IL TRIBUNALE In data 17 dicembre 2007 il p.m. esercitava l'azione penale nei confronti di Santi Pier Luigi e Santi Giorgio per una serie di violazioni al decreto legislativo n. 74/2000. In particolare, al primo veniva contestato (capi A, B e C) di avere indicato, nella sua qualita' di vice presidente del CdA della societa' Interauto Import S.p.A. e firmatario delle dichiarazioni, nelle dichiarazioni dei redditi 2004, 2005 e 2006 una serie di fatture - per operazioni inesistenti - quali elementi passivi fittizi annotati nel conto intestato «provvigioni a procacciatori e segnalatori vendite» e confluiti nella voce del conto economico «costi della produzione». Al secondo veniva contestato di avere emesso i tre seguenti gruppi di fatture, nella sua qualita' di legale rappresentante della societa' Interauto Import S.p.A., per operazioni inesistenti: a) una fattura nel 2005 (capo D); b) 61 fatture nel 2006 (capo E); c) 17 fatture nel 2007 (capo F). La contestazione sub D riguarda una fattura recante la causale «addebito per collaborazione direzionale prestata durante i mesi da maggio a settembre 2005 del nostro direttore generale dott. Michele Hillebrand e direttore commerciale sig. Sassi Eugenio». Le contestazioni sub E ed F - di gran lunga le piu' gravi - ipotizzano una frode commerciale IVA della societa' Interauto Import S.p.A. nell'ambito dei rapporti da questa intrattenuti con una societa' avente sede nella Repubblica di San Marino: viene contestato, in particolare, il noto meccanismo delle «frodi carosello» poste in essere mediante la costituzione di diverse societa', cosiddette «cartiera» una delle quali avente sede nella Repubblica di San Marino e ad altre sul territorio nazionale. In ipotesi di accusa, Interauto S.p.A. alimenta il circuito commerciale attraverso numerose cessioni - puramente cartolari - di autovetture alla societa' sanmarinese, ben sapendo, in realta', che le stesse sono destinate effettivamente a rivenditori nazionali, dai quali incassavano l'IVA e provvedevano al relativo versamento. Le fonti di prova sono rappresentate dalla documentazioni contabile sequestrata e dalle informative del Nucleo di Polizia Tributaria della GdF di Modena che illustrano gli accertamenti svolti ed il meccanismo ritenuto in frode all'erario. Il giudice, ricevuta la richiesta di rinvio a giudizio, disponeva la fissazione dell'udienza preliminare in camera di consiglio dando i prescritti avvisi alle parti. All'odierna udienza, veniva sollevata d'ufficio questione di legittimita' costituzionale della norma sopra indicata. Il caso in esame puo' essere cosi riassunto: verificata la regolare costituzione del rapporto processuale, il difensore chiedeva autorizzazione alla produzione del fascicolo di indagini difensive contenenti consulenza tecnica e due sentenze, una della Commissione provinciale e l'altra della Commissione regionale Tributaria che, in accoglimento dei ricorsi presentati avverso gli avvisi di accertamento della Agenzia delle entrate in relazione alle fatture contestate ai capi d'accusa, ne disponeva l'annullamento sulla base della inidoneita' degli elementi raccolti a comprovare la corresponsabilita' della societa' Interauto S.p.A. nella frode iva accertata, non ritenendo che si potesse dubitare della effettivita' delle cessioni di autovetture oggetto di indagine. La consulenza tecnica ha ad oggetto la descrizione del Residence Pineta dove le autovetture venivano parcheggiate dalla societa' sanmarinese e che, in ipotesi di accusa, dimostrebbero il coinvolgimento della societa' Interauto nel meccanismo fraudolento. Il giudice ha disposto l'acquisizione del fascicolo delle indagini difensive nel fascicolo processuale e, in rapida successione, il difensore degli imputati, in esecuzione della procura speciale conferita, chiedeva la definizione del procedimento con le forme del rito abbreviato. Tutto cio' premesso, sulla rilevanza della proponenda questione, ritiene il giudice dell'udienza preliminare che il compendio probatorio confluito nel fascicolo processuale attraverso le indagini difensive ritualmente svolte sia potenzialmente in grado di sovvertire le conclusioni alle quali e' giunto il p.m. ma, nonostante cio', questi non abbia alcun potere di attivare meccanismi processuali di risposta e, in ultima analisi, il giudice, incamerata la rituale richiesta di giudizio abbreviato, si trovi a dover decidere il merito della causa alla luce di una situazione di chiara asimmetria tra le parti processuali. La questione e', pertanto, rilevante perche' il giudizio di merito dipende direttamente dalla applicazione delle norme che si censurano: art. 442 comma 1-bis e 391-octies c.p.p. Venendo, infatti, al giudizio di non manifesta infondatezza della questione il giudice ravvisa un contrasto con il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova ed in particolare nella «parita' delle armi» tra le parti processuali. Il giudice non ignora che la Corte costituzionale e' stata piu' volte investita del tema con una serie di pronunce di inammissibilita' non prive, pero', di indicazioni interpretative che acquistano nuova «luce» in ragione delle specificazioni contenute nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 184/2009. E cosi' nella sentenza n. 245 del 2005 di puntualizzava che «che il rimettente, nell'esprimere le ragioni per cui il potere di assumere, eventualmente anche d'ufficio, gli elementi necessari alla decisione, attribuito al giudice dall'art. 441, comma 5, cod. proc. pen. , non sarebbe idoneo a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione, trascura di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria e' configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l'esercizio della funzione giurisdizionale, sicche' proprio a tale potere il giudice dovrebbe fare ricorso per assicurare il rispetto di quei valori; che inoltre il giudice a quo, pur richiamando la giurisprudenza di questa Corte in tema di "continuita' investigativa" con riferimento alla possibilita' per la parte privata di produrre gli atti delle indagini difensive anche nel corso dell'udienza preliminare (sentenze n. 238 del 1991 e n. 16 del 1994), omette di motivare sul perche' non abbia ritenuto di dare attuazione al principio secondo il quale a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte "a sorpresa" dalla controparte, in modo da "contemperare l'esigenza di celerita' con la garanzia dell'effettivita' del contraddittorio", anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto "alle singole, concrete fattispecie" (oltre a quelle ora citate, v. sentenza n. 203 del 1992); che prima di sollevare questione di legittimita' costituzionale il rimettente avrebbe quindi dovuto esplorare la concreta praticabilita' delle soluzioni offerte dall'ordinamento al fine di porre rimedio alla denunciata anomala sperequazione tra accusa e difesa; che la questione va pertanto dichiarata manifestamente inammissibile». Nella sentenza n. 62 del 2007 si affermava «che, tuttavia, onde porre rimedio alla denunciata incostituzionalita', il rimettente prospetta tre diverse soluzioni in rapporto di alternativita' irrisolta, invocando una pronuncia che vieti al difensore di depositare il fascicolo delle investigazioni difensive e chiedere contestualmente il giudizio abbreviato; ovvero che consenta al giudice, nel caso di richiesta del rito alternativo, di dichiarare inutilizzabili gli atti contenuti nel fascicolo del difensore; ovvero, ancora, che permetta al pubblico ministero, nell'ipotesi considerata, di chiedere l'ammissione della prova contraria; che, pertanto - in conformita' alla costante giurisprudenza di questa Corte - la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto prospettata in forma ancipite (ex plurimis, ordinanze n. 363 del 2005, n. 192 del 2004, n. 299 e n. 128 del 2003)». Con sentenza n. 184 del 2009 la Corte ha risposto negativamente, dichiarando la questione infondata, alla richiesta del giudice remittente di dichiarare inutilizzabili gli atti di indagine difensiva nel giudizio abbreviato. Tale sanzione, secondo il remittente, era da ricollegare alla circostanza, ritenuta patologica, che un atto formato unilateralmente, venisse utilizzato senza il consenso della parte rimasta esclusa dalla sua assunzione. La Corte, invece, andando di contrario avviso ha affermato «il senso della scelta costituzionale [in relazione all'art. 111 Cost., n. d.e.], sul versante che qui interessa, e' in realta' immediatamente percepibile. Nel momento stesso in cui prevede una deroga basata sul "consenso dell'imputato" (e non gia' sul "consenso delle parti" o della "parte contro interessata"), ponendola per giunta al vertice della terna di ipotesi derogatorie ivi contemplate, il quinto comma dell'art. 111 Cost. rivela chiaramente che il principio del contraddittorio nel momento genetico della prova rappresenta precipuamente - nella volonta' del legislatore costituente - uno strumento di salvaguardia "del rispetto delle prerogative dell'imputato" (in questi termini, si veda la sentenza n. 29 del 2009). Questa ultima previsione non implica, tuttavia, che il legislatore ordinario sia tenuto a rendere sistematicamente disponibile il contraddittorio nella formazione della prova, prevedendone la caduta ogni qualvolta l'imputato manifesti una volonta' in tale senso. L'enunciato normativo - "la legge regola i casi [...]" - si atteggia difatti, per tale verso, in termini permissivi: esso legittima, cioe', il legislatore ordinario a prevedere ipotesi nelle quali il consenso dell'imputato, unitamente ad altri presupposti, determina una piu' o meno ampia acquisizione di