Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt.  93,  96,  98,
107, 108, 143, 143-bis e 156-bis  del  codice  civile,  promossi  dal
Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009  e  dalla  Corte
d'appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn.
177 e 248 del registro ordinanze 2009  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, 1ª serie speciale,  dell'anno
2009. 
    Visti gli atti di costituzione di G.M. ed altro, di E.O. ed altri
nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, dell'Associazione radicale Certi  Diritti,  e  di  C.M.  ed
altri (fuori termine); 
    Udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 2010 il giudice relatore
Alessandro Criscuolo; 
    Uditi  gli  avvocati  Alessandro  Giadrossi  per   l'Associazione
radicale Certi Diritti e per M.G. ed altro, Ileana Alesso  e  Massimo
Clara per l'Associazione radicale Certi Diritti, per G.M. ed altro  e
per C.M. ed altri,  Vittorio  Angiolini,  Vincenzo  Zeno-Zencovich  e
Marilisa D'Amico per l'Associazione radicale Certi Diritti, per  G.M.
ed altro e per E.O. ed  altri  e  l'avvocato  dello  Stato  Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Tribunale di  Venezia  in  composizione  collegiale,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in  riferimento  agli
articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della  Costituzione,  questione
di legittimita' costituzionale degli articoli 93, 96, 98,  107,  108,
143, 143-bis,  156-bis  del  codice  civile,  «nella  parte  in  cui,
sistematicamente interpretati,  non  consentono  che  le  persone  di
orientamento omosessuale possano  contrarre  matrimonio  con  persone
dello stesso sesso». 
    Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in  un
giudizio promosso  dai  signori  G.M.  ed  S.G.,  entrambi  di  sesso
maschile, in opposizione, ai sensi  dell'art.  98  di  detto  codice,
avverso l'atto del 3 luglio 2008,  col  quale  l'ufficiale  di  stato
civile  del  Comune  di  Venezia  ha  rifiutato  di  procedere   alla
pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta. 
    Il   funzionario,   infatti,   ha   ritenuto    illegittima    la
pubblicazione,  perche'  in  contrasto  con  la  normativa   vigente,
costituzionale e  ordinaria,  in  quanto  l'istituto  del  matrimonio
nell'ordinamento giuridico italiano «e' inequivocabilmente incentrato
sulla diversita' di  sesso  dei  coniugi»,  come  dovrebbe  desumersi
dall'insieme delle disposizioni che disciplinano l'istituto medesimo,
del quale tale diversita'  «costituisce  presupposto  indispensabile,
requisito fondamentale, a tal punto che l'ipotesi contraria, relativa
a  persone  dello  stesso  sesso,  e'  giuridicamente  inesistente  e
certamente estranea alla definizione del matrimonio,  almeno  secondo
l'insieme   delle   normative   tuttora   vigenti»,   anche   secondo
l'orientamento della giurisprudenza. L'atto oggetto  dell'opposizione
cita anche un parere del Ministero dell'interno, in  data  28  luglio
2004, nel  quale  si  legge  che  «in  merito  alla  possibilita'  di
trascrivere un atto di matrimonio contratto  all'estero  tra  persone
dello stesso sesso, si  precisa  che  in  Italia  tale  atto  non  e'
trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento  non  e'  previsto  il
matrimonio tra  soggetti  dello  stesso  sesso  in  quanto  contrario
all'ordine  pubblico»;  affermazione  ribadita  con  circolare  dello
stesso Ministero in data 18 ottobre 2007. 
    Il  Tribunale  veneziano  richiama  gli  argomenti   svolti   dai
ricorrenti, i quali hanno rilevato che  nel  nostro  ordinamento  non
esisterebbe una nozione di matrimonio, ne'  un  divieto  espresso  di
matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del
Ministero   dell'interno   si   riferirebbero   all'ordine   pubblico
internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero
contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicche'  andrebbero
disapplicati. In ogni caso, l'interpretazione letterale  delle  norme
del  codice  civile,   posta   a   fondamento   del   diniego   delle
pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana  ed,
in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma,  13  e  29  di
questa. 
    Il  rimettente  prosegue  osservando  che,  sulla  base  di  tali
argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale,
di ordinare all'ufficiale di stato civile del Comune  di  Venezia  di
procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via  subordinata,  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale degli  artt.  107,
108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli  artt.  2,
3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost. 
    Tanto   premesso,   il   Tribunale   di   Venezia   rileva   che,
nell'ordinamento vigente, il  matrimonio  tra  persone  dello  stesso
sesso non e'  ne'  previsto  ne'  vietato  espressamente.  E'  certo,
tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del
1975 non si sono  posti  la  questione  del  matrimonio  omosessuale,
all'epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia. 
    Peraltro, «pur non  esistendo  una  norma  definitoria  espressa,
l'istituto  del  matrimonio,   cosi'   come   previsto   nell'attuale
ordinamento  italiano,  si  riferisce   indiscutibilmente   solo   al
matrimonio tra persone di sesso diverso. Se e'  vero  che  il  codice
civile  non  indica  espressamente  la  differenza  di  sesso  tra  i
requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle
menzionate  nel  ricorso  e  sospettate   d'incostituzionalita',   si
riferiscono al marito e alla moglie come "attori" della  celebrazione
(artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt.  143  e
ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)». 
    Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme
indicate non e' possibile, allo  stato  delle  disposizioni  vigenti,
operare un'estensione dell'istituto del matrimonio  anche  a  persone
dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai
giudici  (diversi  da  quello  costituzionale),  «a  fronte  di   una
consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un
uomo e di una donna». 
    D'altra parte, prosegue il rimettente, «non si puo'  ignorare  il
rapido trasformarsi della  societa'  e  dei  costumi  avvenuto  negli
ultimi decenni, nel corso dei quali si e'  assistito  al  superamento
del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale,  tradizionale
e  al  contestuale  sorgere  spontaneo  di  forme   diverse,   seppur
minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si  ispirano  al
modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere  considerate  e
disciplinate.  Nuovi  bisogni,  legati  anche  all'evoluzione   della
cultura e  della  civilta',  chiedono  tutela,  imponendo  un'attenta
meditazione  sulla  persistente  compatibilita'  dell'interpretazione
tradizionale con i principi costituzionali». 
    Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro  e'  quello  di
cui all'art.  2  Cost.,  nella  parte  in  cui  riconosce  i  diritti
inviolabili dell'uomo, non soltanto nella sua  sfera  individuale  ma
anche, e forse soprattutto, nella sua  sfera  sociale,  cioe'  «nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'», delle quali la
famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione. 
    Infatti, la famiglia e'  la  formazione  sociale  primaria  nella
quale si esplica la  personalita'  dell'individuo  e  vengono  quindi
tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello
di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all'interno
della societa' e che attribuisce un insieme di diritti  e  di  doveri
del  tutto  peculiari  e  non   sostituibili   mediante   l'esercizio
dell'autonomia negoziale. 
    Il diritto di sposarsi configura un  diritto  fondamentale  della
persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e  16  della
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, artt. 8 e 12
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848
- Ratifica ed esecuzione della Convenzione per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il  4
novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla  Convenzione  stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952 - artt.  7  e  9  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000), nonche'  in  ambito  nazionale  (art.  2  Cost.).  La
liberta' di sposarsi o di non sposarsi, e  di  scegliere  il  coniuge
autonomamente,     riguarda     la     sfera     dell'autonomia     e
dell'individualita', sicche' si risolve in una scelta sulla quale  lo
Stato non puo' interferire, se non  sussistono  interessi  prevalenti
incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili. 
