Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri  pro  tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici domicilia per legge in Roma, alla via dei Portoghesi,  12,
contro la Regione Emilia Romagna, in persona del Presidente in carica
per la dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  della  legge
regionale  22  dicembre  2009,  n.  24,  recante  «Legge  finanziaria
regionale adottata a norma dell'art.  40  della  legge  regionale  15
novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l'approvazione  del  bilancio
di  previsione  della  regione   Emilia   Romagna   per   l'esercizio
finanziario 2010 e del bilancio  pluriennale  2010-2012»,  pubblicata
nel B.U.R. n. 22 del 24 dicembre 2009, ed in particolare degli  artt.
35 e 48. 
    La legge regionale in  epigrafe  reca  numerose  disposizioni  in
materia finanziari ed ordinamentale. 
    In particolare l'art. 35 della  stessa  reca  una  modifica  alla
legge regionale n. 20 del 2006 (legge fmanziaria regionale adottata a
norma dell'art. 40, della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40  in
coincidenza  con  l'approvazione  del  bilancio  di  previsione   per
l'esercizio finanziario 2007 e del bilancio  pluriennale  2007-2009),
introducendo il comma 3-bis nell'art. 36 di quest'ultima. 
    La nuova disposizione stabilisce che, per le finalita' di cui  al
citato  art.  36  (favorire   l'appropriatezza   delle   prescrizioni
farmaceutiche  e  rispettare  il  tetto  percentuale  per  la   spesa
farmaceutica ospedaliera), «la Regione, avvalendosi della Commissione
regionale del farmaco, puo' prevedere, in sede di  aggiornamento  del
Prontuario terapeutico regionale, l'uso di farmaci anche al di  fuori
delle indicazioni registrate  nell'autorizzazione  all'immissione  in
commercio (AIC),  quando  tale  estensione  consenta,  a  parita'  di
efficacia e di sicurezza rispetto a  farmaci  gia'  autorizzati,  una
significativa  riduzione  della  spesa  farmaceutica  a  carico   del
Servizio  sanitario  nazionale  e  tuteli  la  liberta'   di   scelta
terapeutica da parte dei professionisti del SSN». 
    L'art. 48 della legge in esame reca, a sua volta, disposizioni in
materia di parita' di accesso ai servizi, stabilendo, in sintesi,  il
riconoscimento ai cittadini di Stati dell'Unione europea del  diritto
di  accedere  alla  fruizione  dei  servizi  pubblici  e  privati  in
condizioni di parita' di trattamento (comma  1);  l'assunzione  delle
nozioni di discriminazione diretta e  indiretta  previste  da  alcune
direttive europee (comma 2); l'applicabilita'  dei  diritti  generati
dalla legislazione regionale in materia di accesso a servizi,  azioni
ed interventi a persone,  famiglie  e  forme  di  convivenza  di  cui
all'art. 4 d.P.R. n. 223/1989 (comma 3); l'impegno della Regione, con
Enti locali, parti sociali  e  terzo  settore,  a  promuovere  azioni
positive per il superamento di condizioni di svantaggio derivanti  da
pratiche discriminatorie. 
    Conformemente  alla  deliberazione  assunta  dal  Consiglio   dei
ministri, nella riunione del 19 febbraio 2010, la legge  indicata  in
epigrafe, con riguardo alle disposizioni citate, viene impugnata  per
i seguenti 
 
                             M o t i v i 
 
I - Quanto all'art. 35 della Lr. 24/2009: Violazione  dell'art.  117,
secondo  comma,  lett.  m),  della  Costituzione  e,  in   subordine,
dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione e  delle  disposizioni
fondamentali in materia di uso dei farmaci, in generale e nell'ambito
del Servizio sanitario nazionale. 
