IL GIUDICE DI PACE 
 
    Nel processo penale nei confronti di: 
        1) Mieroan Ali', nato in Iraq  in  data  1º  gennaio  1978  e
difeso d'ufficio dall'Avv. Francesco Nevoli del Foro di Taranto; 
        2) Barcar Ali, nato in Iraq in data 1º febbraio 1987 e difeso
d'ufficio dall'Avv. Cristiano Rizzi del Foro di Taranto; 
        3) Ysjo Hja, nato in Iraq in data 1º gennaio  1974  e  difeso
d'ufficio dall'Avv. Cristiano Rizzi del Foro di Taranto; 
        4) Naeef Davd, nato in Iraq in data 1º maggio 1985  e  difeso
d'ufficio dall'Avv. Cristiano Rizzi del Foro di Taranto; 
        5) Kace Rmo, nato in Iraq in data 1º  maggio  1985  e  difeso
d'ufficio dall'Avv. Cristiano Rizzi del Foro di Taranto; 
        6) Joca Ysjo, nato in Iraq in data 1º gennaio 1981  e  difeso
d'ufficio dall'Avv. Cristiano Rizzi del Foro di Taranto. 
    Tutti elettivamente domiciliati presso l'Avv. Cristiano Rizzi del
Foro di Taranto, imputati del reato di cui  all'art.  10-bis  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dall'art. 1, comma 16,
legge   15   luglio   2009,   n.   94,   perche',   quali   cittadini
extracomunitari, facevano ingresso e, comunque, si  trattenevano  nel
territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del  predetto
decreto nonche' di quelle di cui all'art. 1 legge 28 maggio 2007,  n.
68; accertato in Castellaneta il 28 settembre 2009; 
    Emana la seguente ordinanza. 
    Il Comandante della Compagnia di Castellaneta -  N.O.R.  Aliquota
Radiomobile - della Legione Carabinieri Puglia richiedeva in data  16
novembre 2009 al P.M., ai sensi dell'art. 20-bis decreto  legislativo
n. 274/2000 introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 15  luglio  2009,
n.  94,  l'autorizzazione  a  presentare  immediatamente  dinanzi  al
Giudice di pace gli odierni imputati, in quanto ritenuti responsabili
del reato di cui all'art. 10-bis decreto legislativo 25 luglio  1998,
n. 286, introdotto dall'art. 1, comma 16, legge 15  luglio  2009,  n.
94. 
    Il P.M. in data 19 novembre  2009  autorizzava  la  presentazione
degli stessi dinanzi a questo Giudice per  rispondere  del  reato  in
imputazione per l'udienza del 26 novembre 2009. 
    Alla prefata udienza gli  Avv.ti  Francesco  Nevoli  e  Cristiano
Rizzi, difensori degli imputati, con  articolate  memorie  difensive,
sollevavano questione di legittimita' costituzionale  degli  articoli
10-bis e 16, comma 1, ultimo periodo, decreto legislativo n. 286/1998
e 62-bis decreto legislativo n.  274/2000,  introdotti  dall'art.  1,
comma 16 e 17 della legge n. 94/2009, per contrasto con gli  articoli
3, 25, 27 e 117 Cost., chiedendo la sospensione del giudizio in corso
e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per il  relativo
giudizio di legittimita'. Il P.M. di udienza chiedeva il rigetto  per
manifesta  infondatezza  delle  questioni  rilevate  per  cui  questo
Giudicante riservava la decisione all'udienza del 10 dicembre 2009. 
    Alla prefata udienza l'Avv. Francesco Nevoli  presentava  rituale
istanza di differimento della trattazione del procedimento penale  de
quo per assoluta impossibilita' a comparire per concomitante  impegno
professionale. Ritenuto legittimo  l'impedimento  del  difensore,  il
processo veniva aggiornato all'odierna udienza. 
    Ad avviso di questo Giudice, gli articoli 10-bis e 16,  comma  1,
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), modificato dalla legge  15  luglio
2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e 62-bis
decreto legislativo  28  agosto  2000,  n.  274  (Disposizioni  sulla
competenza penale del giudice di pace) si pongono in contrasto con  i
parametri costituzionali enunciati dagli articoli 2, 3, l0, 25, 27  e
117 Cost. 
    Il legislatore, nell'ambito del recente  provvedimento  normativo
in  ordine  alla   sicurezza   ed   al   contrasto   all'immigrazione
clandestina, ha introdotto nel testo unico dell'Immigrazione il nuovo
reato  contravvenzionale  di  «Ingresso  e  soggiorno  illegale   nel
territorio dello Stato». Esso  sanziona  con  l'ammenda  da  5.000  a
10.000 euro la condotta dello straniero che  fa  ingresso  ovvero  si
trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni
del predetto testo unico nonche' di quelle di cui all'art. 1 legge 28
maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di  breve  durata  degli
stranieri per visite, affari, turismo e studio). 