    L'unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si
potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di  crescere
in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche  ad  un
interesse  sociale.  Tale  interesse,  tuttavia,  potrebbe   incidere
soltanto sul diritto delle  coppie  omosessuali  coniugate  di  avere
figli  adottivi.  Si  tratterebbe,  pero',  di  un  diritto  distinto
rispetto  a  quello  di  contrarre  matrimonio,  tanto   che   alcuni
ordinamenti, pur introducendo il matrimonio  tra  omosessuali,  hanno
escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina  di  tale
istituto   nell'ordinamento   italiano,   ponendo   l'accento   sulla
necessita' di valutare l'interesse del minore adottando,  rimette  al
giudice ogni decisione al riguardo. 
    Il rimettente, poi, prende in esame  l'art.  3  Cost.,  rilevando
che, poiche'  il  diritto  di  contrarre  matrimonio  e'  un  momento
essenziale di espressione della  dignita'  umana,  esso  deve  essere
garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o  dalle
condizioni personali, come l'orientamento sessuale,  con  conseguente
obbligo per lo Stato d'intervenire in caso d'impedimenti al  relativo
esercizio. 
    Pertanto, se la finalita' perseguita dall'art. 3 Cost. e'  quella
di  vietare  irragionevoli  disparita'  di  trattamento,   la   norma
implicita che  esclude  gli  omosessuali  dal  diritto  di  contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso, cosi' seguendo il  proprio
orientamento sessuale (non patologico ne' illegale),  non  ha  alcuna
giustificazione razionale,  soprattutto  se  posta  a  confronto  con
l'analoga situazione delle  persone  transessuali  che,  ottenuta  la
rettifica dell'attribuzione del sesso ai sensi della legge 14  aprile
1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di  attribuzione  di
sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di
nascita (il Tribunale ricorda che la conformita' a Costituzione della
citata normativa e' stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 165 del 1985). 
    Secondo  il  rimettente,  le  affermazioni  contenute   in   tale
pronuncia   ben   potrebbero   ritenersi   applicabili   anche   agli
omosessuali.  Comunque,  la   legge   n.   164   del   1982   avrebbe
«profondamente  mutato  i  connotati  dell'istituto  del   matrimonio
civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso
biologico ed incapaci di procreare, valorizzando cosi' l'orientamento
psicosessuale  della  persona».  In  questo   quadro,   non   sarebbe
giustificabile la discriminazione tra omosessuali  che  non  vogliono
effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento,  ai  quali  il
matrimonio e'  precluso,  ed  i  transessuali  che  sono  ammessi  al
matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso  biologico  ed  essendo
incapaci di procreare. 
    Le  opinioni   contrarie   al   riconoscimento   della   liberta'
matrimoniale tra persone dello stesso sesso  sulla  base  di  ragioni
etiche, legate alla tradizione o alla natura, non  potrebbero  essere
condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi
familiari, sia perche' si tratterebbe di tesi pericolose, in  passato
utilizzate  per  difendere  gravi  discriminazioni  poi  riconosciute
illegittime,  come  le  disuguaglianze  tra  i  coniugi  nel  diritto
matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni  in
danno delle donne. 
    Del resto, «per i  diritti  degli  omosessuali,  cosi'  come  per
quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte,  provenienti  dal
contesto europeo e sopranazionale, a superare le  discriminazioni  di
ogni tipo, compresa quella che impedisce di  formalizzare  le  unioni
affettive». 
    Il Tribunale di Venezia, in relazione all'art. 29,  primo  comma,
Cost., osserva che il  significato  della  norma  non  e'  quello  di
riconoscere il fondamento della famiglia in  una  sorta  di  «diritto
naturale», bensi' quello di affermare la preesistenza  e  l'autonomia
della famiglia rispetto allo Stato, cosi'  imponendo  dei  limiti  al
potere del legislatore statale, come emerge dagli  atti  relativi  al
dibattito svolto in seno all'Assemblea costituente, nel ricordo degli
abusi in precedenza compiuti a  difesa  di  una  certa  tipologia  di
famiglia. 
    Peraltro, che  la  tutela  della  tradizione  non  rientri  nelle
finalita' dell'art. 29  Cost.  e  che  famiglia  e  matrimonio  siano
istituti   aperti    alle    trasformazioni,    sarebbe    dimostrato
dall'evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi.
Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia,
ricorda gli interventi di  questa  Corte  a  tutela  dell'eguaglianza
morale e giuridica dei coniugi, nonche' la  riforma  attuata  con  la
legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del  diritto  di  famiglia),  e
rileva  che  il  significato  costituzionale   di   famiglia,   lungi
dall'essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile,  si
e' al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti  sociali,  con  le
relative ripercussioni sul regime giuridico familiare. 
    Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi  che  giustificano
l'implicito divieto di matrimonio  tra  persone  dello  stesso  sesso
ricorrendo ad argomenti correlati alla  capacita'  procreativa  della
coppia ed  alla  tutela  della  procreazione.  Al  riguardo,  sarebbe
sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile  non
prevedono la capacita' di avere figli come condizione  per  contrarre
matrimonio,  ovvero  l'assenza  di  tale  capacita'  come  condizione
d'invalidita'  o  causa  di  scioglimento  del  matrimonio,   sicche'
quest'ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti. 
    Una volta escluso che il trattamento differenziato  delle  coppie
omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare  fondamento
nel dettato dell'art. 29  Cost.,  tale  norma,  nel  momento  in  cui
attribuisce  tutela  costituzionale  alla  famiglia  legittima,   non
costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del  matrimonio
tra persone  dello  stesso  sesso,  ma  anzi  dovrebbe  assurgere  ad
ulteriore parametro in base al quale  valutare  la  costituzionalita'
del divieto. 
    Infine, il rimettente richiama l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,
che  impone  al  legislatore  il  rispetto  dei   vincoli   derivanti
dall'ordinamento  comunitario  e   dagli   obblighi   internazionali.
Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8,  12  e  14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  (CEDU).  In  particolare,   con   riferimento
all'art. 8, la Corte europea dei diritti  dell'uomo  avrebbe  accolto
una nozione di «vita privata» e di  tutela  dell'identita'  personale
non limitata alla  sfera  individuale  bensi'  estesa  alla  vita  di
relazione, arrivando a configurare un dovere di  positivo  intervento
degli Stati per rimediare  alle  lacune  suscettibili  d'impedire  la
piena realizzazione personale. E' citata la sentenza Goodwin c. Regno
Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo  ha
dichiarato contrario alla Convenzione il divieto  di  matrimonio  del
transessuale con persona del suo stesso sesso originario. 
    Il Tribunale di Venezia pone l'accento sul  fatto  che  anche  la
Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della  vita  privata  e
familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art.  9),
a non essere discriminati  (art.  21),  collocandoli  tra  i  diritti
fondamentali dell'Unione europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli
atti delle Istituzioni europee, che da tempo  invitano  gli  Stati  a
rimuovere gli ostacoli che si frappongono  al  matrimonio  di  coppie
omosessuali,  ovvero  al   riconoscimento   di   istituti   giuridici
equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere  dal  loro  valore
giuridico, una presa di posizione a  favore  del  riconoscimento  del
diritto al matrimonio,  o  comunque  alla  unificazione  legislativa,
nell'ambito degli Stati  membri,  della  disciplina  dettata  per  la
famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali  (tali  atti
sono richiamati nell'ordinanza). 
    Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti  di  molte
nazioni con civilta'  giuridica  affine  a  quella  italiana,  si  va
delineando una nozione di relazioni familiari tale  da  includere  le
coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna)
il divieto di sposare persone dello stesso sesso  e'  stato  rimosso,
mentre  altri  Paesi  prevedono  istituti   riservati   alle   unioni
omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio,  a  volte
con esclusione delle disposizioni relative alla potesta' sui figli  e
all'adozione.  Fra  i  Paesi  che  ancora  non  hanno  introdotto  il
matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono  forme
di registrazione pubblica delle famiglie di  fatto,  comprese  quelle
omosessuali. 
    Sulla base delle considerazioni esposte, il  Tribunale  veneziano
perviene al convincimento  sulla  non  manifesta  infondatezza  della
questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata,  che  inoltre
giudica rilevante perche' l'applicazione delle norme censurate non e'
superabile nel percorso logico-giuridico da  compiere  per  pervenire
alla decisione della causa. 
    2. - I signori G.M. e S.G., si sono costituiti  nel  giudizio  di
legittimita' costituzionale,  con  ampia  memoria  depositata  il  20
luglio 2009. 
    Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le  mosse  ed
aver riportato il contenuto dell'ordinanza di  rimessione,  le  parti
private,  sottolineata  la  rilevanza   della   questione   proposta,
osservano   che   il   rimettente    ha    riconosciuto    un    dato
incontrovertibile, cioe' che nel  vigente  ordinamento  non  sussiste
alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso
di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualita' dello  stesso
nascerebbe da una tradizione interpretativa,  sorta  in  un  contesto
sociale  del  tutto  diverso  dall'attuale  e  tramandata   in   modo
tralaticio,  anche  per  i  riflessi  della  disciplina   canonistica
dell'istituto sul sistema civilistico. 
    La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere
di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno  fatto
altre Corti costituzionali straniere. Ne'  si  potrebbe  dedurre  che
l'eterosessualita'  sia  un  carattere  indefettibile   dell'istituto
matrimoniale interpretando l'art. 29 Cost. a  partire  dalla  lettera
del   codice   civile    vigente,    perche'    quell'articolo    non
costituzionalizza i  caratteri  dell'istituto  matrimoniale  previsti
dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione.
Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio  e,  in
ogni  caso,  «non  potrebbe  divenire  cifra  per  leggere  il   dato
costituzionale.  Sarebbe,  infatti,  una   petizione   di   principio
affermare che il codice non viola il diritto a  contrarre  matrimonio
ex art. 29 poiche' tale disposizione, alla luce  del  codice  stesso,
prevede  l'unione  solo  fra  persone  di  sesso  diverso.   Con   un
aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si  attuerebbe  una
sovversione della gerarchia delle fonti». 
    Pertanto, alla luce  del  principio  personalistico  che  pervade
l'intera   Carta   costituzionale,   bisognerebbe   individuare    il
significato delle parole «matrimonio» e  «famiglia»,  utilizzate  nel
citato art. 29.  Detta  norma  privilegia  la  famiglia  fondata  sul
matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da cio' deriva che,  se  nella
nostra societa' anche due persone dello stesso sesso possono  formare
una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non  soltanto  crea
una discriminazione priva di qualsiasi razionalita', ma  fa  si'  che
migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele  che
altrimenti spetterebbero loro in virtu' della norma costituzionale. 
    La fattispecie non sarebbe  assimilabile  alle  unioni  di  fatto
eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale  (art.  2
Cost.), perche' nelle unioni di fatto vi e' una chiara  scelta  delle
parti di non rendere  giuridico  il  progetto  di  vita  che  lega  i
conviventi, mentre per le coppie  formate  da  persone  dello  stesso
sesso tale liberta' non sussiste nella  misura  in  cui  non  possono
scegliere se sposarsi oppure no. 
    Richiamata la  nozione  di  famiglia  come  «societa'  naturale»,
contenuta nell'ordinanza di rimessione, gli esponenti  osservano  che
l'interesse protetto dall'art.  29  Cost.  e',  in  primo  luogo,  il
diritto all'autodeterminazione dell'individuo, al riparo da  indebite
ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una  persona  decida  di
realizzare se stessa in  una  relazione  familiare.  Per  le  persone
omosessuali  tale  diritto  risulterebbe,  attualmente,   del   tutto
conculcato. 
    Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano  eletto
l'eterosessualita' a caratteristica indefettibile della  famiglia,  i
cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall'art. 29  Cost.,  tanto
da escludere dall'ambito applicativo di tale norma le coppie  formate
da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che
il fenomeno sussistesse anche ai tempi della  Assemblea  costituente,
ma, in quanto socialmente non rilevante,  non  poteva  allora  essere
preso in alcuna considerazione. Cio' vorrebbe  dire  che  non  si  e'
optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale,
riservando a questa una minore dignita' sociale e giuridica. 
    Tale stato di cose, pero', non potrebbe  impedire  una  rilettura
del sistema, in considerazione  delle  mutate  condizioni  sociali  e
giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo  profilo,  del  diritto
comunitario,  ai  sensi  dell'art.  117,  primo   comma,   Cost.,   e
soprattutto   dei   principi    supremi    dell'ordinamento,    quali
l'eguaglianza (e quindi la  non  discriminazione)  e  la  tutela  dei
diritti fondamentali. 
    Le parti private proseguono osservando  che  il  diritto  vivente
connota    l'istituto    matrimoniale    di    una     caratteristica
(l'eterosessualita'), che l'art. 29  Cost.  non  suggerisce  affatto,
cosi' impedendo alle persone omosessuali di godere  pienamente  della
loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente
e socialmente nell'ambito della famiglia legittima. 
    Ne' sarebbe possibile che «societa'  naturale»  sia  intesa  come
luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non  sarebbe
piu'  istituzionalmente  orientato  a  tale   finalita'.   Dal   1975
l'impotenza non costituisce causa d'invalidita'  del  matrimonio,  se
non quando sia materia di errore in cui sia incorso  l'altro  coniuge
(art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche  le
persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione  e
quelle che, a causa dell'eta', tale attitudine piu' non hanno. 
    In definitiva,  la  procreazione  sarebbe  soltanto  un  elemento
eventuale nel rapporto coniugale e cio' dimostrerebbe quanto  lontano
sia il concetto di famiglia da accogliere  nell'ambito  dell'art.  29
Cost. rispetto  a  quello  della  tradizione  giudaico-cristiana.  Il
matrimonio sarebbe, senza dubbio, l'unione di due  esistenze,  i  cui
fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che  i  coniugi
assumono al momento della celebrazione  in  base  all'art.  143  cod.
civ., fini ai quali e' estranea la prospettiva,  soltanto  eventuale,
della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la
celebrazione  di  un  matrimonio  tutte   le   volte   in   cui   sia
naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare. 
    Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al  matrimonio
come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l'altro) la
giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato  il  diritto  stesso
sia sotto il profilo della liberta' di contrarre il matrimonio con la
persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello  della
liberta' di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza  n.  166
del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere
di queste due liberta'. 
    Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalita' di quel diritto,
nonche' le prospettive correlate al suo esercizio  anche  nel  quadro
della tutela delle minoranze  discriminate,  essi  pongono  l'accento
sull'esigenza che il citato  diritto  fondamentale  sia  garantito  a
tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si
trovi   in   quella   particolare   condizione   personale   che   e'
l'omosessualita'. E cio' non in astratto, secondo la tesi  di  quanti
ritengono che sarebbe rimessa  al  legislatore  ordinario  la  scelta
sull'ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da  persone
dello stesso sesso. In presenza di  un  diritto  fondamentale  spetta
alla  Corte  costituzionale,  o  al  giudice   di   merito   in   via
interpretativa,  rimuovere  gli  ostacoli  che  ne   impediscono   il
godimento a tutti, tanto piu' se si considera che non si sta parlando
di un divieto normativo bensi' di una mera prassi interpretativa. 
    Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa
poter  vivere  fino  in  fondo  il  proprio  orientamento   sessuale,
scegliendo  come  partner  di  vita,  all'interno  di  una  relazione
giuridica qualificata qual e' il matrimonio, una persona del  proprio
sesso». 
    Pertanto l'interpretazione  che  esclude  le  coppie  formate  da
persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti,
costituisce un  limite  irragionevole  all'esercizio  della  liberta'
personale, disconoscendo la capacita' della persona di scegliere cio'
che e' meglio per se' in una dimensione relazionale. 
    Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui  l'art.  29
Cost.  escluderebbe  la  riconoscibilita'  giuridica   delle   coppie
omosessuali, anche soltanto attraverso  un  istituto  alternativo  al
matrimonio, e ne sostengono l'infondatezza, rilevando  che  il  detto
articolo non puo' essere interpretato in  modo  da  violare  uno  dei
principii  fondamentali  dell'ordinamento  costituzionale,  ossia  il
principio di eguaglianza. Dopo  avere  argomentato  diffusamente  sul
punto, anche in  ordine  ai  profili  economici  dell'estensione  del
matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella
nostra societa', non piu' caratterizzata da un'omogeneita' sul  piano
culturale, il principio di eguaglianza deve assumere  una  dimensione
nuova, volta a favorire il pluralismo  e  l'inclusione  sociale.  Con
tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia  come  effetto
di escludere un soggetto dal  godimento  di  un  diritto  o  liberta'
fondamentale in virtu' di una sua condizione personale. E cio'  senza
considerare la contemporanea violazione dell'art. 2 Cost., perche' in
tal modo s'impedisce l'esercizio del diritto alla piena realizzazione
di se'. 
    Inoltre, le  parti  private  pongono  l'accento  sulla  normativa
comunitaria  e  internazionale  gia'  richiamata  nell'ordinanza   di
rimessione. 
    Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse  anche
la Corte costituzionale, non potrebbe  spingersi  fino  al  punto  di
accogliere  la  richiesta  dei  ricorrenti  diretta  ad  ottenere  le
pubblicazioni matrimoniali sul  presupposto  del  riconoscimento  del
loro diritto a sposarsi. 
    Ribadito che si e' in  presenza  di  una  prassi  interpretativa,
derivante  da  elementi  testuali   della   legislazione   ordinaria,
risalente a ben prima dell'entrata in vigore  della  Costituzione,  e
che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con  norme
e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti  sostengono
che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo,  o
di affermare l'esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse  al
potere giudiziario), perche' il diritto al matrimonio  sussiste  gia'
ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto  fondamentale,  ne
viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali. 
    Infine, sono richiamati alcuni passaggi  argomentativi  di  Corti
straniere, che si sono  occupate  della  tenuta  costituzionale,  nei
rispettivi sistemi, del  divieto  di  matrimonio  tra  persone  dello
stesso sesso. 
    In chiusura, si chiede a questa Corte  di  acquisire  un'adeguata
base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso
sesso,  che  vivono   sul   territorio   italiano,   e   sull'impatto
dell'attuale prassi interpretativa,  che  esclude  le  persone  dello
stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale. 
    3. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  dello  Stato,  ha  spiegato  intervento  nel
presente giudizio di legittimita' costituzionale con atto  depositato
il  21  luglio  2009,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata
inammissibile e, comunque, manifestamente infondata. 
    La difesa  dello  Stato  prende  le  mosse  dal  rilievo  che  la
normativa riguardante l'istituto del matrimonio, sia quella  prevista
dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si  riferisce
senz'altro all'unione fra persone di sesso diverso. 
    Il  requisito  della  diversita'  del  sesso,   che   si   ricava
direttamente dall'art. 107  cod.  civ.,  nonche'  da  altre  numerose
disposizioni dello stesso codice, e' tradizionalmente e costantemente
annoverato dalla dottrina e  dalla  giurisprudenza  tra  i  requisiti
indispensabili per l'esistenza del  matrimonio.  Infatti,  ad  avviso
dell'Avvocatura  generale,  l'istituto  del  matrimonio  nel   nostro
ordinamento si configura come un  istituto  pubblicistico  diretto  a
disciplinare determinati effetti,  che  il  legislatore  tutela  come
diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso
diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione). 
    Il richiamo all'art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe
decisivo ne' conferente. 
    Tale disposto, per  costante  interpretazione  di  questa  Corte,
«deve  essere  ricollegato  alle  norme  costituzionali   concernenti
singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno  nel  senso  che
non esistono altri diritti fondamentali  inviolabili  che  non  siano
necessariamente conseguenti  a  quelli  costituzionalmente  previsti»
(sentenza n. 98 del 1979),  tra  i  quali  non  sarebbe  compresa  la
pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo. 
    La collocazione dell'art. 2 Cost. fra i  «principi  fondamentali»
ed invece la collocazione dell'art. 29 nel titolo II tra i  «rapporti
etico-sociali»   costituirebbero   non   soltanto    l'argomentazione
testuale, ma anche l'argomentazione piu' significativa per  escludere
la fondatezza dell'assunto contenuto  nell'ordinanza  di  rimessione,
non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento  la  convivenza
tra persone dello stesso sesso. Infatti,  la  dottrina  piu'  recente
tende a ricondurre la tutela  delle  coppie  omosessuali  nell'ambito
della tutela delle coppie di fatto. 
    Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza,
di cui all'art. 3 Cost., perche' questo impone un uguale  trattamento
per situazioni uguali e trattamento differenziato per  situazioni  di
fatto difformi. 
    La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare  il
citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in  base  al
sesso «in qualche misura meno rigido  rispetto  ad  altri»,  sia  sul
piano  della  correlazione  di  alcune   distinzioni   ad   obiettive
differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in  cui
in Costituzione si rinvengono  norme  idonee  a  giustificare,  entro
certi limiti, distinzioni fondate sul  sesso,  «in  particolare,  gli
articoli 29, 37 e 51». 
    La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo  al  principio  di
ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3  Cost.,  non  pertinente
nel caso in esame, perche'  un  trattamento  normativo  differenziato
potrebbe ritenersi «ragionevole»,  in  quanto  diretto  a  realizzare
altri e prevalenti valori costituzionali. 
    Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza  in
tema  di  illegittime  discriminazioni  subite  in  precedenza  dalle
persone transessuali, perche' il problema della «identita'  di  sesso
biologico» in quell'ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa. 
    Quanto  all'art.  29  Cost.,  detta  norma,  stabilendo  che  «La
Repubblica riconosce i diritti della famiglia come societa'  naturale
fondata sul matrimonio», delinea una  «relazione  biunivoca»  tra  le
nozioni in essa richiamate e, altresi',  «vincola  il  legislatore  a
tenere distinte la disciplina dell'istituzione  familiare  da  quelle
eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione  sociale,
ancorche' avente caratteri analoghi». 
    Ad avviso dell'Avvocatura, in  esito  al  dibattito  sviluppatosi
nell'Assemblea costituente in sede di elaborazione dell'art.  29,  si
sarebbero delineate due ricostruzioni circa il  significato  di  tale
norma. 
    La  prima  sottolinea  il  carattere  pregiuridico  dell'istituto
familiare, identificando  un  solo  modello  univoco  e  stabile;  la
seconda  attribuisce  all'art.   29   un   contenuto   mutevole   con
l'evoluzione dei costumi sociali. Parte della  dottrina,  invece,  ha
superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad
un modello di famiglia che, per quanto  suscettibile  di  sviluppi  e
cambiamenti, sia pero' caratterizzato «da un nucleo duro», che  trova
«il  suo  contenuto  minimo  e  imprescindibile  nell'elemento  della
diversita' di sesso fra i coniugi» e percio' mantiene il  significato
originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e
distante dall'iniziale formulazione. 
    Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l'art.  117,  primo
comma, Cost., in  relazione  ai  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. 
    La difesa dello Stato premette che l'ordinamento comunitario  non
ha legiferato in materia matrimoniale, ma si  e'  limitato  in  varie
risoluzioni ad indicare criteri  e  principi,  lasciando  ai  singoli
Paesi membri la facolta' di adeguamento delle legislazioni nazionali. 
    La liberta'  lasciata  ai  legislatori  europei  ha  dato  luogo,
percio', a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali. 
    Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della  Carta  di
Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona,  in  quanto  proprio
l'art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e  di  costituire  una
famiglia, rinvia alla legge nazionale  per  la  determinazione  delle
condizioni per l'esercizio di tale diritto. 
    Per  quel  che  riguarda  gli  obblighi  internazionali   e,   in
particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa  del  codice
civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8  (diritto  al
rispetto della vita familiare),  12  (diritto  al  matrimonio)  e  14
(divieto di discriminazione) della  CEDU,  dal  momento  che  proprio
l'art. 12 non solo riafferma che l'istituto del  matrimonio  riguarda
persone di sesso diverso, ma  rinvia  alle  leggi  nazionali  per  la
determinazione delle condizioni per l'esercizio del relativo diritto. 
    In definitiva, al di la' del carattere eterogeneo dei modelli  di
riconoscimento  adottati  dagli  Stati  europei,  l'elemento  che  li
accomuna  sarebbe  la  «centralita'  del  legislatore»  nel  processo
d'inclusione  delle  coppie  omosessuali  nell'ambito  degli  effetti
legali delle discipline di tutela. 
    Peraltro,  un  intervento  della  Corte  costituzionale  di  tipo
manipolativo  non  sarebbe  realizzabile   attraverso   un'operazione
lessicale di mera sostituzione delle parole «marito» e «moglie»,  con
la parola «coniugi», perche' in realta' si tratterebbe di operare  un
nuovo disegno del tessuto normativo codicistico,  alla  luce  di  una
norma costituzionale che proprio ad  esso  rimanda;  e  tale  compito
sarebbe necessariamente riservato al legislatore. 
    4. - La  Corte  di  appello  di  Trento,  con  l'altra  ordinanza
indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3  e
29 Cost., questione di legittimita' costituzionale  degli  artt.  93,
96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod.  civ.,  nella  parte  in
cui, complessivamente valutati,  non  consentono  agli  individui  di
contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. 
    La Corte territoriale premette di essere stata adita in  sede  di
reclamo, ai sensi dell'art.  739  del  codice  di  procedura  civile,
proposto da due coppie (ciascuna  formata  da  persone  dello  stesso
sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto
l'opposizione  formulata  dai  reclamanti   nei   confronti   di   un
provvedimento dell'ufficiale di stato civile del  Comune  di  Trento.
Con tale  provvedimento  il  detto  funzionario  aveva  rifiutato  di
procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti,
non ritenendo ammissibile nell'ordinamento italiano il matrimonio tra
persone  del  medesimo  sesso;  e  il  rifiuto  era  stato  giudicato
legittimo dal Tribunale. 
    La Corte rimettente, dopo  aver  ritenuto  infondata  la  domanda
principale diretta ad ottenere l'ordine all'ufficiale di stato civile
di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimita'
costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti. 
    Dopo aver ricordato l'ordinanza  del  Tribunale  di  Venezia,  la
rimettente osserva che, rispetto all'epoca  nella  quale  sono  state
emanate le norme  disciplinanti  il  matrimonio,  «si  e'  verificata
un'inarrestabile trasformazione della societa' e dei costumi  che  ha
portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia
tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse  di
convivenza che chiedono (talora a gran voce)  di  essere  tutelate  e
disciplinate». 
    In questo quadro, ad avviso della Corte  trentina  e'  necessario
chiedersi se l'istituto del matrimonio, nell'attuale disciplina,  sia
o meno in contrasto con i principii costituzionali. 
    L'interrogativo  si  porrebbe,  in   particolare,   rispetto   al
principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. In sostanza, poiche'
il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale
di espressione della  dignita'  umana  (garantito  costituzionalmente
dall'art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt.  12  e  16
della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948,  dagli
artt. 8 e 12 CEDU e dagli  artt.  7  e  9  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione Europea proclamata a  Nizza  il  7  dicembre
2000), vi e' da  chiedersi  se  sia  legittimo  impedire  quello  tra
omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito  a  tutti,
senza  discriminazioni  derivanti  dal  sesso  o   dalle   condizioni
personali (quali l'orientamento sessuale),  con  conseguente  obbligo
dello Stato di intervenire in caso di  impedimenti  all'esercizio  di
esso». 
    Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai  fini  della
decisione, perche' la dichiarazione di illegittimita'  costituzionale
delle norme disciplinanti il  matrimonio,  nella  parte  in  cui  non
consentono  il  matrimonio  tra  omosessuali,  influirebbe  in   modo
determinante sull'esito del giudizio a quo. 
    Inoltre,  non  si  potrebbe  sostenere  che  la   questione   sia
manifestamente infondata, perche' «quanto sopra  osservato  non  puo'
essere superato da un'interpretazione secondo cui il matrimonio  deve
e puo' essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione  della
sua funzione sociale, principio secondo taluni  ricavabile  dall'art.
29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come  societa'
naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita
a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso  che  da
un lato lo Stato non puo' prescindere da tale realta' sociale  a  cui
tende  per  natura  la  stragrande  maggioranza  degli  individui  e,
dall'altro, afferma che la famiglia e'  fondata  sul  matrimonio;  ma
certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di  fatto
(che prescinde dal matrimonio)  o  ad  affermare  la  funzione  della
famiglia come granaio dello Stato». 
    Ad  avviso  della   rimettente,   «l'evoluzione   legislativa   e
giurisprudenziale, molto  ben  ricordata  dal  Tribunale  di  Venezia
nell'ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia
che porta ad escludere che in forza dell'art. 29  Cost.  possa  darsi
rilevanza solo alla  famiglia  legittima  funzionalmente  finalizzata
alla capacita' procreativa dei coniugi sicche', semmai, e'  anche  in
relazione a tale norma  di  rango  costituzionale  che  la  questione
sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del
Giudice delle leggi». 
    5. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio di legittimita' costituzionale  con  atto  depositato  il  3
novembre  2009,   chiedendo   che   la   questione   sia   dichiarata
inammissibile e, comunque, infondata. La difesa  dello  Stato  svolge
argomenti  analoghi  a  quelli  esposti  nel  giudizio  promosso  con
l'ordinanza del Tribunale di Venezia. 
    6. - Si sono  altresi'  costituite,  con  atto  depositato  il  2
novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l'ordinanza
della Corte di appello di Trento, signori O.E. e L.L. e signore  Z.E.
e O.M., dichiarando di ritenere ammissibile e  fondata  la  questione
sollevata e chiedendone l'accoglimento. 
    7. - In quest'ultimo giudizio ha spiegato  intervento,  con  atto
depositato il 3 novembre 2009, l'Associazione radicale Certi Diritti,
in persona del segretario e legale rappresentante pro  tempore,  che,
richiamando gli obiettivi statutari  dell'Associazione  medesima,  ha
dichiarato di ritenersi legittimata  ad  intervenire  e  di  ritenere
ammissibili e fondate le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate  dalla  Corte  d'appello  di  Trento,   riservandosi   ogni
ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il  deposito
di ogni eventuale documentazione. 