    1. - La disposizione contenuta nell'art. 35 della  l.r.  24/2009,
con la quale e' stato introdotto il citato comma 3-bis  nell'art.  36
della l.r. 20/2006,  nello  stabilire  il  potere  della  Regione  di
prevedere,  in  sede  di  aggiornamento  del  prontuario  terapeutico
regionale, l'uso di farmaci «anche  al  di  fuori  delle  indicazioni
registrate nell'autorizzazione all'immissione in commercio», nei casi
ivi previsti, reca,  in  sostanza,  la  possibilita'  di  utilizzare,
nell'ambito del  Servizio  sanitario  nazionale,  un  medicinale  per
indicazioni terapeutiche diverse da  quelle  prescritte  dall'Agenzia
italiana    del    farmaco    (AIFA)    all'atto     del     rilascio
dell'autorizzazione. 
    Cosi' disponendo, la norma eccede, innanzitutto, dalla competenza
legislativa regionale, incidendo sui livelli essenziali di assistenza
e percio' violando l'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. 
    Come gia' affermato da codesta Corte,  «l'erogazione  di  farmaci
rientra  nei  livelli  essenziali  di  assistenza  (L.E.A.)  il   cui
godimento e' assicurato a tutti  in  condizioni  di  eguaglianza  sul
territorio nazionale ... affinche' non si verifichi che in  parti  di
esso gli utenti debbano, in ipotesi, assoggettarsi ad  un  regime  di
assistenza sanitaria inferiore, per quantita' e  qualita',  a  quello
ritenuto intangibile dallo Stato» ed attiene, pertanto, ad un  ambito
di esclusiva competenza statale (sentt. 271 del 2008 e 44 del 2010). 
    Tali  considerazioni  valgono,  a  maggior  ragione,  per  quanto
riguarda l'uso dei farmaci nell'ambito del SSN, in quanto  lo  stesso
costituisce il presupposto per la  loro  erogazione  a  carico  dello
stesso: del resto la disposizione  della  legge  regionale  censurata
mira in modo evidente ad estendere l'uso di farmaci, al di la'  delle
indicazioni terapeutiche autorizzate, al precipuo fine di controllare
la spesa sanitaria. 
    2. - Tale uso e', peraltro, regolato da diverse  disposizioni  di
legge statale. 
    Al riguardo dev'essere, in primo luogo, richiamato, l'art. 6  del
d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219, a mente del quale  (comma  1)  «Nessun
medicinale puo' essere immesso in commercio sul territorio  nazionale
senza aver ottenuto un'autorizzazione dell'AIFA  o  un'autorizzazione
comunitaria a norma del regolamento (CE)  n.  726/2004  in  combinato
disposto con il regolamento (CE) n.  1394/2007».  Il  comma  2  della
disposizione in questione stabilisce, inoltre,  che  l'autorizzazione
in questione e' ulteriormente necessaria per ogni ulteriore dosaggio,
forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione,  nonche'
per le variazioni ed estensioni, relativi al predetto medicinale. 
    Con riferimento  all'uso  dei  medicinali  nell'ambito  del  SSN,
l'art. 1, comma 4, del d.l. 21 ottobre  1996,  n.  536,  conv.  dalla
legge 23 dicembre 1996, n. 648, dispone, a sua volta che «Qualora non
esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico
del Servizio sanitario nazionale ... i medicinali innovativi  la  cui
commercializzazione  e'  autorizzata  in  altri  Stati  ma  non   sul
territorio  nazionale,  i  medicinali  non  ancora   autorizzati   ma
sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare  per
un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in
apposito  elenco  predisposto  e  periodicamente   aggiornato   dalla
Commissione unica del farmaco  conformemente  alle  procedure  ed  ai
criteri adottati dalla stessa» (sottolineatura aggiunta - N.d.E.). 
    In deroga a tale principio, l'articolo 3,  comma  2,  del  d.l.17
febbraio 1998, n. 3, conv. con modif. dalla legge 8 aprile  1998,  n.
