LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha  pronunciato   la   seguente   ordinanza   nel   giudizio   di
responsabilita' promosso dal Procuratore regionale nei  confronti  di
Sandro Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e Fernando Capone. 
    Visto l'atto introduttivo del giudizio iscritto al n.  58353  del
registro di segreteria. 
    Visti gli altri atti e documenti di causa. 
    Udito  nella  pubblica  udienza  del  29   settembre   2009,   il
consigliere relatore prof. Michael Sciascia. 
    Uditi altresi' nella medesima udienza l'avv. Pietro Palma, per  i
convenuti,  nonche'  il  vice  procuratore  generale  dott.  Maurizio
Stanco. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con citazione depositata in data 16 giugno 2008 a firma del  vice
procuratore generale dott. Maurizio Stanco, il procuratore  regionale
presso questa sezione giurisdizionale ha chiamato a  giudizio  Sandro
Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e Fernando Capone, esponenti del
Comune di Benevento, per il risarcimento di danni subiti dallo Stato,
dalla Regione Campania e dal Comune di Benevento. 
    Il  requirente,  dopo  aver  descritto  puntualmente  il   quadro
amministrativo nel Comune di' Benevento e  di  quello  normativo  del
settore dello smaltimento dei rifiuti  in  Campania,  ritiene  che  i
predetti  siano  responsabili  per  aver  determinato  con  il   loro
comportamento gravemente colposo  i  seguenti  danni  conseguenti  al
«mancato rispetto degli obblighi inerenti il  mancato  raggiungimento
delle percentuali minime di raccolta differenziata» per gli  esercizi
2003, 2004 e 2005, di cui chiede il  risarcimento  con  utilizzazione
del potere di valutazione equitativa: 
    Quanto ai convenuti Sandro Nicola D'alessandro e Fernando Capone: 
        danno di euro 405.322,25 al Comune di  Benevento  in  ragione
dell'onere indebitamente sostenuto per l'attivazione del servizio  di
raccolta differenziata, nonche' nel mancato introito derivante  dalla
cessione del materiale recuperato; 
        danno di euro 45.077,80 allo Stato calcolato  sempre  in  via
equitativa con riferimento al costo  per  il  trasporto  dei  rifiuti
indifferenziati al fine del loro smaltimento fuori regione; 
        danno di euro 43.038,00 alla Regione per le spese  necessarie
al ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente. 
    Quanto ai convenuti Sandro Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e
Fernando Capone: 
        danno di euro 199.439,17 al Comune di  Benevento  in  ragione
dell'onere indebitamente sostenuto per l'attivazione del servizio  di
raccolta differenziata, nonche' nel mancato introito derivante  dalla
cessione del materiale recuperato; 
        danno di euro 36.705,77 allo Stato calcolato  sempre  in  via
equitativa con riferimento al costo  per  il  trasporto  dei  rifiuti
indifferenziati al fine del loro smaltimento fuori regione; 
        danno di euro 26.746,66 alla Regione per le spese  necessarie
al ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente. 
    L'individuazione  dei  soggetti  causalmente   responsabili   dei
pregiudizi de quibus e' realizzata  dal  requirente  con  riferimento
esclusivo alla delibera della giunta comunale  di  Benevento  n.  242
datata 28 ottobre 2004, con cui si e' contribuito «a non  assicurare,
pur riscosso il finanziamento commissariale, l'ineludibile obbligo di
raccolta differenziata  ed  il  raggiungimento  dei  relativi  minimi
percentuali per il periodo che parte  dall'approvazione  dell'atto  e
prosegue per almeno l'anno 2005». 
    In particolare secondo la prospettazione  di  parte  attorea,  la
condotta «risulta gravemente colposa per gli amministratori  che,  in
relazione  alla  materia  in  trattazione,  avevano   una   specifica
competenza e diretta conoscenza della problematica progettuale, quale
l'assessore al ramo geom.Antonio Luciano, oltre al Sindaco dr. Sandro
Nicola D'Alessandro, ai quali e' da aggiungere .... il dirigente ing.
Fernando Capone che ha espresso il  relativo  parere  di  regolarita'
tecnica». 
    «Al  Sindaco  dott.  Sandro  Nicola  D'Alessandro,  pertanto,  e'
addebitabile, unitamente al dirigente ing. Fernando Capone, per colpa
grave e per quote, il danno prodottosi nel 2003  e  nei  primi  dieci
mesi del 2004, mentre agli stessi, unitamente  all'assessore  Antonio
Luciano sopra individuato, il danno relativo agli ultimi due mesi del
2004 e quello del 2005». 
    Si  sono  costituiti  in  giudizio  i  convenuti  per   ministero
dell'avv. Pietro Palma, con separate  comparse  depositate  tutte  in
data 7 settembre 2008, con cui hanno  sostenuto  nel  merito  che  la
situazione drammatica  nel  settore  dello  smaltimento  dei  rifiuti
solidi urbani non e' loro imputabile, essendo invero il frutto di una
«incapacita' di un  intero  sistema  con  responsabilita'  diffuse  e
difficilmente cristallizzabili ...»; 
    inoltre  «per  il  periodo  in  contestazione,  non  v'e'  alcuna
specifica norma che ponga direttamente a carico dei comuni  l'obbligo
del  conseguimento  delle  percentuali  di  raccolta   differenziata,
ponendolo invece a carico di organismi di ambito  territoriale  quali
l'ATO, i consorzi, ecc.»; 
    quanto  poi  all'elemento  soggettivo  «non  vi  e'   mai   stata
inequivoca consapevolezza che gli obblighi  di  raggiungimento  delle
percentuali di raccolta differenziata, fossero a carico dei comuni  e
non fossero obblighi di sistema o di ambito»; 
    infine «la necessita' di rimodulazione  dell'originario  progetto
scaturi' dall'impossibilita' di dare attuazione a tale progettualita'
sia per la carenza delle attrezzature e dei mezzi che dovevano essere
forniti dal  Commissariato  di  governo  al  consorzio,  sia  per  le
modifiche normative succedutesi con frequenza  che  resero  inattuale
l'originario  progetto  ed  ancora  qualsiasi  diversa   operativita'
necessitava di consistenti risorse finanziarie  che  non  rientravano
nella disponibilita' comunale». 