    8.- Con atto depositato il  25  febbraio  2010  nel  giudizio  di
legittimita' costituzionale promosso con la  citata  ordinanza  della
Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori  C.M.
e G.V., P.G.B. e C.G.R., R.F.R.P.C. e R.Z. 
    Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono  che,  con
tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate
l'11 novembre 2009, l'ufficiale di stato civile del Comune di  Milano
ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio
da loro richieste. 
    Essi osservano che l'interesse proprio e diretto  ad  intervenire
e' sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini  del
giudizio costituzionale e per questo motivo l'atto di  intervento  e'
depositato  nel  termine  di  venti  giorni   antecedenti   la   data
dell'udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di
circostanza temporale indipendente dalla volonta'  dei  ricorrenti  e
comprovata  da  documenti  formati  dalla  pubblica  amministrazione,
richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto  dell'art.
153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che  l'intervento
deve essere ritenuto  tempestivo  e  chiedono,  comunque,  di  essere
rimessi in termini. 
    Inoltre, essi affermano che  l'intervento  deve  essere  ritenuto
ammissibile, alla  luce  delle  innovazioni  introdotte  dalla  Corte
costituzionale, che ha espresso negli  ultimi  anni  un  orientamento
progressivamente  favorevole  all'ammissibilita',  caso   per   caso,
«soprattutto laddove soggetti singoli o  associazioni  vantassero  un
rapporto diretto con la questione di legittimita'  costituzionale  in
un processo che ha ad oggetto  un  interesse  pubblico:  quello  alla
decisione sulla legittimita' costituzionale della legge». 
    In questo quadro, l'interesse diretto, specifico e concreto degli
intervenienti alla pronuncia di  questa  Corte  non  potrebbe  essere
posto  in  dubbio,  perche'  la  declaratoria  di  fondatezza   della
questione consentirebbe di ottenere le  pubblicazioni  di  matrimonio
gia' richieste e rifiutate dall'ufficiale di stato civile in base  al
rilievo dell'inammissibilita', nel vigente ordinamento, di  matrimoni
tra persone dello stesso sesso. 
    Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe  a
quelle gia' in precedenza  richiamate  a  sostegno  della  fondatezza
della questione. 
    9. - In prossimita' dell'udienza di discussione le parti  private
nei due giudizi di legittimita'  costituzionale,  la  Presidenza  del
Consiglio dei Ministri e l'Associazione radicale Certi Diritti  hanno
depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. -  Il  Tribunale  di  Venezia,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e  117,
primo  comma,   della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale degli articoli 93, 96, 98,  107,  108,  143,  143-bis,
156-bis del codice civile,  «nella  parte  in  cui,  sistematicamente
interpretati,  non  consentono  che  le   persone   di   orientamento
omosessuale possano contrarre matrimonio  con  persone  dello  stesso
sesso». 
    Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in  un
giudizio promosso da due persone di sesso maschile,  in  opposizione,
ai sensi dell'art. 98 di  detto  codice,  avverso  l'atto  col  quale
l'ufficiale di stato civile del Comune di  Venezia  ha  rifiutato  di
procedere alla pubblicazione di matrimonio  dagli  stessi  richiesta,
ritenendola in contrasto con la normativa vigente,  costituzionale  e
ordinaria, in  quanto  l'istituto  del  matrimonio,  nell'ordinamento
giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversita' di sesso  tra
i coniugi. 
    Il  Tribunale  veneziano  riferisce  gli  argomenti  svolti   dai
ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento,  non
esisterebbe una nozione di matrimonio, ne' un  suo  divieto  espresso
tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla  Costituzione
e alla Carta di Nizza,  rimarcando  che  l'interpretazione  letterale
delle norme del codice civile, posta a fondamento del  diniego  delle
pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare
riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost. 
    Tanto  premesso,  il  rimettente  rileva  che,   nell'ordinamento
italiano, il  matrimonio  tra  persone  dello  stesso  sesso  non  e'
previsto ne' vietato in modo espresso. Peraltro, pure in  assenza  di
una  norma  definitoria,  «l'istituto  del  matrimonio,  cosi'   come
previsto   nell'attuale   ordinamento    italiano,    si    riferisce
indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di  sesso  diverso».
Ad avviso del Tribunale, il  chiaro  tenore  delle  disposizioni  del
codice, regolatrici dell'istituto in questione, non consentirebbe  di
estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di  una
forzatura   non   consentita   ai   giudici   (diversi   da    quello
costituzionale), «a  fronte  di  una  consolidata  e  ultramillenaria
nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna». 
    D'altra parte, secondo il Tribunale non si  possono  ignorare  le
rapide trasformazioni della societa' e dei  costumi,  il  superamento
del monopolio detenuto  dal  modello  di  famiglia  tradizionale,  la
nascita  spontanea  di  forme   diverse   (seppur   minoritarie)   di
convivenza,  che  chiedono  protezione,  si   ispirano   al   modello
tradizionale  e,  come  quello,  mirano  ad  essere   considerate   e
disciplinate.  Nuovi  bisogni,  legati  anche  all'evoluzione   della
cultura e  della  civilta',  chiedono  tutela,  imponendo  un'attenta
meditazione  sulla  persistente  compatibilita'  dell'interpretazione
tradizionale con i principi costituzionali. 
    Cio' posto, il Tribunale  di  Venezia,  prendendo  le  mosse  dal
rilievo  che  il  diritto  di   sposarsi   costituisce   un   diritto
fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale  ed
in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure  riferite  ai
diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento
sulla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  promossa,  che
inoltre  giudica  rilevante  perche'   l'applicazione   delle   norme
censurate non e' superabile nel percorso logico-giuridico da compiere
al fine di pervenire alla decisione della causa. 
    2. - La  Corte  di  appello  di  Trento,  con  l'altra  ordinanza
indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3  e
29 Cost., questione di legittimita' costituzionale  degli  artt.  93,
96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod.  civ.,  nella  parte  in
cui, complessivamente valutati,  non  consentono  agli  individui  di
contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. 
    La Corte territoriale premette di essere stata adita in  sede  di
reclamo, ai sensi dell'articolo 739 del codice di  procedura  civile,
proposto da due coppie (ciascuna  formata  da  persone  dello  stesso
sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto
l'opposizione  formulata  dai  reclamanti   nei   confronti   di   un
provvedimento dell'ufficiale di stato civile del  Comune  di  Trento.
Con tale  provvedimento  il  detto  funzionario  aveva  rifiutato  di
procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti,
non ritenendo ammissibile nell'ordinamento italiano il matrimonio tra
persone del  medesimo  sesso;  ed  il  rifiuto  era  stato  giudicato
legittimo dal Tribunale. 
    La Corte rimettente, dopo  aver  ritenuto  infondata  la  domanda
principale diretta ad ottenere l'ordine all'ufficiale di stato civile
di procedere alle pubblicazioni, passa all'esame della  questione  di
legittimita'  costituzionale,  in  via   subordinata   proposta   dai
reclamanti,  svolgendo,  in  relazione  alle   censure   prospettate,
considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia. 
    3. - I due giudizi  di  legittimita'  costituzionale,  avendo  ad
oggetto la medesima questione, vanno riuniti per  essere  decisi  con
unica sentenza. 