4, riconosce al medico, in singoli casi, la  possibilita',  sotto  la
propria diretta responsabilita' e previa informazione del paziente  e
acquisizione del consenso dello stesso, di «impiegare  un  medicinale
prodotto  industrialmente   per   un'indicazione   o   una   via   di
somministrazione  o  una   modalita'   di   somministrazione   o   di
utilizzazione diversa da quella autorizzata  ...  qualora  il  medico
stesso ritenga, in base a dati documentabili,  che  il  paziente  non
possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali  sia  gia'
approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalita'  di
somministrazione e purche' tale impiego sia noto e conforme a  lavori
apparsi  su   pubblicazioni   scientifiche   accreditate   in   campo
internazionale»; tuttavia,  secondo  quanto  precisato  dall'articolo
citato, al comma 4, in nessun caso il ricorso a tale  facolta'  «puo'
costituire riconoscimento del diritto del  paziente  alla  erogazione
dei medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale, al di fuori
dell'ipotesi disciplinata dall'articolo 1, comma 4, del decreto-legge
21 ottobre 1996, n. 536». 
    Tale prescrizione e' stata, poi, ribadita dall'art. 1, comma 736,
lett. z), della legge 27  dicembre  2006,  n.  296,  secondo  cui  la
disposizione di cui all'art. 3, comma 2, cit. «non e' applicabile  al
ricorso a terapie farmacologiche  a  carico  del  Servizio  sanitario
nazionale, che,  nell'ambito  dei  presidi  ospedalieri  o  di  altre
strutture  e  interventi  sanitari,  assuma   carattere   diffido   e
sistematico  e  si  configuri,  al  di  fuori  delle  condizioni   di
autorizzazione  all'immissione  in   commercio,   quale   alternativa
terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie  per  le  quali
risultino  autorizzati  farmaci  recanti  specifica  indicazione   al
trattamento. Il ricorso a tali terapie e' consentito solo nell'ambito
delle sperimentazioni cliniche  dei  medicinali  di  cui  al  decreto
legislativo 24 giugno 2003, n. 211, e successive  modificazioni».  Si
noti, peraltro, che tale norma  risulta  emanata  in  attuazione  del
protocollo di intesa  tra  il  Governo,  le  regioni  e  le  province
autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la  salute
«sul quale la Conferenza delle regioni  e  delle  province  autonome,
nella  riunione  del  28  settembre  2006,  ha  espresso  la  propria
condivisione», come si evince dall'apertura del citato art. 1,  comma
796. 
    3. - Nel prevedere la possibilita'  della  Regione  di  estendere
l'uso di farmaci  nell'ambito  del  SSN,  anche  al  di  fuori  delle
indicazioni  registrate  nell'AIC,  peraltro  per  finalita'  e   con
modalita' che, come subito si  vedra',  travalicano  quelle  previste
dalle citate disposizioni di legge statale, la norma censurata  della
l.r. emiliana impatta, dunque, negativamente  sui  LEA,  determinando
una evidente disparita' di trattamento  tra  gli  assistiti  soggetti
alle sue disposizioni ed il resto  dei  fruitori  del  SSN  su  scala
nazionale,  consentendo  un  evidente  decremento   del   regime   di
assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell'impiego improprio
di medicinali, e invadendo apertamente la  competenza  statale  nella
materia disciplinata dall'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. 
    4. - In via subordinata, nell'ipotesi in cui si ritenesse che  la
norma  in  esame  possa  considerarsi  emanata  nell'esercizio  della
competenza legislativa concorrente della Regione in materia di tutela
della salute, la stessa disposizione sarebbe comunque illegittima per
violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in  quanto
incidente sulla determinazione dei principi  fondamentali,  riservata
alla legislazione dello Stato e assunta in  contrasto  con  le  norme
della  legislazione  statale,  sopra  citate,   che   tali   principi
disciplinano. 