    Sulle loro specifiche posizioni, i convenuti sostengono  di  aver
svolto diligentemente le attribuzioni ed i compiti loro rimessi; piu'
particolarmente  l'assessore  Luciano  contesta   di   essere   stato
destinatario di delega sul settore de quo, in quanto «il servizio era
affidato all'ASIA, il cui controllo, quale  azienda  partecipata  dal
Comune,   rientrava   tra   le   competenze   e    le    attribuzioni
dell'Assessorato alle Finanze». 
    Nella pubblica udienza del 29 settembre 2009 sono intervenuti nel
dibattimento l'avv. Pietro Palma, che ha insistito per  l'assoluzione
dei convenuti, nonche' il vice procuratore  generale  dott.  Maurizio
Stanco, che  ha  confermato  la  richiesta  di  condanna  ed  in  via
subordinata ha sollevato  eccezione  di  legittimita'  costituzionale
della disposizione di cui all'art. 30-ter, periodi 2 e  3,  legge  n.
102/2009 di conversione decreto-legge n. 78/2009,  modif.  da  art.1,
comma 1, lett. c del  decreto-legge  n.  103/2009,  convertito  nella
legge n. 141 /2009. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La disposizione di cui  all'art.  17,  comma  30-ter,  della
legge 3 agosto 2009, n. 102,  di  conversione  del  decreto-legge  1°
luglio 2009, n. 78, modificata dall'art. 1,  comma  1,  lett.  c  del
decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito nella legge 3 ottobre
2009, n. 141, ha chiaramente inteso porre precisi  limiti  all'azione
inquirente e requirente  delle  procure  regionali  della  Corte  dei
conti, con previsione di una sanzione di nullita' e di una  specifica
azione tendente al suo accertamento al riguardo degli atti istruttori
e processuali adottati in violazione di essi. 
    Va rilevata preliminarmente una differenza ontologica tra le  due
fattispecie introdotte da tale testo legislativo . 
    Infatti quella di  cui  al  1°  periodo,  cosi'  come  modificato
dall'art.  1,  comma  1,  lett.  c  del  decreto-legge  n.  103/2009,
convertito nella legge. n. 141/2009, nel prevedere  che  «Le  procure
della Corte dei conti possono  iniziare  l'attivita'  istruttoria  ai
fini  dell'esercizio  dell'azione  di  danno  erariale  a  fronte  di
specifica e concreta notizia di danno,  fatte  salve  le  fattispecie
direttamente sanzionate dalla legge», si  presenta  palesemente  come
una limitazione meramente procedurale alle modalita' di esercizio  da
parte del procuratore regionale delle sue prerogative  istruttorie  e
processuali, peraltro sulla scia  gia'  delineata  in  giurisprudenza
dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 22  febbraio-9  marzo
1989, n. 104. 
    La disposizione di cui ai successivi periodi 2° e 3° del medesimo
articolo, invece, nel prevedere che «Le procure della Corte dei conti
esercitano l'azione per il risarcimento del  danno  all'immagine  nei
soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla  legge  27  marzo
2001,  n.  97.  A  tale  ultimo  fine,  il  decorso  del  termine  di
prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio
1994, n. 20,  e'  sospeso  fino  alla  conclusione  del  procedimento
penale», ha invero introdotto un  limite  alla  stessa  giurisdizione
della Corte dei conti,  ancorche'  apparentemente  diretto  solamente
all'ufficio requirente contabile. 
    Infatti, la limitazione della  legittimazione  attiva  dell'unico
soggetto, quale il procuratore regionale, abilitato ad agire  innanzi
alla Corte dei conti in sede di giudizi di  responsabilita',  ridonda
direttamente   a   riduzione   della   sfera   «sostanziale»    della
responsabilita' gestoria di  tipo  amministrativo  ed  a  restrizione
«formale» ed oggettiva dell'ambito cognitivo del  giudice  contabile,
che poi e' l'unico a poter conoscere - ai  sensi  dell'art.103  della
Costituzione - di tali ipotesi dannose. 
    Il risultato della riferita operazione legislativa, costituita da
una sorta di  «contraddittoria»  e  sofferta  formazione  progressiva
della norma finale, e' stata un'apparente estensione alla fattispecie
concernente il  danno  all'immagine  del  meccanismo  della  nullita'
inizialmente non previsto, come era ed e' nella logica del sistema. 
    Infatti la valutazione sulla «regolarita'» di atti di  esercizio,
stragiudiziale e giudiziale, dell'actio damni in materia  di  lesione
all'immagine di amministrazione pubblica si risolve nell'accertamento
della  sussistenza,  nella  concreta  ipotesi,  della   giurisdizione
contabile,  talche'  la  pronuncia  assume  la   veste   formale   di
declaratoria di affermazione o difetto di giurisdizione  della  Corte
dei conti, nonche' di qualunque  altro  ordine  giudiziario,  con  le
conseguenze di legge. 
