Sentenza nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d'appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. Visti gli atti di costituzione di G.M. ed altro, di E.O. ed altri nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, dell'Associazione radicale Certi Diritti, e di C.M. ed altri (fuori termine); Udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 2010 il giudice relatore Alessandro Criscuolo; Uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l'Associazione radicale Certi Diritti e per M.G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per l'Associazione radicale Certi Diritti, per G.M. ed altro e per C.M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D'Amico per l'Associazione radicale Certi Diritti, per G.M. ed altro e per E.O. ed altri e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso». Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G.M. ed S.G., entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell'art. 98 di detto codice, avverso l'atto del 3 luglio 2008, col quale l'ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta. Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perche' in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l'istituto del matrimonio nell'ordinamento giuridico italiano «e' inequivocabilmente incentrato sulla diversita' di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall'insieme delle disposizioni che disciplinano l'istituto medesimo, del quale tale diversita' «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l'ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, e' giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l'insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo l'orientamento della giurisprudenza. L'atto oggetto dell'opposizione cita anche un parere del Ministero dell'interno, in data 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possibilita' di trascrivere un atto di matrimonio contratto all'estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non e' trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non e' previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all'ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007. Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, ne' un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell'interno si riferirebbero all'ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicche' andrebbero disapplicati. In ogni caso, l'interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa. Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all'ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione di legittimita' costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost. Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell'ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non e' ne' previsto ne' vietato espressamente. E' certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all'epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia. Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l'istituto del matrimonio, cosi' come previsto nell'attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se e' vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d'incostituzionalita', si riferiscono al marito e alla moglie come "attori" della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)». Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate non e' possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare un'estensione dell'istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna». D'altra parte, prosegue il rimettente, «non si puo' ignorare il rapido trasformarsi della societa' e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si e' assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all'evoluzione della cultura e della civilta', chiedono tutela, imponendo un'attenta meditazione sulla persistente compatibilita' dell'interpretazione tradizionale con i principi costituzionali». Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro e' quello di cui all'art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioe' «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione. Infatti, la famiglia e' la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalita' dell'individuo e vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all'interno della societa' e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili mediante l'esercizio dell'autonomia negoziale. Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 - Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 - artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonche' in ambito nazionale (art. 2 Cost.). La liberta' di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell'autonomia e dell'individualita', sicche' si risolve in una scelta sulla quale lo Stato non puo' interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili. L'unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe, pero', di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina di tale istituto nell'ordinamento italiano, ponendo l'accento sulla necessita' di valutare l'interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo. Il rimettente, poi, prende in esame l'art. 3 Cost., rilevando che, poiche' il diritto di contrarre matrimonio e' un momento essenziale di espressione della dignita' umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l'orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d'intervenire in caso d'impedimenti al relativo esercizio. Pertanto, se la finalita' perseguita dall'art. 3 Cost. e' quella di vietare irragionevoli disparita' di trattamento, la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, cosi' seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico ne' illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a confronto con l'analoga situazione delle persone transessuali che, ottenuta la rettifica dell'attribuzione del sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformita' a Costituzione della citata normativa e' stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del 1985). Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati dell'istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare, valorizzando cosi' l'orientamento psicosessuale della persona». In questo quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il matrimonio e' precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare. Le opinioni contrarie al riconoscimento della liberta' matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perche' si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni in danno delle donne. Del resto, «per i diritti degli omosessuali, cosi' come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive». Il Tribunale di Venezia, in relazione all'art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non e' quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di «diritto naturale», bensi' quello di affermare la preesistenza e l'autonomia della famiglia rispetto allo Stato, cosi' imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all'Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia. Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalita' dell'art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall'evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a tutela dell'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonche' la riforma attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall'essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si e' al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare. Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano l'implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacita' procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacita' di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l'assenza di tale capacita' come condizione d'invalidita' o causa di scioglimento del matrimonio, sicche' quest'ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti. Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel dettato dell'art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al quale valutare la costituzionalita' del divieto. Infine, il rimettente richiama l'art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all'art. 8, la Corte europea dei diritti dell'uomo avrebbe accolto una nozione di «vita privata» e di tutela dell'identita' personale non limitata alla sfera individuale bensi' estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d'impedire la piena realizzazione personale. E' citata la sentenza Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario. Il Tribunale di Venezia pone l'accento sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali dell'Unione europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell'ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell'ordinanza). Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni con civilta' giuridica affine a quella italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso e' stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potesta' sui figli e all'adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali. Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perche' l'applicazione delle norme censurate non e' superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa. 2. - I signori G.M. e S.G., si sono costituiti nel giudizio di legittimita' costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio 2009. Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell'ordinanza di rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioe' che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualita' dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall'attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica dell'istituto sul sistema civilistico. La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Ne' si potrebbe dedurre che l'eterosessualita' sia un carattere indefettibile dell'istituto matrimoniale interpretando l'art. 29 Cost. a partire dalla lettera del codice civile vigente, perche' quell'articolo non costituzionalizza i caratteri dell'istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29 poiche' tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l'unione solo fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti». Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l'intera Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole «matrimonio» e «famiglia», utilizzate nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da cio' deriva che, se nella nostra societa' anche due persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalita', ma fa si' che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtu' della norma costituzionale. La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2 Cost.), perche' nelle unioni di fatto vi e' una chiara scelta delle parti di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale liberta' non sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no. Richiamata la nozione di famiglia come «societa' naturale», contenuta nell'ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l'interesse protetto dall'art. 29 Cost. e', in primo luogo, il diritto all'autodeterminazione dell'individuo, al riparo da indebite ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato. Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l'eterosessualita' a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall'art. 29 Cost., tanto da escludere dall'ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna considerazione. Cio' vorrebbe dire che non si e' optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore dignita' sociale e giuridica. Tale stato di cose, pero', non potrebbe impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi dell'ordinamento, quali l'eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali. Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota l'istituto matrimoniale di una caratteristica (l'eterosessualita'), che l'art. 29 Cost. non suggerisce affatto, cosi' impedendo alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell'ambito della famiglia legittima. Ne' sarebbe possibile che «societa' naturale» sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe piu' istituzionalmente orientato a tale finalita'. Dal 1975 l'impotenza non costituisce causa d'invalidita' del matrimonio, se non quando sia materia di errore in cui sia incorso l'altro coniuge (art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell'eta', tale attitudine piu' non hanno. In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e cio' dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell'ambito dell'art. 29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio, l'unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in base all'art. 143 cod. civ., fini ai quali e' estranea la prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare. Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l'altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia sotto il profilo della liberta' di contrarre il matrimonio con la persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della liberta' di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due liberta'. Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalita' di quel diritto, nonche' le prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono l'accento sull'esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione personale che e' l'omosessualita'. E cio' non in astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta sull'ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto piu' se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensi' di una mera prassi interpretativa. Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all'interno di una relazione giuridica qualificata qual e' il matrimonio, una persona del proprio sesso». Pertanto l'interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un limite irragionevole all'esercizio della liberta' personale, disconoscendo la capacita' della persona di scegliere cio' che e' meglio per se' in una dimensione relazionale. Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l'art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilita' giuridica delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono l'infondatezza, rilevando che il detto articolo non puo' essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali dell'ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici dell'estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella nostra societa', non piu' caratterizzata da un'omogeneita' sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e l'inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o liberta' fondamentale in virtu' di una sua condizione personale. E cio' senza considerare la contemporanea violazione dell'art. 2 Cost., perche' in tal modo s'impedisce l'esercizio del diritto alla piena realizzazione di se'. Inoltre, le parti private pongono l'accento sulla normativa comunitaria e internazionale gia' richiamata nell'ordinanza di rimessione. Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi. Ribadito che si e' in presenza di una prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima dell'entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l'esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perche' il diritto al matrimonio sussiste gia' ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali. Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un'adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull'impatto dell'attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale. 3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimita' costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata. La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa riguardante l'istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz'altro all'unione fra persone di sesso diverso. Il requisito della diversita' del sesso, che si ricava direttamente dall'art. 107 cod. civ., nonche' da altre numerose disposizioni dello stesso codice, e' tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l'esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell'Avvocatura generale, l'istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione). Il richiamo all'art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo ne' conferente. Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo. La collocazione dell'art. 2 Cost. fra i «principi fondamentali» ed invece la collocazione dell'art. 29 nel titolo II tra i «rapporti etico-sociali» costituirebbero non soltanto l'argomentazione testuale, ma anche l'argomentazione piu' significativa per escludere la fondatezza dell'assunto contenuto nell'ordinanza di rimessione, non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello stesso sesso. Infatti, la dottrina piu' recente tende a ricondurre la tutela delle coppie omosessuali nell'ambito della tutela delle coppie di fatto. Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui all'art. 3 Cost., perche' questo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi. La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51». La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel caso in esame, perche' un trattamento normativo differenziato potrebbe ritenersi «ragionevole», in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori costituzionali. Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, perche' il problema della «identita' di sesso biologico» in quell'ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa. Quanto all'art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come societa' naturale fondata sul matrimonio», delinea una «relazione biunivoca» tra le nozioni in essa richiamate e, altresi', «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell'istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorche' avente caratteri analoghi». Ad avviso dell'Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi nell'Assemblea costituente in sede di elaborazione dell'art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma. La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell'istituto familiare, identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce all'art. 29 un contenuto mutevole con l'evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia pero' caratterizzato «da un nucleo duro», che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell'elemento della diversita' di sesso fra i coniugi» e percio' mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e distante dall'iniziale formulazione. Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. La difesa dello Stato premette che l'ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si e' limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facolta' di adeguamento delle legislazioni nazionali. La liberta' lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, percio', a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali. Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l'art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l'esercizio di tale diritto. Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l'art. 12 non solo riafferma che l'istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l'esercizio del relativo diritto. In definitiva, al di la' del carattere eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei, l'elemento che li accomuna sarebbe la «centralita' del legislatore» nel processo d'inclusione delle coppie omosessuali nell'ambito degli effetti legali delle discipline di tutela. Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso un'operazione lessicale di mera sostituzione delle parole «marito» e «moglie», con la parola «coniugi», perche' in realta' si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al legislatore. 4. - La Corte di appello di Trento, con l'altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimita' costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell'art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l'opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell'ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell'ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale. La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l'ordine all'ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimita' costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti. Dopo aver ricordato l'ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all'epoca nella quale sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si e' verificata un'inarrestabile trasformazione della societa' e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate». In questo quadro, ad avviso della Corte trentina e' necessario chiedersi se l'istituto del matrimonio, nell'attuale disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali. L'interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. In sostanza, poiche' il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione della dignita' umana (garantito costituzionalmente dall'art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi e' da chiedersi se sia legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l'orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in caso di impedimenti all'esercizio di esso». Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione, perche' la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull'esito del giudizio a quo. Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente infondata, perche' «quanto sopra osservato non puo' essere superato da un'interpretazione secondo cui il matrimonio deve e puo' essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale, principio secondo taluni ricavabile dall'art. 29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come societa' naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non puo' prescindere da tale realta' sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli individui e, dall'altro, afferma che la famiglia e' fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come granaio dello Stato». Ad avviso della rimettente, «l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell'ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in forza dell'art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacita' procreativa dei coniugi sicche', semmai, e' anche in relazione a tale norma di rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi». 5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l'ordinanza del Tribunale di Venezia. 6. - Si sono altresi' costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l'ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O.E. e L.L. e signore Z.E. e O.M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e chiedendone l'accoglimento. 7. - In quest'ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l'Associazione radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante pro tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell'Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Corte d'appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale documentazione. 8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimita' costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori C.M. e G.V., P.G.B. e C.G.R., R.F.R.P.C. e R.Z. Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l'11 novembre 2009, l'ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste. Essi osservano che l'interesse proprio e diretto ad intervenire e' sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l'atto di intervento e' depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell'udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale indipendente dalla volonta' dei ricorrenti e comprovata da documenti formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto dell'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che l'intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere rimessi in termini. Inoltre, essi affermano che l'intervento deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole all'ammissibilita', caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di legittimita' costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse pubblico: quello alla decisione sulla legittimita' costituzionale della legge». In questo quadro, l'interesse diretto, specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in dubbio, perche' la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio gia' richieste e rifiutate dall'ufficiale di stato civile in base al rilievo dell'inammissibilita', nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle gia' in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione. 9. - In prossimita' dell'udienza di discussione le parti private nei due giudizi di legittimita' costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l'Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale di Venezia, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso». Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell'art. 98 di detto codice, avverso l'atto col quale l'ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l'istituto del matrimonio, nell'ordinamento giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversita' di sesso tra i coniugi. Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, ne' un suo divieto espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza, rimarcando che l'interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost. Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell'ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non e' previsto ne' vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l'istituto del matrimonio, cosi' come previsto nell'attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell'istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna». D'altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide trasformazioni della societa' e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all'evoluzione della cultura e della civilta', chiedono tutela, imponendo un'attenta meditazione sulla persistente compatibilita' dell'interpretazione tradizionale con i principi costituzionali. Cio' posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perche' l'applicazione delle norme censurate non e' superabile nel percorso logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa. 2. - La Corte di appello di Trento, con l'altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimita' costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell'articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l'opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell'ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell'ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale. La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l'ordine all'ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all'esame della questione di legittimita' costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia. 3. - I due giudizi di legittimita' costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza. 4. - In via preliminare, deve essere confermata l'ordinanza, adottata nel corso dell'udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell'Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C.M. e G.V., P.G.B. e C.G.R., R.F.R.P.C. e R.Z. Cio' in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell'ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, ne' siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresi' riguardo al rilievo che l'ammissibilita' dell'intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimita'. 