    Prima dell'entrata in vigore della novella  legislativa,  avevano
rilevanza in sede penale unicamente il trattenimento o il  reingresso
nel  territorio  dello  Stato  dello  straniero   raggiunto   da   un
provvedimento di espulsione ovvero  gia'  espulso.  Il  nuovo  reato,
invece, punisce il sol fatto dell'ingresso e/o permanenza in  Italia,
per cui viene incriminata una condotta, attiva od omissiva, violativa
esclusivamente di un dovere di obbedienza ossia dell'obbligo  di  non
entrare nel territorio dello  Stato  se  non  rispettando  le  regole
stabilite dall'ordinamento. 
    La norma incriminatrice, quindi,  formulata  in  chiave  di  mera
disubbedienza alle norme che regolano i flussi migratori, e'  carente
dell'elemento materiale del reato, poiche' la fattispecie si realizza
in virtu' di una mera condizione personale del  reo -  lo  status  di
clandestino - a prescindere dalla condotta dell'autore del  quale  ne
viene  presunta  la  pericolosita'.  Il  comportamento   incriminato,
pertanto, viola  i  principi  di  materialita'  ed  offensivita'  del
diritto penale: per il principio di materialita',  infatti,  espresso
con la massima del nullum crimen sine actione, puo' essere reato solo
il comportamento umano estrinsecantesi nel mondo esteriore e, quindi,
munito di una  sua  oggettiva  corporeita'.  Deve  al  tal  proposito
altresi' ribadirsi che, col riferirsi l'art. 25, comma 2,  al  «fatto
commesso», la Costituzione ha inteso fondare il nostro diritto penale
proprio sul principio della materialita' del fatto. Per il  principio
di offensivita', che presuppone ed integra il precedente  (quello  di
materialita'), infatti, il reato deve sostanziarsi anche  nell'offesa
di un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza  offesa:
nullum crimen-appunto- sine infuria. Va a tal proposito rimarcata  la
matrice  costituzionale  del   predetto   principio   (offensivita'),
desumibile dai seguenti referenti normativi:  l'art.  13  Cost.,  che
tutela la liberta' personale, sicche' l'irrogazione di  una  sanzione
penale - spesso limitativa di quel bene - puo'  essere  ammessa  solo
come reazione ad una condotta che offenda  un  bene  di  pari  rango;
l'art. 25, comma 2, Cost., che  subordina  la  sanzione  penale  alla
commissione di un «fatto», sicche' e' necessario che  il  legislatore
punisca condotte materiali ed offensive e non la mera disubbidienza. 
    In realta', cio' che la nuova fattispecie incriminatrice  punisce
e'  solo  apparentemente  una  condotta  (l'azione  dell'ingresso   e
l'omissione del  mancato  allontanamento),  mentre  il  vero  oggetto
dell'incriminazione e' la mera condizione personale dello  straniero,
costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all'ingresso
ed alla successiva permanenza nel territorio dello Stato, che  e'  la
condizione tipica del migrante economico e,  dunque,  una  condizione
sociale: condizione priva di alcuna significativita' sotto il profilo
della pericolosita'  sociale  in  quanto  l'ingresso  e  la  presenza
illegali nel territorio statale non costituiscono di  per  se  stessi
fatti lesivi di un bene meritevole di tutela. 
    Ed invero, sul  punto,  la  stessa  Corte  costituzionale  si  e'
espressa in modo inequivoco con la sentenza 16 marzo 2007, n. 78,  in
tema di applicabilita' delle misure alternative alla detenzione  agli
stranieri clandestini, statuendo  che  «il  mancato  possesso  di  un
titolo  abilitativo  alla  permanenza  nel  territorio  dello  Stato»
costituisce «una condizione soggettiva» «che,  di  per  se',  non  e'
univocamente sintomatica» «di una particolare pericolosita' sociale». 
    Il  Giudice  delle  leggi,  pertanto,  aveva  gia'   offerto   al
legislatore con la sentenza 28 dicembre 1995, n. 519 (declaratoria di
incostituzionalita' del reato  di  «mendicita'»,  previsto  dall'art.