    Ne consegue che il descritto meccanismo della nullita',  peraltro
relativa ai sensi dell'art. 157 del c.p.c., degli atti  istruttori  e
processuali del procuratore regionale non incide,  ne'  lo  potrebbe,
sul potere di accertamento pregiudiziale della propria  giurisdizione
spettante ad ogni giudice. 
    2. - Peraltro  l'art.  7  della  legge  27  marzo  2001,  n.  97,
richiamato dalla  disposizione  in  discorso,  prevede  l'obbligo  di
comunicazione della sentenza irrevocabile pronunciata  nei  confronti
dei  dipendenti  indicati  nell'articolo  3  (ossia   dipendenti   di
amministrazioni o di  enti  pubblici  ovvero  di  enti  a  prevalente
partecipazione  pubblica)  per   i   delitti   contro   la   pubblica
amministrazione previsti nel capo I del titolo II del  libro  secondo
del codice penale al competente procuratore regionale della Corte dei
conti   «affinche'   promuova   entro   trenta   giorni   l'eventuale
procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti  del
condannato» con salvezza di «quanto disposto dall'articolo 129  delle
norme di attuazione, di coordinamento e  transitorie  del  codice  di
procedura penale, approvate con decreto legislativo 28  luglio  1989,
n. 271» . Tale ultima disposizione a sua volta richiamata prevede, al
comma 3° e 3-bis, obblighi notiziali di carattere generale  a  carico
del pubblico ministero penale, allorche'  eserciti  l'azione  di  sua
competenza per un reato che ha cagionato un danno per l'erario ovvero
anche quando taluno dei soggetti indicati nei commi 1 e 2  sia  stato
arrestato o fermato ovvero si trovi in stato di custodia cautelare. 
    Con tale complesso meccanismo il legislatore del 2009  ha  voluto
limitare il danno all'immagine di una amministrazione  pubblica  alle
sole ipotesi di sua connessione ad un delitto, peraltro accertato con
giudicato,  contro   la   stessa   P.A.,   eliminando   dalla   sfera
dell'illiceita' le  restanti  ipotesi  di  un  siffatto  pregiudizio,
individuate dalla giurisprudenza, allorche' si prescinde dal  rilievo
penale. 
    3. -  Sulla  compatibilita'  della  citata  disposizione  con  la
Costituzione  il  Collegio  -   ritenendo   piu'   che   fondate   le
preoccupazioni  manifestate  in  udienza  dal  procuratore  regionale
peraltro confortate dalla non opposizione della difesa del  convenuto
-  nutre  forti  dubbi,  di  cui  ritiene  di  investire   la   Corte
costituzionale per una pronuncia risolutrice. 
    Prima di affrontare  la  questione  nei  suoi  numerosi  aspetti,
occorre valutare  preliminarmente  la  rilevanza  della  medesima  in
relazione al giudizio in corso. 
    In  particolare  va  verificato   se   detta   disposizione   sia
immediatamente applicabile ai giudizi  in  corso  o  limitatamente  a
quelli che saranno instaurati successivamente all'entrata  in  vigore
della novella, in quanto la sussunzione nella previsione  legislativa
de qua della fattispecie in esame, per quanto riguarda la domanda  di
risarcimento del danno all'immagine, appare indiscutibile. 
    La  norma  contestata  -  oltre  che  influire  sui   presupposti
sostanziali  dell'illecito   de   quo,   cioe'   sulla   sua   stessa
configurabilita' nella fattispecie - incide direttamente sulla stessa
legittimazione processuale dell'Ufficio requirente contabile ad agire
a tutela delle finanze pubbliche lese da un comportamento illecito di
dipendenti pubblici che ne abbiano leso l'immagine. 
    Pertanto si configura quale norma di carattere processuale,  come
tale immediatamente applicabile a tutti i giudizi in corso e  tra  di
essi al presente, tanto piu' che l'abolizione di una forma di accesso
alla tutela giurisdizionale in una  determinata  materia  -  come  si
approfondira' in seguito - ridonda a esclusione  della  giurisdizione
stessa sulla gran parte delle ipotesi dannose del genere. 
    La Corte dei conti, investita  di  un  giudizio  del  genere,  in
applicazione della disposizione di cui al 2° e 3° periodo del  citato
comma 30-ter, dovrebbe dichiarare preliminarmente  inammissibile  per
difetto di giurisdizione la  domanda  introduttiva  del  processo,  a
prescindere dall'eccezione di nullita',  proposta  eventualmente  dal
convenuto nel suo  interesse  esclusivo,  nei  confronti  degli  atti
istruttori  e  processuali  compiuti  al  riguardo  dal   procuratore
regionale. 
    Di qui l'evidente rilevanza e pregiudizialita' della questione di
legittimita' costituzionale nel giudizio in corso,  tanto  piu'  -  e
senza peraltro che abbia alcun rilievo ai fini  de  quibus  -  che  i
convenuti non hanno eccepito la  nullita'  della  domanda  avente  ad
oggetto il risarcimento dell'allegato danno all'immagine. 
    La disposizione di legge in discorso appare  invero  contrastante
nell'ordine con l'art. 2 comma 1, l'art. 3 comma 1, l'art. 24,  comma
1, l'art. 25, comma 1, l'art. 81, comma 4, l'art. 97, comma 1, l'art.
103, comma 2 e l'art. 113, comma 1 e 2 della Costituzione. 
    4. - Il piu' evidente contrasto del citato comma 30-ter,  periodi
secondo e terzo, si presenta con l'art.  2  della  Costituzione,  che
costituisce la fondamentale base giuridica della  stessa  tutela  del
diritto all'immagine di  qualunque  soggetto,  tra  cui  la  pubblica
amministrazione. 