    Qualora,  infatti,  si   ritenesse   praticabile   l'ipotesi   in
questione, l'attinenza della materia  relativa  all'uso  dei  farmaci
all'alveo dei principi fondamentali  non  potrebbe  essere  messa  in
discussione,  anche  alla   luce   dei   principi   affermati   dalla
giurisprudenza di codesta Corte fin dalla sentenza n. 282  del  2002,
venendo in gioco anche in questa fattispecie «l'appropriatezza» (alla
quale, del resto, alludono le stesse  finalita'  dell'art.  36  della
l.r. 20/2006, al  cui  perseguimento  e'  informato  il  comma  3-bis
introdotto  dalla  norma   censurata)   della   pratica   terapeutica
consistente nell'uso e nella prescrizione del farmaco per  scopi  che
eccedono quelli  contenuti  nelle  indicazioni  approvate,  sotto  il
profilo della sua efficacia e dei  suoi  eventuali  effetti  dannosi;
appropriatezza con riguardo alla quale, come rilevato nella  predetta
sentenza, spetterebbe senz'altro al legislatore statale  stabilire  e
applicare i relativi criteri di determinazione, sotto il profilo  dei
principi generali che regolano l'attivita' terapeutica. 
    Le norme-principio della legislazione statale  sopra  menzionate,
peraltro, disciplinano le modalita' e  le  procedure  per  l'uso  dei
farmaci, anche in deroga  alle  indicazioni  approvate,  informandosi
puntualmente al criterio enunciato dalla  giurisprudenza  di  codesta
Corte (v. sent. 185/1998 e la stessa sent. n. 282 cit.), secondo  cui
la appropriatezza delle pratiche terapeutiche «non  potrebbe  nascere
da  valutazioni  di  pura  discrezionalita'  politica  dello   stesso
legislatore, bensi' dovrebbe prevedere  l'elaborazione  di  indirizzi
fondati sulla verifica dello stato delle  conoscenze  scientifiche  e
delle  evidenze  sperimentali  acquisite,   tramite   istituzioni   e
organismi - di norma nazionali o sovranazionali -  a  cio'  deputati,
dato l'"essenziale rilievo" che, a questi fini, rivestono "gli organi
tecnico-scientifici"» (sottolineatura aggiunta - N.d.E.). 
    Per tale ragione, nell'assoggettare, come si e' visto,  in  linea
generale, le variazioni delle indicazioni terapeutiche dei farmaci  a
preventiva autorizzazione  (art.  6,  co.  2,  d.lgs.  219/2006),  il
legislatore nazionale ammette l'erogazione di medicinali a carico del
SSN (e, quindi, a maggior ragione il loro impiego) per un'indicazione
terapeutica diversa da quella autorizzata, solo  qualora  non  esista
una valida alternativa terapeutica e,  comunque,  previo  inserimento
degli  stessi  in  apposito  elenco  predisposto   e   periodicamente
aggiornato dalla Commissione unica del  farmaco,  conformemente  alle
procedure ed ai criteri adottati dalla stessa. 
    La  disposizione  regionale  censurata,  oltre   ad   intervenire
nell'ambito   normativo   riservato   alla    legislazione    statale
concorrente, viola completamente i principi suddetti, poiche': 
        a) finalizza la  possibilita'  di  detto  impiego  alla  mera
appropriatezza delle prescrizioni farmaceutiche, nonche' al  rispetto
del tetto percentuale della spesa farmaceutica ospedaliera e, piu' in
generale, alla prospettiva di una significativa riduzione della spesa
farmaceutica a carico del SSN, senza  minimamente  tenere  conto  del
piu' stringente criterio della mancanza  di  valide  alternative  sul
piano curativo, di cui all'art. 1, comma 4, d.l. n. 536/96; 
        b) oblitera completamente  le  competenze  della  Commissione
unica nazionale - ora Commissione tecnico scientifica dell'AFA -,  di
tale Agenzia e dei corrispondenti organismi  comunitari,  nonche'  la
procedura a seguito della quale, in base alla stessa norma nazionale,
l'erogazione puo' avvenire, avocando la scelta  dell'uso  alternativo
del farmaco alla stessa Regione, vale a dire ad un soggetto  che,  in
base ai principi giurisprudenziali citati, e' totalmente  estraneo  a
tale scelta, con il mero avvalimento della Commissione regionale  del
farmaco, la quale, in ogni caso, non dispone della competenza e della
visione  scientifica  d'insieme  che  puo'  essere  riconosciuta   ad
organismi scientifici nazionali o internazionali. 