670,  comma  1,  c.p.)  dei  criteri  guida   cui   uniformarsi,   ma
evidentemente essi sono stati ignorati: «gli  squilibri  e  le  forti
tensioni che  caratterizzano  le  societa'  piu'  avanzate  producono
condizioni di estrema emarginazione, si' che [...] non  si  puo'  non
cogliere con preoccupata  inquietudine  l'affiorare  di  tendenze,  o
anche soltanto di tentazioni, volte a «nascondere»  la  miseria  e  a
considerare le persone in condizioni di poverta'  come  pericolose  e
colpevoli». E nella stessa sentenza si  legge  ancora  «la  coscienza
sociale ha compiuto un ripensamento  a  fronte  di  comportamenti  un
tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e  la
societa'  civile  consapevole  dell'insufficienza  dell'azione  dello
Stato  ha  attivato   autonome   risposte,   come   testimoniano   le
organizzazioni di volontariato  che  hanno  tratto  la  loro  ragione
d'essere,  e  la  loro  regola,  dal  valore   costituzionale   della
solidarieta'». 
    Questo spirito solidaristico, riveniente dall'art. 2  Cost.,  che
«riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo» e  «richiede
l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  politica,
economica e sociale», dovrebbe  quindi  di  per  se  stesso  impedire
l'adozione di misure puramente repressive per risolvere  il  problema
dell'immigrazione: con la previsione indiscriminata della  illiceita'
dell'immigrazione clandestina,  infatti,  si  provoca  unicamente  il
mutamento dell'atteggiamento dei cittadini in  senso  contrario  alla
societa' aperta e solidale, costruita sulla promozione di coloro  che
versano in condizioni svantaggiate. 
    La configurazione del reato di cui all'art.  10-bis  cit.  viola,
pertanto, il principio di solidarieta' sancito dall'art. 2 Cost. 
    Determina, poi, un'irragionevole disparita'  di  trattamento,  in
violazione dell'art. 3 Cost., la mancata attribuzione  di  rilevanza,
in seno alla nuova fattispecie criminosa, ad eventuali  «giustificati
motivi», che potrebbero aver determinato le condotte punite, come  e'
invece espressamente previsto nell'analoga ipotesi delittuosa di  cui
all'art. 14, comma 5-ter, decreto legislativo n. 286/1998. 
    La mancata previsione dell'esimente della permanenza  determinata
da  giustificato  motivo,   infatti,   non   consente   all'Autorita'
giudiziaria di valutare caso per caso  la  possibile  sussistenza  di
motivazioni riconducibili a precetti costituzionali, quali ad es.  la
salute o la famiglia: l'esclusione della punibilita' per giustificato
motivo, pertanto, denota la irragionevolezza della nuova  fattispecie
penale,  che  presuppone  per  tutti  gli  stranieri  irregolari  una
condizione di  pericolosita'  sociale,  che  dovrebbe  invece  essere
accertata  in  concreto,  cosi'  contrastando  con  il  principio  di
colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. 
    Sul punto, meritano di  essere  richiamate  le  affermazioni  del
Presidente della  Repubblica,  contenute  nella  lettera  inviata  al
Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Ministri della  giustizia
e degli interni in  occasione  della  promulgazione  della  legge  n.
94/2009: «suscita in me forti  perplessita'  la  circostanza  che  la
nuova ipotesi di trattenimento indebito non preveda l'esimente  della
permanenza determinata da «giustificato motivo».  Come  correttamente
ha rilevato il Capo dello Stato, anche la Corte  costituzionale,  con
la sentenza 2 febbraio 2007,  n.  22  (oltre  che  con  pronuncia  n.
5/2004) ha sottolineato il rilievo che la esimente puo' avere ai fini
della «tenuta costituzionale» di disposizioni normative del genere di
quella recentemente introdotta. 
    Ma la  irragionevole  disparita'  di  trattamento  tra  la  nuova
fattispecie e  quella  di  cui  all'art.  14,  comma  5-ter,  decreto
legislativo n. 286/1998, si rinviene anche sotto altri  profili.  Con
l'attribuzione della competenza a conoscere della  nuova  fattispecie
al giudice di pace, risulta disegnato un  sottosistema  sanzionatorio
piu' gravoso di quello  previsto  per  il  piu'  grave  delitto,  non
essendo possibile ne' la concessione della  sospensione  condizionale
della pena, ne' una riduzione di pena conseguente all'adozione di  un
procedimento speciale, inapplicabili  ex  articoli  2  e  60  decreto
legislativo n. 274/2000. 