    La contestata novella pone un incomprensibile limite  alla  piena
protezione di tale valore  costituzionalmente  garantito  proprio  in
riferimento  al  settore  pubblico,  che  e'   maggiormente   esposto
socialmente. 
    E' noto che il danno  all'immagine  ha  subito  un'evoluzione  in
parallelo  alla  formazione  di  una  maggiore  sensibilita'  sociale
sviluppatasi in ordine alla tutela di  valori  spirituali,  che  solo
indirettamente provocano pregiudizi patrimoniali. 
    L'art. 2059 del codice civile prevede il risarcimento  dei  danni
non patrimoniali, pur limitatamente ai casi previsti dalla legge. 
    La norma non si riferisce solo all'art. 185  del  codice  penale,
che disciplina i casi di coincidenza di illeciti civili  e  penali  -
come comunemente si riteneva  sino  ad  un  recente  passato  in  una
visione restrittiva della figura, sostanzialmente limitata  al  danno
morale a rilievo eminentemente soggettivo, cioe'  alla  c.d.  pecunia
doloris -, bensi' fa rinvio anche  alle  disposizioni  costituzionali
precettive, e non semplicemente  programmatiche,  che  riconoscono  e
tutelano i diritti di rango costituzionale; trattasi evidentemente di
danni inerenti alla persona, che non si risolvono  in  pregiudizi  di
natura meramente emotiva ed  interiore,  bensi'  sono  oggettivamente
accertabili, ancorche' provocati sul fare areddituale del soggetto. 
    Una  lettura  costituzionalmente  orientata  consente  quindi  il
risarcimento dei danni non patrimoniali, considerati  in  tale  ampia
accezione, a prescindere dal fatto che ricorra un'ipotesi  di  reato,
ogni volta che sia stata  lesa  una  posizione  giuridica  soggettiva
tutelata a livello costituzionale. 
    In tal senso e' il diritto vivente, come  affermato  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza 11 luglio 2003, n. 233  e  dalla  Corte
suprema di cassazione SS.UU.CC. nella sentenza 11 novembre  2008,  n.
26972. 
    Orbene la Costituzione  nell'art.  2  riconosce  e  garantisce  i
diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che  nelle  formazioni
sociali ove si svolge la sua personalita', e quindi, tra di essi,  il
diritto  all'immagine  sia  delle  persone  fisiche  che  di   quelle
giuridiche, private e pubbliche. 
    E' stata cosi'  riconosciuta  la  risarcibilita'  del  danno  non
patrimoniale anche a favore della persona giuridica  e  del  soggetto
collettivo  per  diretta  derivazione  costituzionale  dall'art.   2,
identificandolo non come c.d. danno-evento - rappresentato dal  fatto
in se' della stessa lesione - bensi' come danno-conseguenza, cioe' un
accadimento collegato alla  lesione  antigiuridica  della  situazione
protetta sulla base di un nesso di causalita'. In tal senso la  Corte
suprema di cassazione nella sentenza 4 giugno 2007, n. 12929, proprio
con riferimento alle persone giuridiche. 
    Ne consegue la piena risarcibilita' del danno all'immagine  anche
della pubblica  amministrazione,  ai  sensi  del  combinato  disposto
dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 2059 del codice civile,  a
prescindere da un nesso di conseguenzialita' con un  illecito  penale
specie a seguito dell'accertamento di esso con giudicato penale. 
    Infatti la reputazione di una pubblica amministrazione e' un bene
rilevantissimo per la funzione sociale svolta dalla  stessa,  che  ha
anche un immediato riflesso finanziario, non fosse altro che  per  le
spese  necessarie   al   ripristino   dell'immagine   offuscata   dal
comportamento illecito di funzionari pubblici. 
    Orbene la su  citata  disposizione  di  cui  all'art.  17,  comma
30-ter, periodi secondo e terzo, della legge 3 agosto 2009,  n.  102,
di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009,  n.  78,  modificata
dall'art. 1, comma 1, lett. c del decreto-legge  3  agosto  2009,  n.
103, convertito nella legge 3 ottobre  2009,  n.  141,  ha  posto  un
evidente «irragionevole» restrizione  alla  tutela  risarcitoria  del
diritto all'immagine della pubblica amministrazione,  limitandola  ai
casi  di  effettiva  condanna  penale  irrevocabile  per  l'eventuale
connesso reato. 
    In  tal  modo  solo  il   danno   all'immagine   della   pubblica
amministrazione viene discutibilmente degradato da figura autonoma di
danno-conseguenza, cosi' come le restanti ipotesi dannose del  genere
non patrimoniale, ad una marginale figura dipendente di  danno-evento
da delitto. 
    5. - Sotto altro profilo la disposizione di cui al comma  30-ter,
periodi 2° e 3°, indubbiamente determina una  diffusa  disparita'  di
trattamento  tra  soggetti  che  versano  nella  medesima  situazione
giuridica,  in  dispregio  a  quanto  previsto  dall'art.   3   della
Costituzione. 
    Ai fini del presente giudizio, intercorrente tra  il  procuratore
regionale, quale sostituto processuale dell'ente leso - titolare  del
rapporto sostanziale di credito -,  e  soggetti  legati  ad  esso  da
rapporti di servizio di diversa natura (professionale  ed  onoraria),
si evidenzia una disparita' di trattamento tra il pubblico dipendente
citato in giudizio - e quindi  tutti  quelli  versanti  nella  stessa
condizione - e gli amministratori non destinatari della disposizione. 