    4. - In via  preliminare,  deve  essere  confermata  l'ordinanza,
adottata nel corso dell'udienza pubblica ed  allegata  alla  presente
sentenza, con  la  quale  sono  stati  dichiarati  inammissibili  gli
interventi dell'Associazione radicale Certi  Diritti  e  dei  signori
C.M. e G.V., P.G.B. e C.G.R., R.F.R.P.C. e R.Z. Cio' in  applicazione
del consolidato  orientamento  della  giurisprudenza  costituzionale,
richiamato nell'ordinanza,  secondo  cui  non  sono  ammissibili  gli
interventi,  nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via
incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo,  ne'
siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo  diretto
ed  immediato  al  rapporto  sostanziale  dedotto  in  causa  e   non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla  norma  o  dalle
norme oggetto di censura, avuto  altresi'  riguardo  al  rilievo  che
l'ammissibilita' dell'intervento ad opera di un terzo, titolare di un
interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio  principale,
contrasterebbe con il carattere incidentale  del  detto  giudizio  di
legittimita'. 
    5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze  di  rimessione,
in   riferimento   all'art.   2   Cost.,   deve   essere   dichiarata
inammissibile, perche' diretta ad ottenere una pronunzia additiva non
costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009,
n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002). 
    6. - Le dette ordinanze  muovono  entrambe  dal  presupposto  che
l'istituto  del  matrimonio  civile,  come   previsto   nel   vigente
ordinamento italiano, si riferisce soltanto all'unione stabile tra un
uomo e una  donna.  Questo  dato  emerge  non  soltanto  dalle  norme
censurate, ma  anche  dalla  disciplina  della  filiazione  legittima
(artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all'azione  di
disconoscimento, artt. 235, 244 e ss.  dello  stesso  codice),  e  da
altre norme, tra le quali, a titolo di esempio,  si  puo'  menzionare
l'art. 5, primo e secondo comma, della legge 1º dicembre 1970, n. 898
(Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio),  nonche'  dalla
normativa in materia di ordinamento dello stato civile. 
    In sostanza, l'intera  disciplina  dell'istituto,  contenuta  nel
codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversita' di
sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed  ultramillenaria
nozione  di  matrimonio»,  come  rileva  l'ordinanza  del   Tribunale
veneziano. 
    Nello stesso senso e' la dottrina,  in  maggioranza  orientata  a
ritenere  che  l'identita'  di  sesso  sia  causa  d'inesistenza  del
matrimonio,  anche  se  una  parte  parla  di  invalidita'.  La  rara
giurisprudenza di legittimita', che (peraltro, come obiter dicta)  si
e' occupata della questione, ha considerato la  diversita'  di  sesso
dei coniugi tra  i  requisiti  minimi  indispensabili  per  ravvisare
l'esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del
2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976). 
    7. - Ferme  le  considerazioni  che  precedono,  si  deve  dunque
stabilire se  il  parametro  costituzionale  evocato  dai  rimettenti
imponga di  pervenire  ad  una  declaratoria  d'illegittimita'  della
normativa censurata (con eventuale applicazione dell'art. 27,  ultima
parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 - Norme sulla costituzione  e
sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni
omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da  colmare
il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si e'  posto  il
problema del matrimonio omosessuale. 
    8. - L'art.  2  Cost.  dispone  che  la  Repubblica  riconosce  e
garantisce i diritti inviolabili  dell'uomo,  sia  come  singolo  sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita' e richiede
l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  politica,
economica e sociale. 
    Orbene, per formazione sociale  deve  intendersi  ogni  forma  di
comunita', semplice o complessa, idonea a consentire  e  favorire  il
libero sviluppo della persona nella vita di relazione,  nel  contesto
di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione e' da
annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza
tra  due  persone  dello  stesso  sesso,  cui   spetta   il   diritto
fondamentale  di  vivere  liberamente  una  condizione   di   coppia,
ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla  legge
- il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. 
    Si  deve  escludere,   tuttavia,   che   l'aspirazione   a   tale
riconoscimento  -  che  necessariamente  postula  una  disciplina  di
carattere generale, finalizzata  a  regolare  diritti  e  doveri  dei
componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso
una  equiparazione  delle  unioni  omosessuali  al   matrimonio.   E'
sufficiente l'esame, anche  non  esaustivo,  delle  legislazioni  dei
Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare
la diversita' delle scelte operate. 
    Ne deriva,  dunque,  che,  nell'ambito  applicativo  dell'art.  2
Cost.,  spetta  al  Parlamento,  nell'esercizio   della   sua   piena
discrezionalita',   individuare   le   forme   di   garanzia   e   di
riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla  Corte
costituzionale la possibilita' d'intervenire a tutela  di  specifiche
situazioni (come e' avvenuto per le convivenze more uxorio:  sentenze
n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Puo' accadere, infatti,  che,  in
relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessita'  di
un trattamento omogeneo tra la condizione della  coppia  coniugata  e
quella della coppia omosessuale, trattamento che  questa  Corte  puo'
garantire con il controllo di ragionevolezza. 
    9.  -  La  questione  sollevata  con  riferimento  ai   parametri
individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non e' fondata. 
    Occorre prendere le mosse,  per  ragioni  di  ordine  logico,  da
quest'ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che  «La
Repubblica riconosce i diritti della famiglia come societa'  naturale
fondata sul  matrimonio»,  e  nel  secondo  comma  aggiunge  che  «Il
matrimonio e' ordinato  sulla  eguaglianza  morale  e  giuridica  dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge  a  garanzia  dell'unita'
familiare». 
    La norma, che ha dato luogo ad  un  vivace  confronto  dottrinale
tuttora aperto,  pone  il  matrimonio  a  fondamento  della  famiglia
legittima, definita «societa' naturale» (con tale  espressione,  come
si desume dai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, si volle
sottolineare che  la  famiglia  contemplata  dalla  norma  aveva  dei
diritti originari  e  preesistenti  allo  Stato,  che  questo  doveva
riconoscere). 
    Cio' posto, e' vero che i concetti di famiglia  e  di  matrimonio
non si possono ritenere «cristallizzati» con riferimento all'epoca in
cui la Costituzione entro'  in  vigore,  perche'  sono  dotati  della
duttilita' propria  dei  principi  costituzionali  e,  quindi,  vanno
interpretati  tenendo  conto  non   soltanto   delle   trasformazioni
dell'ordinamento, ma  anche  dell'evoluzione  della  societa'  e  dei
costumi. Detta interpretazione, pero', non  puo'  spingersi  fino  al
punto d'incidere sul nucleo della norma, modificandola in  modo  tale
da includere in essa fenomeni  e  problematiche  non  considerati  in
alcun modo quando fu emanata. 
    Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione
delle unioni omosessuali  rimase  del  tutto  estranea  al  dibattito
svoltosi in sede di Assemblea, benche' la condizione omosessuale  non
fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l'art.  29  Cost.,
discussero di un istituto che  aveva  una  precisa  conformazione  ed
un'articolata  disciplina  nell'ordinamento  civile.   Pertanto,   in
assenza di diversi riferimenti, e' inevitabile  concludere  che  essi
tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice  civile
entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si e' visto, stabiliva (e
tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone  di  sesso
diverso.  In  tal  senso  orienta  anche  il  secondo   comma   della
disposizione che, affermando il principio dell'eguaglianza  morale  e
giuridica dei coniugi, ebbe riguardo  proprio  alla  posizione  della
donna cui intendeva attribuire pari dignita' e diritti  nel  rapporto
coniugale. 
    Questo significato del precetto costituzionale  non  puo'  essere
superato per via ermeneutica,  perche'  non  si  tratterebbe  di  una
semplice rilettura del sistema  o  di  abbandonare  una  mera  prassi
interpretativa, bensi' di procedere ad un'interpretazione creativa. 
    Si  deve  ribadire,  dunque,  che   la   norma   non   prese   in
considerazione le unioni  omosessuali,  bensi'  intese  riferirsi  al
matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. 