    Sotto il profilo sanzionatorio - considerato nel suo  complesso -
invece, la pena prevista, che e' la  pena  pecuniaria,  e'  priva  di
qualunque  efficacia  deterrente,  in  quanto  chi  e'  costretto  ad
emigrare da condizioni di vita insostenibili, per sfuggire alle quali
e' pronto anche a sfidare la morte, non recedera' certamente dai suoi
intenti per evitare che gli venga comminata  un'ammenda,  per  quanto
elevata essa possa essere. 
    L'immigrato contravventore, inoltre, non puo' beneficiare neanche
della causa estintiva dell'oblazione, che  e'  espressamente  esclusa
dalla norma, al contrario di  quanto  previsto  per  tutte  le  altre
fattispecie di analoga natura contravvenzionale. 
    Ma vi e' di piu': ai sensi dell'art. 16  decreto  legislativo  n.
286/1998, il giudice  puo'  sostituire  la  pena  pecuniaria  con  la
sanzione sostitutiva dell'espulsione. Ebbene,  si  tratta  dell'unico
caso nel nostro ordinamento di  misura  sostitutiva  che,  in  quanto
incidente sulla  liberta'  personale  dell'imputato,  e'  piu'  grave
rispetto alla pena sostituita avente natura pecuniaria. 
    Ne consegue che risulta frustrato il finalismo rieducativo  della
pena di cui all'art. 27 Cost. 
    Merita altresi' evidenziare che il sistema creato dal legislatore
del 2009 ha creato anche un cortocircuito in quanto ha determinato un
accavallamento del doppio binario, amministrativo e penale, che rende
il ricorso a quest'ultimo completamente ingiustificato. L'espulsione,
infatti, e' comminata  gia'  in  via  amministrativa  e  per  la  sua
adozione non e' necessario il nulla  osta  dell'Autorita'  competente
per l'accertamento del reato per cui l'ambito di  applicazione  della
nuova fattispecie risulta coincidere perfettamente con  quello  della
preesistente misura amministrativa (dell'espulsione). 
    Ne  consegue  l'inutilita'  dello  strumento  penale  in   quanto
l'evidente obiettivo perseguito dalla novella, quello di  allontanare
lo straniero irregolare, e' gia' adeguatamente  perseguibile  con  la
sola misura amministrativa dell'espulsione. 
    Non va, inoltre, trascurato che,  avuta  notizia  dell'esecuzione
dell'espulsione, il Giudicante e' tenuto a  pronunciare  sentenza  di
non luogo a procedere, ex art. 10-bis, comma 5,  decreto  legislativo
n. 286/1998, cosi' dichiarando l'epilogo di un processo che e'  valso
soltanto a gravare sulle tasche dei cittadini. 
    Si dubita anche della  legittimita'  costituzionale  della  norma
impugnata rispetto all'art. 10 Cost., poiche' la configurazione  come
reato del soggiorno non regolare dello straniero nel territorio dello
Stato contrasta con i principi affermati in materia  di  immigrazione
nel  diritto  internazionale  internazionalmente  riconosciuto,   non
rilevando  a  tal  fine  la  ratifica  di  tali  impegni   da   parte
dell'Italia. 
    La  regolamentazione  dei  fenomeni   migratori   e'   certamente
un'esigenza legittima, affermata sia nelle convenzioni internazionali
che  nelle  legislazioni  nazionali.  E'  altrettanto  legittima   la
previsione di sanzioni penali a carico degli stranieri che  risultino
contravventori rispetto a specifici obblighi o divieti  loro  imposti
dalle Autorita' ove venga  loro  negato  o  limitato  il  diritto  ad
entrare o a  soggiornare  nel  territorio  di  uno  stato.  Ma  nella
consapevolezza che  il  fenomeno  dell'immigrazione  e'  estremamente
complesso e costituisce  comunque  manifestazione  di  situazioni  di
poverta', di  oppressione,  diffuse  in  ampie  aree  del  mondo,  le
convenzioni internazionali guardano alla condizione dello  straniero,
anche se «non regolare», con comprensione e benevolenza. Il  migrante
abbandona la propria terra e cerca una nuova patria  per  sfuggire  a
situazioni di estrema miseria  e  ad  attentati  al  proprio  «essere
umano»: egli non puo' essere identificato in  un  possibile  o  certo
criminale ma esclusivamente in un cittadino del  mondo  che  anela  a
condizioni di vita «umane» per se' e per la propria famiglia. 