    Infatti quest'ultima consente alle procure della Corte dei  conti
di esercitare «l'azione per il risarcimento  del  danno  all'immagine
nei soli casi e nei modi previsti  dall'articolo  7  dalla  legge  27
marzo 2001,  n.  97»,  che  contiene  nell'intitolazione  «Norme  sul
rapporto tra  procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare  ed
effetti del giudicato  penale  nei  confronti  dei  dipendenti  delle
amministrazioni pubbliche». 
    Appare evidente che il combinato disposto di cui  al  piu'  volte
citato comma 30-ter, periodi 2° e 3°, ed all'art.  7 dalla  legge  n.
97/2001  si  rivolge  esclusivamente  ai  dipendenti  pubblici,   con
esclusione degli amministratori ed  in  genere  di  coloro  che  sono
legati all'ente da un mero rapporto di servizio. 
    L'irragionevolezza di tale distinzione risulta di tutta  evidenza
ove  si  ponga  mente  alla  circostanza   che   sono   proprio   gli
amministratori, che rappresentano nei rapporti giuridici  e  politici
gli enti pubblici, a porre  maggiormente  in  pericolo  il  prestigio
degli enti stessi, piuttosto che i dipendenti pubblici legati a  tali
enti da un mero rapporto lavorativo. 
    In ordine a tali censure, va approfondita la questione della loro
non manifesta infondatezza. 
    Certamente l'art. 3 della Costituzione impone al  legislatore  di
garantire - come condizione essenziale  di  un  ordinato  svolgimento
della vita sociale nei suoi vari aspetti  -  la  «par  condicio»  tra
tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico, talche' nessuno di  essi
possa venirsi a trovare - senza una valida giustificazione fondata su
presupposti   logici   obiettivi,   i   quali   ragionevolmente    ne
giustifichino l'adozione (Corte costituzionale sentenza  16  febbraio
1963, n. 7) - in posizione deteriore  o  privilegiata  rispetto  agli
altri. 
    Se sulla posizione svantaggiata  e'  evidente  la  «ratio»  della
norma costituzionale, lo e' allo stesso modo in ordine  ai  privilegi
ingiustificati;  talche'   al   beneficio   degli   uni   corrisponde
generalmente il pregiudizio, diretto o comunque  diffuso,  di  altri,
sussistendo sempre una correlazione tra posizioni giuridiche, a volte
collegate in veri e propri rapporti giuridici. 
    E  tale  uguaglianza  -  al  di  la'  dell'atecnica  terminologia
costituzionale, che menziona «tutti i cittadini», -  si  riferisce  a
tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico, sia persone fisiche  che
giuridiche, siano esse private o pubbliche. 
    Cio'   conduce   a   ritenere   che   sembra   costituzionalmente
inammissibile, non ricorrendo alcuna valida ragione  giustificatrice,
il privilegio «perpetuo» dell'irresponsabilita' per il compimento  di
atti che sono risultati  e  che  risulteranno  in  futuro  certamente
dannosi per l'immagine di un ente  pubblico.  All'uopo  non  e'  dato
comprendere le ragioni di tale scelta del legislatore, il  quale  non
collega il «favor» ad alcuna fondata  circostanza,  peraltro  nemmeno
ben individuata temporalmente, talche' essa «legittima» anche per  il
futuro e a tempo indeterminato la  violazione  di  una  normativa  di
immediata attuazione costituzionale e di eccezionale rilievo sociale,
anche indirettamente finanziario, diretta  a  tutelare  il  prestigio
delle istituzioni pubbliche. 
    Ne'  il  legislatore  del  2009  tiene  assolutamente  in   conto
l'impatto sugli enti gia' in difficolta'  finanziarie  ne'  specifica
con la dovuta chiarezza il momento temporale cui riferirsi, talche'. 
    In tal modo la disposizione in discorso  viene  a  costituire  un
vero   e   proprio    immotivato    «privilegio»    processuale    di
«irresponsabilita'   perpetua»   per   illeciti   non    direttamente
patrimoniali. 
    Infatti pone tutti i dipendenti pubblici - e tra di  essi  quello
convenuto nel presente giudizio - in posizione di vantaggio  rispetto
agli amministratori degli enti locali (che possono essere  perseguiti
per fattispecie analoghe), che all'amministrazione  danneggiata,  che
viene a trovarsi correlativamente in una situazione di  «soggezione»,
dovendo necessariamente subire  gli  effetti  pregiudizievoli  di  un
comportamento tenuto da suoi dipendenti in violazione della  legge  e
quindi per ipostasi degli interessi stessi dell'Ente pubblico. 
    Conclusivamente, nello stesso momento, la disposizione  censurata
ha attribuito, per i motivi sopra illustrati, al convenuto dipendente
pubblico una ingiustificata posizione  di  privilegio  nei  confronti
degli amministratori degli enti locali e non,  e  particolarmente  di
quello interessato alla vicenda in esame, nonche' a quest'ultimo ente
un'ingiustificata  posizione  di   svantaggio   nei   confronti   del
dipendente medesime e di quelli che seguiranno. 
    Un ulteriore profilo di irragionevole disparita' di  trattamento,
e quindi di conflitto tra la contestata disposizione e l'art. 3 della
Costituzione, si  configura  tra  la  pubblica  amministrazione  e  i
restanti  soggetti  dell'ordinamento,  in  quanto  il  deterioramento
dell'immagine della prima non e' sanzionata  se  non  in  casi-limite
dipendenti dalla commissione di  gravi  delitti,  mentre  quello  dei
secondi e' ben tutelata in tutti i casi di  commissione  di  illecito
anche di non rilievo penale. 