elementi di prova formati unilateralmente; e cio', in particolare, ove si intenda assecondare esigenze di economia processuale, lasciando spazio - allorche' il soggetto, nel cui precipuo interesse la garanzia e' posta, ritenga di potervi rinunciare - ad istituti idonei a contenere i tempi occorrenti per la definizione del processo e le risorse in esso impiegate. Laddove e' peraltro implicito che la fattispecie debba essere comunque configurata in maniera tale da assicurare uno svolgimento equilibrato del processo, evitando che la rinuncia al contraddittorio da parte dell'imputato pregiudichi a priori la correttezza della decisione». La Corte prosegue elencando vari casi di accordo tra le parti sulla base cognitiva del giudizio e specificando che il principio di parita' non impone la piena reciprocita' del consenso su ogni questione, perche' cio' contrasterebbe con la lettera del comma quinto dell'art. 111 Cost. Piuttosto la norma impegna «il legislatore ordinario ad evitare che i presupposti e le modalita' operative del riconoscimento all'imputato della facolta' di rinunciare alla formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o addirittura una alterazione del sistema». Orbene, nel giudizio abbreviato cosi' come strutturato nel caso sottoposto al vaglio del remittente, la rinuncia dell'imputato al contraddittorio attuata con la scelta del rito abbreviato pregiudica la correttezza della decisione «a priori» poiche' introduce elementi da sottoporre al p.m. e al giudice per la valutazione del tutto svincolati da ogni possibilita', per il contraddittore, di dimostrarne la fallacia o l'inconsistenza o anche solo la ininfluenza rispetto al quadro accusatorio complessivo. In definitiva, si crea un evidente vulnus al principio della parita' delle parti. Sul contenuto di tale principio vanno richiamate alcune importati considerazioni svolte dalla Corte costituzionale con sentenza n. 26 del 2007. «Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) - secondo la quale, nel processo penale, il principio di parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato: potendo una disparita' di trattamento "risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia" (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operativita' e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce del precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici - essendo l'una un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l'altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di liberta' personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna - impediscono di ritenere che il principio di parita' debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'. Alterazioni di tale simmetria - tanto nell'una che nell'altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono invece compatibili con il principio di parita', ad una duplice condizione: e, cioe', che esse, per un verso, trovino un'adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparita' di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro i limiti della ragionevolezza. Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparita' e l'ampiezza dello "scalino" da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l'adeguatezza della ratio e la proporzionalita' dell'ampiezza di tale "scalino" rispetto a quest'ultima. Siffatta verifica non puo' essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola della parita' delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l'organo dell'accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi - posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere "invasivo" e "coercitivo" di determinati mezzi d'indagine - abiliti di per se' sola il legislatore, in nome di un'esigenza di "riequilibrio", a qualsiasi deminutio, anche la piu' radicale, dei poteri del pubblico ministero nell'ambito di tutte le successive fasi. Una simile impostazione - negando, di fatto, l'esistenza di limiti di compatibilita' costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facolta' processuali tra i contendenti - priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parita': risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale. Il principio in parola non e' infatti suscettibile di una interpretazione riduttiva, quale quella che - facendo leva, in particolare, sulla connessione proposta dall'art. 111, secondo comma, Cost. tra parita' delle parti, contraddittorio, imparzialita' e terzieta' del giudice - intendesse negare alla parita' delle parti il ruolo di connotato essenziale dell'intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e cio' al fine di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall'art. 111, settimo comma, Cost. Una simile ricostruzione finirebbe difatti per attribuire al principio di