5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all'art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perche' diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002). 6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l'istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all'unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all'azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si puo' menzionare l'art. 5, primo e secondo comma, della legge 1º dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonche' dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile. In sostanza, l'intera disciplina dell'istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversita' di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l'ordinanza del Tribunale veneziano. Nello stesso senso e' la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l'identita' di sesso sia causa d'inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidita'. La rara giurisprudenza di legittimita', che (peraltro, come obiter dicta) si e' occupata della questione, ha considerato la diversita' di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l'esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976). 7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d'illegittimita' della normativa censurata (con eventuale applicazione dell'art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 - Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si e' posto il problema del matrimonio omosessuale. 8. - L'art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita' e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta' politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunita', semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione e' da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento - che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. E' sufficiente l'esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversita' delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell'ambito applicativo dell'art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalita', individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilita' d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (come e' avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Puo' accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessita' di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte puo' garantire con il controllo di ragionevolezza. 9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non e' fondata. Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest'ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come societa' naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio e' ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unita' familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita «societa' naturale» (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere). Cio' posto, e' vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere «cristallizzati» con riferimento all'epoca in cui la Costituzione entro' in vigore, perche' sono dotati della duttilita' propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell'ordinamento, ma anche dell'evoluzione della societa' e dei costumi. Detta interpretazione, pero', non puo' spingersi fino al punto d'incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata. Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benche' la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un'articolata disciplina nell'ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, e' inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si e' visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignita' e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non puo' essere superato per via ermeneutica, perche' non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensi' di procedere ad un'interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensi' intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. Non e' casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parita' di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalita' procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall'unione omosessuale. In questo quadro, con riferimento all'art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non puo' considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Cio' sia perche' essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perche' la normativa medesima non da' luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio. Il richiamo, contenuto nell'ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non e' pertinente. La normativa ora citata - sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiaro' inammissibili o non fondate le questioni di legittimita' costituzionale all'epoca promosse - prevede la rettificazione dell'attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall'atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1). Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, percio', inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l'esigenza fondamentale da soddisfare e' quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto e' indispensabile, di regola, l'intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona e' ammessa al matrimonio per l'avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento. 10. - Resta da esaminare il parametro riferito all'art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell'ordinanza del Tribunale di Venezia). Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l'accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiaro' contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l'operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l'analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresi' la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) e, in particolare, l'art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l'art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l'art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell'ordinamento di molti Stati, aventi civilta' giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Cio' posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non e' pertinente, perche' essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l'operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale pero' non poteva sposarsi «perche' la legge l'ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell'ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, gia' si e' notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialita', dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame. Orbene, l'art. 12 dispone che «Uomini e donne in eta' maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto». A sua volta l'art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». In ordine a quest'ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza e' stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell'art. 6, comma 1, del Trattato sull'Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L'Unione riconosce i diritti, le liberta' e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l'entrata in vigore del Trattato pone nell'ambito dell'ordinamento dell'Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all'art. 51 della Carta, che ne disciplina l'ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l'art. 9 della Carta (come, del resto, l'art. 12 della CEDU), nell'affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l'autorita' del praesidium della Convenzione che l'aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l'altro) che «L'articolo non vieta ne' impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso». Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, e' comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna. Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia e' affidata alla discrezionalita' del Parlamento. Ulteriore riscontro di cio' si desume, come gia' si e' accennato, dall'esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, piu' frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilita' al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso. Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d'inammissibilita' della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.