    Cosi'  avviene  che  la  pubblica  amministrazione  puo'   essere
condannata  per  aver  leso  l'altrui  immagine  anche  al  di  fuori
dell'illiceita'  penale,  ma  non   potrebbe   ottenere   lo   stesso
trattamento risarcitorio a suo favore. 
    Come si  e'  in  precedenza  osservato,  il  prestigio  dell'ente
pubblico  riveste  anzi  un  ruolo  fondamentale  nel  rapporto   tra
istituzioni  e  cittadini,  con  un  coinvolgimento  anche   maggiore
dell'opinione pubblica. 
    Non  e'  quindi   dato   di   comprendere   i   motivi   di   una
sottovalutazione dell'immagine di una pubblica amministrazione. 
    6.  -  Altrettanto   pregnante   appare   poi   la   censura   di
illegittimita'  costituzionale  del  citato  comma  30-ter,   periodi
secondo  e  terzo,  in  relazione  all'art.   97,   comma   1   della
Costituzione. 
    La  somma  Carta  si  occupa  specificatamente   della   Pubblica
Amministrazione agli articoli  97  e  98,  fissando  inderogabilmente
principi fondamentali di organizzazione e funzionamento di essa. 
    Il citato art. 97 in particolare,  come  ha  notato  la  dottrina
costituzionalistica, appartiene  a  quel  numeroso  gruppo  di  norme
costituzionali, aventi ad oggetto la posizione di principi  intesi  a
regolare l'attivita' statuale  e,  segnatamente  quella  legislativa,
obbligandola ad indirizzarsi in un certo senso  o  ad  astenersi  dal
rivolgersi in altro, e comunque ponendole dei limiti. 
    In particolare, quando la Costituzione detta alcuni criteri a cui
si deve conformare la legge, questa e' senz'altro  anticostituzionale
se non dispone nel modo e nei limiti voluti dalla Somma Carta. 
    Esaminando in tale prospettazione le disposizioni  costituzionali
sull'organizzazione della Pubblica Amministrazione, si deve osservare
che l'articolo 97 rappresenta il limite  della  discrezionalita'  del
legislatore in tale materia. 
    E' innegabile che il comma 30-ter, periodi secondo e terzo,  piu'
volte  citato  si  ponga  in  contrasto  con  il  criterio  del  buon
andamento, in quanto  determina  un'alterazione  della  funzionalita'
degli enti pubblici sotto il delicato  profilo  della  reputazione  e
della  conseguente  fiducia  dei  cittadini   nei   confronti   delle
Istituzioni, nonche' di impedire comunque il risarcimento  dei  danni
provocati da funzionari alle amministrazioni di  appartenenza,  salvo
che assuma una  tale  gravita'  da  comportare  una  condanna  penale
irrevocabile al riguardo. 
    In  aggiunta,  la  disposizione  contestata  contraddice  l'altro
criterio in parola, cioe' quello dell'imparzialita', che  si  risolve
essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale. 
    Pertanto la scelta del  legislatore  nel  porre  tale  contestata
disposizione altresi' appare,  nella  sua  palese  irrazionalita'  ed
irragionevolezza,  una  violazione  dell'art.  97,  comma  1,   della
Costituzione. 
    7. -  A  rafforzare  la  convinzione  che  il  legislatore  abbia
ecceduto  nella  sua  discrezionalita',  cadendo  in  una   manifesta
irragionevolezza e violando nel contempo l'art. 3, comma 1, e  l'art.
97, comma 1, della Costituzione, va  considerato  che  il  denunciato
comma 30-ter e' stato  introdotto  dalla  legge  di  conversione  del
decreto-legge n. 78 del 2009, senza che nel  corso  della  brevissima
discussione sulla norma ne siano state valutate a pieno la portata  e
le conseguenze. 
    Anzi  l'emendamento  contenente  la  contestata  norma  e'  stato
approvato - insieme alle altre disposizioni  sotto  la  spinta  della
preoccupazione  per  la   scadenza   del   decreto,   non   disgiunta
dall'esigenza di  modificarne  il  testo,  almeno  per  alcune  parti
palesemente incostituzionali, attraverso una  ulteriore  decretazione
d'urgenza  emanata  senza  soluzione   di   continuita',   ossia   il
decreto-legge n. 103/2009, convertito nella legge n. 141/2009. 
    Questa  situazione  invero  ha  introdotto  una  norma  di  breve
formulazione,  ma  di  estesa  portata,  determinando  una  sorta  di
rinuncia a priori al risarcimento di tutti i rilevanti danni che sono
stati, e che lo saranno  nel  futuro  «indeterminato»,  inferti  alla
reputazione degli enti pubblici, al di  fuori  del  ristretto  ambito
penale, contraddicendo e vanificando nel concreto i principi generali
posti dalla legge n. 142/1990 e  dalle  successive  modificazioni  ed
integrazioni in tema di rilancio della funzionalita'  della  pubblica
amministrazione. 
    L'aspetto  piu'  interessante  della  vicenda  e'   rappresentato
dall'introduzione di un principio - palesemente collidente con quello
di legalita', cui e' informato lo  Stato  di  diritto  -  quanto  mai
preoccupante nella sua originalita', cioe' una sofisticata  sanatoria
(quasi un invito!) per le future violazioni del prestigio del settore
pubblico sempreche' non si concreti in un'ipotesi  delittuosa  contro
ia pubblica amministrazione. 