    Ne' puo' dirsi rispettosa dei principi fondamentali  dettati  dal
legislatore  statale  l'ulteriore  condizione  alla  quale  la  norma
regionale subordina l'uso del farmaco oltre le indicazioni  dell'AIA,
vale  a  dire  «la  liberta'  di  scelta  terapeutica  da  parte  dei
professionisti del SSN». 
    Invero,  allorche'  la  legge  nazionale  consente  tale  diverso
impiego al medico, lo fa subordinando  tale  circostanza  a  numerose
cautele, delle quali nella norma regionale non vi e' traccia  alcuna:
l'uso deve avvenire in relazione a singoli casi, previa  acquisizione
del consenso informato del paziente,  con  riferimento  a  medicinali
prodotti industrialmente, sancendo che la scelta  debba  avvenire  in
base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente
trattato,  con  medicinali  per  quali  sia  gia'  approvata   quella
indicazione terapeutica e che, comunque, l'impiego prescelto sia noto
e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate
in campo internazionale - v. art. 3, comma 2, del  d.l.  17  febbraio
1998, n. 3; ovvero, ove si tratti di pratiche diffuse nell'ambito dei
presidi ospedalieri o di altre strutture  e  interventi  sanitari,  e
l'uso  del  farmaco  sia  alternativo,   a   quello   di   medicinali
autorizzati, il ricorso a tali terapie e' consentito solo nell'ambito
delle sperimentazioni cliniche  dei  medicinali  di  cui  al  decreto
legislativo 24 giugno 2003, n. 211, ai sensi dell'art. 1, comma  736,
lett. z), legge n. 296/2006. 
    E, in ogni caso, resta sempre  escluso  che  il  ricorso  a  tale
facolta' possa risolversi nell'erogazione del farmaco  a  carico  del
SSN (art. 3, comma 2, e art. 1, comma 736, lett. z), cit.). 
    Ne consegue la palese illegittimita' della norma censurata  anche
sotto  il  profilo  della  violazione  dei  principi  generali  della
legislazione statale che regolano la materia. 
II - Quanto all'art. 48 della 1.r. 24/2009: 
    a) relativamente all'art. 48, comma 1: violazione dell'art.  117,
secondo comma, lett. 1), della Costituzione. 
    5. - Come si e' osservato in  premessa,  l'art.  48  della  legge
regionale impugnata contiene articolate disposizioni  in  materia  di
parita' di accesso ai servizi. 
    La disposizione si presta a numerose e diversificate  censure  di
illegittimita' costituzionale, con riferimento ai  singoli  commi  di
cui si compone. 
    In particolare, il comma 1 della norma stabilisce che la  Regione
«riconosce a tutti i cittadini  di  Stati  appartenenti  alla  Unione
europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici  e
privati  in  condizioni   di   parita'   di   trattamento   e   senza
discriminazioni,  diretta  o  indiretta,  di  razza,  sesso,  lingua,
orientamento  sessuale,  religione,  opinioni  politiche,  condizioni
personali e sociali». 
    Nel prescrivere il diritto alla fruizione  dei  servizi  privati,
senza  discriminazioni  e  in  condizioni  di   parita',   la   norma
stabilisce,  evidentemente,  il  corrispondente   obbligo   per   gli
operatori economici privati di non rifiutare la loro prestazione. 
    Si tratta,  in  sostanza,  di  un'ipotesi  di  obbligo  legale  a
contrarre - peraltro gia' previsto in via  generale  dal  legislatore
statale all'art. 187 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (recante
«Approvazione del regolamento per l'esecuzione  del  testo  unico  18
giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza») - e,  in  tal
modo, come gia' sottolineato per casi analoghi  dalla  giurisprudenza
di codesta Corte, «introduce una disciplina incidente  sull'autonomia
negoziale dei privati e, quindi, su di una materia riservata, ex art.
117, comma secondo, lett. l),  della  Costituzione,  alla  competenza
legislativa esclusiva dello Stato» (sent. n. 253/2006). 
    b) relativamente all'art. 48, comma 2: violazione degli artt.  3,
117,  secondo  comma,  lett.  l),  e   117,   quinto   comma,   della
Costituzione. 
