritenere ritualmente e correttamente instaurato e
debba, ciononostante, essere celebrato. Cio' detto in ordine alla non
manifesta infondatezza della  questione  che  si  solleva  d'ufficio,
occorre valutare se la soluzione del quesito  da  parte  della  Corte
costituzionale sia ammissibile, vale a dire se risponda all'ulteriore
requisito della indispensabilita' con la definizione del giudizio  in
corso. Recita, infatti, il comma secondo dell'art. 23 della legge  11
marzo 1953, n. 87 che la questione di legittimita' costituzionale  di
una norma di legge va demandata alla delibazione della Corte «qualora
il  giudizio  non  possa  essere  definito  indipendentemente   dalla
risoluzione della questione». 
    Ebbene, a tale ulteriore quesito il giudicante ritiene  di  dover
dare risposta affermativa in quanto,  a  fronte  di  una  sostanziale
lesione del diritto di difesa patita dall'imputato, perche' dovendosi
procedere con le forme del rito  ordinario,  egli  e'  stato  privato
della  fase   delle   indagini   preliminari,   sede   naturale   per
l'esperimento della propria difesa,  culminante  nell'avviso  di  cui
all'art. 415-bis c.p.p., non  e'  possibile  dichiarare  la  nullita'
della citazione per direttissima, blindata da una formale intervenuta
convalida, ancorche'  non  motivata,  dell'arresto  in  flagranza  di
reato. Quindi, secondo l'orientamento della Corte di legittimita', il
giudizio deve proseguire, nonostante il tribunale ravvisi tale vulnus
difensivo. Ne deriva, da cio', una fase di stallo decisionale per  il
tribunale, inibito alla celebrazione del giudizio nel rispetto  delle
norme  processuali  innanzi  richiamate  e,  pertanto,  la  soluzione
dell'eccezione prospettata si appalesa  come  indispensabile  per  la
definizione del  giudizio  nell'alveo  anche  del  «giusto  processo»
imposto dall'art. 111 della Costituzione.