    Come ha in un recente  passato  osservato  piu'  volte  la  Corte
costituzionale  (sentenze  n.  236/1992  e   n.   659/1994)   l'ampia
discrezionalita' del legislatore nella valutazione  del  rapporto  di
compatibilita'  tra  azione  amministrativa  e  principio   di   buon
andamento trova un insuperabile limite nel pubblico interesse; e cio'
specie sul problema delle ricorrenti sanatorie legislative, le  quali
sono state ritenute ammissibili solo quando costituivano applicazioni
proprio   del   principio   di   buon   andamento   della    pubblica
amministrazione, essendo basate sulla comparazione di esse con  altri
valori presenti nella fattispecie. 
    Ma tale comparazione di valori deve  sempre  essere  conforme  al
criterio  fondamentale  del  pubblico  interesse,   cui   e'   tenuta
costantemente a conformarsi l'azione amministrativa, e che  e'  stato
clamorosamente contraddetto dalla scelta di privilegiare  l'interesse
degli  amministratori  «infedeli»  di   non   rispondere   del   loro
comportamento lesivo dell'immagine della struttura pubblica di fronte
al giudice naturale della contabilita' pubblica. E' stato  introdotto
senza alcuna valida giustificazione logica nel sistema un precetto in
piena e palese collisione con i principi che regolano la materia. 
    Tale disposizione neppure trova  una  giustificazione  di  ordine
generale e d'interesse nazionale ne' appare motivata da  esigenze  di
natura economica o finanziaria. 
    Anzi essa viene ad aggravare la crisi di carattere etico, con  le
evidenti ricadute d'ordine finanziario, spesso  presente  negli  enti
pubblici,  e  comunque  ad  incidere  sulle  autonome  scelte   delle
istituzioni pubbliche specie locali, le quali sono altresi' costrette
ad destinare i pochi fondi a disposizione al fine di  riabilitare  il
loro prestigio; talche' la perdita di tali somme  senza  possibilita'
di recupero impedisce di perseguire finalita' di immediato  interesse
per le comunita' rappresentate. 
    La previsione contenuta nel citato comma 30-ter, periodi 2  e  3,
appare cosi' viziata  da  indeterminatezza  temporale  ed  oggettiva,
tanto da prescindere da una qualsiasi ratio che non sia quella  della
sanatoria di per se stessa. 
    Il solo elemento richiesto per  l'applicabilita'  del  privilegio
dell'irresponsabilita' - nonostante l'aver mantenuto un comportamento
contra legem in danno dell'amministrazione di appartenenza  -  e'  la
mancanza di un giudicato formatosi  nell'ambito  della  giurisdizione
penale. 
    La norma si pone cosi' come una  negazione,  non  solo  del  buon
andamento,  ma  anche  di  una  razionale  e  coerente  attivita'  di
amministrazione; tanto  da  non  avere  l'idoneita'  a  soddisfare  i
requisiti che la Corte costituzionale richiede in  materia  (sentenza
n. 94/1995). 
    Tale  riconoscimento  ad  effetto  premiale   di   una   generale
irresponsabilita', anche per il futuro, di «infedeli»  amministratori
della  cosa  pubblica  in  ordine  ad  una  materia  tanto  delicata,
costituisce certamente un  esempio  di  «diseducazione  civile»  come
rilevato in casi analoghi dalla stessa Corte costituzionale (sentenza
n. 16/1992), specie in un momento storico come l'attuale dove  da  un
lato e' evidente la crisi di fiducia nei confronti delle  Istituzioni
da parte dei cittadini, cui viene richiesto in  aggiunta  uno  sforzo
eccezionale per contribuire al risanamento  delle  finanze  pubbliche
devastate proprio  dal  comportamento  a  dir  poco  «disinvolto»  di
amministratori pubblici, specie locali. 
    I suddetti principi e le argomentazioni utilizzate in questa sede
sono  ricavati  da  un'importante  pronuncia   della   stessa   Corte
costituzionale (sentenza n. 1/1996), che - su iniziativa della stessa
Corte dei conti - ha fatto giustizia  di  altro  grave  tentativo  di
sanatoria legislativa, priva di alcuna valida giustificazione. 
    D'altronde,   se   il   legislatore    avesse    inteso    sanare
«razionalmente» le situazioni del genere, avrebbe dovuto, agendo  sul
piano    sostanziale,    quanto    meno    eliminare    espressamente
l'antigiuridicita' del comportamento in via  retroattiva,  affermando
la   liceita'   delle    lesioni    all'immagine    della    pubblica
amministrazione. 
    Invece agisce  «irragionevolmente»,  nel  modo  criticato,  sulla
legittimazione  dell'Ufficio  requirente  contabile   ad   agire   in
giudizio, quasi che vi siano altri soggetti legittimati ad introdurre
un giudizio risarcitorio del genere a favore  dell'ente  danneggiato:
il che non e', ponendo la legge una riserva  assoluta  a  favore  del
procuratore regionale della Corte dei conti! 
    E' da dedurre che  la  formula  utilizzata  mira  ad  evitare  il
disfavore che sarebbe stato suscitato nell'opinione pubblica  da  una
sanatoria (di natura sostanziale) in senso proprio. 
    8. - Inoltre l'ente interessato alla vicenda  in  esame  -  cosi'
come tutti le altre amministrazioni, i cui esponenti sono destinatari
della norma contestata -, sono stati privati  della  possibilita'  di
tutelarsi giudizialmente, anche in violazione degli artt. 24, comma 1
e 113, primo e secondo comma della Costituzione. 
    L'art. 24, comma 1 citato afferma infatti che tutti possono agire
in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, mentre
il successivo art.113 ai commi 1 e 2 non consente alcuna  limitazione
alla tutela giurisdizionale di  diritti  ed  interessi  legittimi  in
materia di funzione amministrativa. 