    Non e' casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver
trattato del matrimonio, abbia ritenuto  necessario  occuparsi  della
tutela dei figli (art. 30), assicurando parita' di trattamento  anche
a quelli nati fuori dal matrimonio, sia  pur  compatibilmente  con  i
membri  della  famiglia  legittima.  La  giusta  e  doverosa  tutela,
garantita ai figli naturali, nulla toglie al  rilievo  costituzionale
attribuito alla famiglia legittima  ed  alla  (potenziale)  finalita'
procreativa del matrimonio  che  vale  a  differenziarlo  dall'unione
omosessuale. 
    In questo quadro, con riferimento all'art. 3 Cost., la  censurata
normativa del codice civile che, per quanto  sopra  detto,  contempla
esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non puo'  considerarsi
illegittima sul piano costituzionale. Cio'  sia  perche'  essa  trova
fondamento nel  citato  art.  29  Cost.,  sia  perche'  la  normativa
medesima non da'  luogo  ad  una  irragionevole  discriminazione,  in
quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee  al
matrimonio. 
    Il richiamo, contenuto nell'ordinanza di rimessione del Tribunale
di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme  in  materia  di
rettificazione di attribuzione di sesso), non e' pertinente. 
    La normativa ora citata - sottoposta a scrutinio da questa  Corte
che, con sentenza n. 161 del  1985,  dichiaro'  inammissibili  o  non
fondate  le  questioni  di  legittimita'   costituzionale   all'epoca
promosse - prevede la rettificazione dell'attribuzione  di  sesso  in
forza  di  sentenza  del  tribunale,  passata   in   giudicato,   che
attribuisca ad una persona  un  sesso  diverso  da  quello  enunciato
dall'atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi
caratteri sessuali (art. 1). 
    Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da
quella  omosessuale  e,  percio',  inidonea  a  fungere  da   tertium
comparationis. Nel transessuale, infatti, l'esigenza fondamentale  da
soddisfare e' quella di far coincidere il soma con  la  psiche  ed  a
questo effetto e' indispensabile, di regola, l'intervento  chirurgico
che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a
realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre  del
Considerato in diritto). La persona  e'  ammessa  al  matrimonio  per
l'avvenuto intervento di modificazione  del  sesso,  autorizzato  dal
tribunale. Il riconoscimento del diritto di  sposarsi  a  coloro  che
hanno cambiato sesso, quindi, costituisce  semmai  un  argomento  per
confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale  previsto
nel vigente ordinamento. 
    10. - Resta da esaminare  il  parametro  riferito  all'art.  117,
primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell'ordinanza del Tribunale
di Venezia). 
    Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme  interposte,  gli
artt. 8 (diritto al rispetto della  vita  privata  e  familiare),  12
(diritto al matrimonio)  e  14  (divieto  di  discriminazione)  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale  alla
Convenzione  stessa,  firmato  a  Parigi  il  20  marzo  1952);  pone
l'accento su una sentenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo
(in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002),  che  dichiaro'
contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del  transessuale
(dopo l'operazione) con persona  del  suo  stesso  sesso  originario,
sostenendo l'analogia della fattispecie  con  quella  del  matrimonio
omosessuale; evoca altresi' la Carta  di  Nizza  (Carta  dei  diritti
fondamentali  dell'Unione  Europea)  e,  in  particolare,  l'art.   7
(diritto al rispetto  della  vita  privata  e  familiare),  l'art.  9
(diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l'art. 21 (diritto
a  non  essere  discriminati);  menziona  varie   risoluzioni   delle
Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli
ostacoli che si  frappongono  al  matrimonio  di  coppie  omosessuali
ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»;  infine,
segnala  che  nell'ordinamento  di  molti  Stati,   aventi   civilta'
giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione  di
relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. 
    Cio' posto, si deve osservare che: a)  il  richiamo  alla  citata
sentenza della Corte europea non e' pertinente, perche' essa riguarda
una fattispecie, disciplinata dal  diritto  inglese,  concernente  il
caso di un transessuale  che,  dopo  l'operazione,  avendo  acquisito
caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13)  aveva  avviato  una
relazione con un uomo, col quale pero' non poteva  sposarsi  «perche'
la legge l'ha considerata come uomo» (punto  95).  Tale  fattispecie,
nel  diritto  italiano,  avrebbe  trovato  disciplina   e   soluzione
nell'ambito della legge n. 164 del 1982.  E,  comunque,  gia'  si  e'
notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono
omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e  14  della
CEDU,  sia  gli  artt.  7  e  21  della  Carta  di  Nizza  contengono
disposizioni a carattere generale in ordine al  diritto  al  rispetto
della vita privata e  familiare  e  al  divieto  di  discriminazione,
peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e
9 della  Carta  di  Nizza  prevedono  specificamente  il  diritto  di
sposarsi  e  di  costituire  una  famiglia.  Per  il   principio   di
specialita', dunque, sono queste ultime le  norme  cui  occorre  fare
riferimento nel caso in esame. 
    Orbene, l'art. 12 dispone che «Uomini e donne  in  eta'  maritale
hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le  leggi
nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto». 
    A sua volta l'art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e  il
diritto di costituire una famiglia sono garantiti  secondo  le  leggi
nazionali che ne disciplinano l'esercizio». 
    In ordine a quest'ultima disposizione va premesso che la Carta di
Nizza e' stata recepita dal Trattato  di  Lisbona,  modificativo  del
Trattato  sull'Unione  europea  e  del  Trattato  che  istituisce  la
Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il
nuovo testo dell'art. 6, comma 1, del Trattato  sull'Unione  europea,
introdotto  dal  Trattato  di  Lisbona,  prevede  che  «1.   L'Unione
riconosce i diritti, le liberta' e i principi sanciti nella Carta dei
diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  del  7  dicembre   2000,
adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha  lo  stesso  valore
giuridico dei trattati». 
    Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi
che   l'entrata   in   vigore   del   Trattato    pone    nell'ambito
dell'ordinamento   dell'Unione   e   degli   ordinamenti   nazionali,
specialmente con riguardo all'art. 51 della Carta, che ne  disciplina
l'ambito di applicazione. Ai fini della presente  pronuncia  si  deve
rilevare che l'art. 9 della Carta (come, del resto, l'art.  12  della
CEDU), nell'affermare  il  diritto  di  sposarsi  rinvia  alle  leggi
nazionali che ne disciplinano l'esercizio. Si deve aggiungere che  le
spiegazioni relative alla Carta dei diritti  fondamentali,  elaborate
sotto  l'autorita'  del  praesidium  della  Convenzione  che  l'aveva
redatta (e che, pur non avendo  status  di  legge,  rappresentano  un
indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art.
9 chiariscono (tra l'altro) che «L'articolo non vieta ne'  impone  la
concessione dello status matrimoniale  a  unioni  tra  persone  dello
stesso sesso». 
    Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli  uomini  ed  alle
donne, e' comunque decisivo il rilievo che anche la citata  normativa
non impone la  piena  equiparazione  alle  unioni  omosessuali  delle
regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna. 
    Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali,  si  ha  la
conferma  che  la  materia  e'  affidata  alla  discrezionalita'  del
Parlamento. 
    Ulteriore riscontro di cio' si desume, come gia' si e' accennato,
dall'esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi  Paesi
che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e  propria  estensione
alle unioni omosessuali della disciplina prevista per  il  matrimonio
civile  oppure,  piu'   frequentemente,   forme   di   tutela   molto
differenziate e  che  vanno,  dalla  tendenziale  assimilabilita'  al
matrimonio delle dette unioni,  fino  alla  chiara  distinzione,  sul
piano degli effetti, rispetto allo stesso. 
    Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una
declaratoria  d'inammissibilita'   della   questione   proposta   dai
rimettenti, con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.