    Espressioni   di   questo   atteggiamento   si   trovano    nella
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (articoli 13,  14  e  23),
approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10  dicembre
1948, nella Convenzione O.I.L. sui lavoratori  migranti  n.  143/1975
(art. 1), ratificata con  legge  n.  158/1951,  e  nella  Convenzione
internazionale sulla protezione dei diritti  di  tutti  i  lavoratori
emigranti e dei membri  delle  loro  famiglie  (articoli  19  e  24),
approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18  dicembre
1990. 
    Anche sotto questo profilo la nuova normativa appare  contrastare
con la Costituzione. 
    Si dubita ancora della legittimita'  costituzionale  della  norma
impugnata rispetto all'art. 10 Cost. e  117  Cost.,  con  riferimento
agli  obblighi  internazionali  assunti  dall'Italia  in  materia  di
trattamento  dei  migranti.  Come  rilevato  dalla  Consulta  con  la
sentenza 24 ottobre  2007,  n.  349,  da  tale  norma  costituzionale
discende «l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare le  norme
poste  dai  trattati  e  dalle  convenzioni  internazionali,  con  la
conseguenza che la norma nazionale incompatibile  con  gli  «obblighi
internazionali» di cui all'art. 117, comma 1, viola per  cio'  stesso
tale parametro costituzionale, che realizza  un  rinvio  mobile  alla
norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale da' vita e
contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati.  Ne
consegue che al giudice comune spetta interpretare la  norma  interna
in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei
quali cio' sia permesso dai testi delle norme e qualora cio' non  sia
possibile, ovvero qualora dubiti  della  compatibilita'  della  norma
interna con la disposizione convenzionale «interposta»,  proporre  la
relativa  questione  di  legittimita'  costituzionale   rispetto   al
parametro dell'art. 117, comma 1, Cost.». 
    Occorre, pertanto, esaminare la legittimita' costituzionale delle
norme impugnate attraverso il  loro  confronto  con  norme  contenute
negli accordi internazionali stipulati dall'Italia. 
    A tal proposito, viene in rilievo, in particolare, il «Protocollo
addizionale  della  Convenzione  delle  Nazioni   Unite   contro   la
criminalita' organizzata transnazionale per combattere il traffico di
migranti», sottoscritto nel corso della conferenza di Palermo  (12-15
dicembre 2000). Nello specifico, l'art. 6 del Protocollo prevede  che
«ogni Stato Parte  adotta  misure  legislative...  per  conferire  il
carattere di reato ai  sensi  del  suo  diritto  interno»  ad  alcune
condotte (traffico di migranti, fabbricazione di falsi  documenti  di
viaggio, fatto di permettere ad una persona che non  e'  cittadina  o
residente  permanente  di  rimanere  nello  Stato  interessato  senza
soddisfare i  requisiti  necessari  per  permanere  legalmente  nello
Stato,  ecc.),  mentre  l'art.  5  stabilisce  che  «i  migranti  non
diventano  assoggettati  all'azione  penale  fondata   sul   presente
Protocollo per il fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui
all'art. 6» e l'art. 16  obbliga  gli  Stati  contraenti  a  prendere
«misure  adeguate,  comprese  quelle  di  carattere  legislativo   se
necessario, per preservare e tutelare i  diritti  delle  persone  che
sono state oggetto delle condotte  di  cui  all'art.  6»,  nonche'  a
fornire  «un'assistenza  adeguata  ai  migranti  la   cui   vita,   o
incolumita', e' in pericolo dal fatto di essere stati  oggetto  delle
condotte di cui all'art. 6». 
    La norma impugnata,  quindi,  che  comporta  l'incriminazione  di
persone che si e' assunto l'impegno di assistere e proteggere,  versa
in insanabile contraddizione con le disposizioni appena enunciate. 
    Le questioni di legittimita' enunciate appaiono a questo  Giudice
serie e comunque non manifestamente infondate.  Esse,  inoltre,  sono
rilevanti nel processo perche' il loro accoglimento  da  parte  della
Corte   costituzionale,   con   la   conseguente   declaratoria    di
illegittimita' delle norme  denunciate,  comporterebbe  l'assoluzione
degli  imputati.  Il  presente  giudizio,  quindi,  non  puo'  essere
definito   indipendentemente   dalla   risoluzione   delle   suddette
questioni.