    A tale proposito e' indubbio che anche  gli  enti  pubblici  -  e
segnatamente quelli interessati alla vicenda in esame - sono titolari
di diritti  ed  interessi  legittimi  da  far  valere  di  fronte  ai
competenti organi di giurisdizione. 
    Nella specie gli enti pubblici tutelano la  loro  immagine  e  le
loro finanze nei confronti  di  dipendenti  asseritamente  «infedeli»
innanzi al giudice  contabile  per  il  tramite  del  loro  sostituto
processuale «naturale», cioe' il competente procuratore  regionale  o
generale  della  Corte  dei  conti,  per   ottenere   dalla   suprema
giurisdizione contabile il risarcimento  del  danno  perpetrato  alla
propria immagine e indirettamente alle loro finanze. 
    9. - La norma fondamentale, di cui al comma 4 dell'art. 81  della
Costituzione, poi, impone  al  legislatore  di  prevedere,  allorche'
dispone una spesa - cui e'  da  equiparare  una  minore  entrata  per
esclusione del risarcimento da danno all'immagine -, i mezzi per  far
fronte ad essa. 
    E cio' anche se viene imposta una spesa o una  minore  entrata  a
carico dei bilanci degli enti locali, i quali sono privi, nel vigente
sistema  pubblico  -  salvo  marginali  eccezioni  -,   di   potesta'
tributaria, dipendendo la finanza locale, per la quasi totalita', dai
trasferimenti disposti dallo Stato sulla base di leggi generali,  per
cui il peso economico effettivo viene a gravare in tutto o  in  parte
sul bilancio statale. 
    Occorre quindi anche in questi  casi  l'individuazione  di  mezzi
finanziari aggiuntivi rispetto  a  quelli  gia'  previsti,  facendoli
derivare  da  nuove  o  maggiori  entrate  ovvero  da  minori   spese
nell'ambito del bilancio statale di trasferimento. 
    Altrimenti sarebbe consentito al legislatore statale,  disponendo
spese o minori  entrate  tramite  il  sistema  del  trasferimento  di
risorse - peraltro finanziariamente inesistenti in termini di cassa -
ad enti pubblici e segnatamente  a  quelli  locali,  di  sfuggire  al
dovere costituzionale di cui al citato  art.  81,  comma  4,  con  la
conseguenza  di  gravare  ulteriormente  la  finanza  statale  -   in
relazione alla quale la spesa consiste nel «trasferimento» di fondi -
e la c.d.  «finanza  pubblica  allargata»  di  oneri  aggiuntivi  tra
l'altro imposti autoritativamente agli enti medesimi. 
    Al contrario va quantificata l'incidenza di ogni disposizione  di
legge a carico della finanza statale - sia pure  sotto  la  forma  di
ulteriori trasferimenti di fondi a favore degli  enti  pubblici  -  e
vanno previsti adeguati strumenti di copertura dei flussi finanziari. 
    Orbene il piu' volte citato comma 30-ter non trova nel corpo  del
provvedimento legislativo complessivamente approvato  una  previsione
di copertura  finanziaria  della  minor  entrata  imposta  agli  enti
pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati  alle  loro
finanze di natura derivata. 
    10. - Per completezza vanno  affrontate  le  ultime  due  censure
fondatamente formulabili alla disposizione di cui al criticato  comma
30-ter, periodi secondo e terzo, ossia il contrasto palese con l'art.
103, comma 2, e con l'art.  25,  comma  1,  della  Costituzione,  che
attribuisce alla Corte dei conti la giurisdizione  nelle  materie  di
contabilita' pubblica. 
    Infatti,  come  gia'  precedentemente   si   e'   osservato,   la
cancellazione di ogni potere di azione, al di fuori  dell'ipotesi  di
giudicato  penale  per  delitti  contro  la   P.A.,   relativa   alla
responsabilita' gestoria in materia di danno all'immagine  ridonda  a
esclusione della giurisdizione  di  questa  Corte,  peraltro  in  via
generale attribuita alla Corte dei conti. 
    L'intervento del legislatore in attuazione dell'art. 103, secondo
comma della Costituzione (la c.d. interpositio legislatoris) non puo'
spingersi fino ad escludere apoditticamente  la  giurisdizione  della
Corte  dei  conti  con   riferimento   ad   ipotesi   specifiche   di
responsabilita' rientranti  tradizionalmente  e  genericamente  nella
materia  della  contabilita'  pubblica  ovvero,  ancora   peggio,   a
distinguere nell'ambito della stessa tipologia di danno (nella specie
all'immagine) inferto ad ente pubblico, tra ipotesi  conoscibili  dal
loro «giudice naturale» e quelle  non,  senza  peraltro  un  criterio
discretivo razionale e ragionevole. 
    Altrimenti la suddetta disposizione  costituzionale  non  avrebbe
alcuna funzione, rimettendosi ogni aspetto alla discrezionalita'  del
legislatore, che nella circostanza peraltro urta contro il  principio
della ragionevolezza, costituendo un'inammissibile area di  impunita'
in un delicato settore  delle  gestioni  pubbliche.  L'assunto  viene
rafforzato con riferimento  all'art.  25  primo  comma  della  stessa
Costituzione, secondo cui «nessuno puo' essere distolto  dal  giudice
naturale precostituito per legge». Questa norma  impedisce  qualunque
sottrazione di sfera giurisdizionale successivamente  al  verificarsi
del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad  altro  organo
giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione. 
    La questione sollevata con la presente ordinanza appare rilevante
ai fini della procedibilita' e quindi della definizione  della  causa
in esame, nonche'  non  manifestamente  infondata  per  i  motivi  in
precedenza illustrati.