    6. - Anche il comma 2  dell'articolo  in  esame,  e'  illegittimo
laddove  prescrive  che:   «la   Regione   assume   le   nozioni   di
discriminazione diretta ed indiretta  previste  dalle  direttive  del
Consiglio dell'Unione europea 2000/43/CE (Direttiva del Consiglio che
attua il principio  della  parita'  di  trattamento  fra  le  persone
indipendentemente dalla  razza  e  dall'origine  etnica),  2000/43/CE
(Direttiva del Consiglio che stabilisce un  quadro  generale  per  la
parita' di trattamento in materia di occupazione e di  condizioni  di
lavoro)  e  Direttiva  2006/54/CE  del  Parlamento  europeo   e   del
Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l'attuazione del  principio
delle pari opportunita' e della parita' di trattamento fra  uomini  e
donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).» 
    Cosi'  disponendo   la   Regione,   recepisce   dalla   normativa
comunitaria la  nozione  di  discriminazione  diretta  ed  indiretta;
l'articolo 16, comma 1, della l. statale n. 11/05, tuttavia, consente
alle regioni di dare immediata attuazione alle direttive comunitarie,
esclusivamente nelle materie di propria competenza. 
    La Regione, invece, recependo una direttiva in  una  materia  che
esula dalla sua competenza, si pone in contrasto  con  l'articolo  16
della  l.  n.  11/05  violando  l'articolo  117,   comma   5,   della
Costituzione. 
    Il concetto di discriminazione  attiene,  infatti,  alla  materia
«ordinamento civile»,  di  esclusiva  competenza  statale,  ai  sensi
dell'art. 117, comma 2, lett.  l)  (che,  dunque,  risulta  anch'esso
violato), a cui lo Stato ha dato attuazione anche  attraverso  il  d.
lgs. n. 215/03 e con il d. lgs. n. 216/03,  restringendo  leggermente
la nozione di discriminazione contenuta nelle  direttive  comunitarie
succitate. 
    Il  divieto  di  discriminazione  e  l'eguaglianza  di  tutti   i
cittadini senza  distinzione  di  sesso,  razza,  lingua,  religione,
opinioni politiche, condizioni personali  e  sociali,  trova  il  suo
fondamento nell'articolo 3 della  Costituzione.  Anche  quest'ultimo,
laddove pone in capo alla  Repubblica  l'obbligo  di  rimuovere  ogni
ostacolo di ordine  economico  e  sociale  che  limiti  di  fatto  la
liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, non puo' che  riferirsi  allo
Stato, unico garante su tutto il territorio nazionale di  uniformita'
e parita' di trattamento. Rimettere alle singole leggi  regionali  la
possibilita' di disciplinare in materia di  discriminazione  potrebbe
comportare il rischio di avere diverse forme  di  tutela  sull'intero
territorio  nazionale,  con  evidenti  pregiudizi  ed  ingiustificate
difformita' normative. 
    c) relativamente all'art. 48, comma 3: violazione dell'art.  117,
secondo comma, lett. i) ed l), della Costituzione. 
    7. - Il comma 3 dell'art. 48 impugnato stabilisce che «I  diritti
generati dalla legislazione regionale nell'accesso ai  servizi,  alle
azioni e agli interventi, si applicano  alle  singole  persone,  alle
famiglie e alle forme di convivenza di cui all'art. 4 del decreto del
Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione  del
nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente).» . 
      
    Il richiamo alle «forme di convivenza» fa riferimento all'art.  4
del  d.P.R.  n.  223  del  1989,  che,  nel  definire  la   «famiglia
anagrafica», vi ricomprende anche l'«insieme  di  persone  legate  da
vincoli affettivi» . 
    A detta  definizione,  tuttavia,  la  giurisprudenza  attribuisce
portata precettiva ai soli fini anagrafici:  sia  decisioni  dei  TAR
(cfr., ad es., T.a.r. Veneto, Sentenza 27 agosto 2007, n.  2786)  che
del Consiglio di Stato hanno, infatti, piu' volte  stabilito  che  la
nozione di famiglia anagrafica e' ben  distinta  da  quella  c.d.  di
famiglia nucleare o civile, con la conseguenza  che  i  due  tipi  di
famiglia possono anche non coincidere. Tale  distinzione  concettuale
tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica e' stata  in  particolare
ribadita dal Consiglio di Stato, Sez. V, (sentenza 13 luglio 1994  n.
770), che ha  evidenziato  come  mentre  la  famiglia  anagrafica  e'
istituto   giuridico   esclusivamente   finalizzato   alla   raccolta
sistematica dell'insieme delle posizioni relative  alle  persone  che
hanno fissato nel Comune la propria residenza (cfr. art. 1 d.P.R.  n.
223 del 1989 cit.), la nozione giuridica di famiglia nucleare,  ossia
componibile da genitori e da figli, risulta  presupposta  e  tutelata
nel nostro ordinamento interno dagli artt. 29, 30 e 31  Cost.,  dagli
artt. 144 e 146 c.c. e dall'art. 570 c.p., e - sotto il profilo della
necessaria conformazione dell'ordinamento  medesimo  alle  norme  del
diritto internazionale  generalmente  riconosciute  (lo  ius  gentium
richiamato dall'art. 10, primo comma,  Cost.) -  anche  dall'art.  12
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dall'art.  16  della
Dichiarazione   universale   dei    diritti    dell'uomo    approvata
dall'Assemblea Generale delle Nazioni  Unite  il  10  dicembre  1948,
nonche' dall'art. 10 del Patto internazionale sui diritti  economici,
sociali e culturali  reso  a  sua  volta  esecutivo  nell'ordinamento
italiano con L. 25 ottobre 1977 n. 881 (in riferimento  alla  nozione
di famiglia cfr.  anche  CdS,  sez.  V,  sent.  n.  6400/2007,  e  n.
2096/2006). 
      
      
    La Regione, invece, invocando il disposto dell'art. 4 del  D.P.R.
n.  223/89, vorrebbe estendere l'applicazione  dei  diritti  generati
dalla legislazione regionale nell'accesso ai servizi, alle  azioni  e
agli interventi oltre che per le singole persone e  per  le  famiglie
anche alle altre forme di convivenza, richiamando artificiosamente il
concetto di famiglia anagrafica; cosi' disponendo, pero', essa eccede
dalla sua competenza, violando l'art. 117, comma 2, lett. i)  ed  l),
della Costituzione, che  stabiliscono  la  competenza  esclusiva  del
legislatore statale  nelle  materie  «cittadinanza,  stato  civile  e
anagrafi» e dell'«ordinamento civile». 
    Si rileva, inoltre che la  giurisprudenza  di  codesta  la  Corte
(sent. n. 253/06) ha riconosciuto la possibilita'  delle  Regioni  di
prevedere misure di sostegno a favore  di  determinate  categorie  di
persone nell'ambito delle materie riservate alla  propria  competenza
legislativa. 
    La  norma  in   esame,   invece,   riconoscendo   indistintamente
l'applicazione dei  diritti  generati  dalla  legislazione  regionale
nell'accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi anche a  forme
di  convivenza  diverse  dalla  famiglia,  eccede  dalla   competenza
legislativa  regionale,  invadendo  quella  statale  e  violando   le
disposizioni costituzionali sopra richiamate. 
      
    d) relativamente all'art. 48, comma  4:  illegittimita'  derivata
dall'illegittimita' dell'art. 48, comma 1, per  violazione  dell'art.
117, secondo comma, lett. l), della Costituzione. 
    8.  -  Infine  il  comma  4  della  disposizione  censurata,  nel
prevedere la promozione di «azioni positive  per  il  superamento  di
eventuali   condizioni   di   svantaggio   derivanti   da    pratiche
discriminatorie», pur contenendo una  norma  programmatica  priva  di
immediato rilievo costituzionale, e' strettamente connesso  al  primo
comma  e  segue  di  conseguenza   l'interpretazione   attribuita   a
quest'ultimo. Conseguentemente risulta costituzionalmente illegittimo
per gli stessi motivi che affliggono tale disposizione.