parita' delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost., una antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parita' delle parti e' enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad "ogni processo" e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell'iter processuale. Ne' puo' trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo penale, attestato dalle puntuali "direttive" al riguardo impartite nel quarto e nel quinto comma dell'art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano logico, che tale distinto valore - anziche' affiancarsi, rafforzandolo, al principio di parita' - sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del medesimo; cosi' da legittimare l'idea - palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile - per cui, nel processo penale, la clausola di parita' opererebbe solo nei confini del procedimento di formazione della prova». Cio' posto, del problema della parita' delle parti la Corte ha dimostrato di essere pienamente consapevole e ha adottato un criterio risolutivo - in chiave di compatibilita' costituzionale - che impone al giudice del caso concreto di modulare la risposta processuale al fine di porre rimedio alla eventuale sperequazione tra accusa e difesa che si presenti nei casi come quello ora sottoposto al vaglio di costituzionalita'. In realta', ritiene il giudice - e cio' proprio alla luce delle specificazioni contenute nella citata sentenza della Corte cost. n. 184/2009 e del criterio orientativo contenuto nella sentenza n. 27/2007 - che si determini uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra i contendenti poiche' la produzione del fascicolo delle indagini difensive avviene in limine con successiva ed immediata richiesta di giudizio abbreviato. Si e', pertanto, di presenza di una prova a sorpresa che, (piu' facilmente percepibile) se dotata di elementi potenzialmente suscettibili di porre in crisi l'impianto accusatorio del p.m., crea uno squilibrio tra le parti che non puo' essere «sanato» con un semplice rinvio dando «termine» al p.m. per prendere cognizione del fascicolo delle indagini difensive e prepararsi alle conclusioni per il merito della causa. La modulazione dell'udienza preliminare attraverso tale meccanismo processuale non colma, in altri termini, la situazione di impotenza processuale in cui si trova il p.m. in un momento topico del procedimento: l'organo inquirente, infatti, dovra' discutere il merito della causa senza poter dimostrare con propri mezzi processuali la fallacia della impostazione difensiva. Posto che «a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte "a sorpresa" dalla controparte, in modo da "contemperare l'esigenza di celerita' con la garanzia dell'effettivita' del contraddittorio", anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto "alle singole, concrete fattispecie"» (Corte cost. n. 245/2005), non vi e' dubbio che l'insufficienza del rimedio processuale del differimento dell'udienza emerge dalla circostanza che non si tratta di prendere visione o cognizione di quanto prodotto, ma di consentire al p.m. di «misurarsi» su quella prova sul piano del contraddittorio, investendo pertanto la questione proprio ed esclusivamente un problema di parita' tra le parti e di equilibrio dei poteri in gioco tra i contendenti. Ne' puo' ritenersi - come sembra potersi dedurre dalla sentenza della Corte cost. n. 245/2005 - che tale lacuna possa essere colmata dal giudice con l'attivazione del meccanismo di cui all'art. 441, comma V c.p.p.: invero, presupposti, condizioni e finalita' dell'istituto sono del tutto diversi dalla situazione processuale che si sottopone al vaglio della Corte. Essa presuppone, infatti, l'apprezzamento di una lacuna probatoria (che nella situazione processuale in esame puo' non esservi anche alla luce dell'integrazione istruttoria proveniente dalla difesa) e il carattere necessario della sua acquisizione ai fini della decisione (requisito non richiesto per lo svolgimento e la produzione di indagini difensive). Di tali circostanza sembra essere pienamente consapevole la Corte costituzionale che con la sentenza n. 184/2009 ha confermato che l'art. 111 Cost. «si atteggia in termini permissivi»: autorizza, cioe', il legislatore ordinario a prevedere ipotesi nelle quali il consenso dell'imputato determini una piu' o meno ampia acquisizione di elementi di prova formati unilateralmente, ma nel caso di rinuncia al contraddittorio, «lascia spazio ad istituti idonei a contenere i tempi occorrenti per la definizione del processo e le risorse in esso impiegate». Significativa appare la circostanza che la Corte prosegua nel citare varie ipotesi di accordo tra le parti come esempi del carattere «permissivo» dell'art. 111 Cost. come precisato, ma ne' specifica gli «istituti idonei» di cui sopra, ne' vi inserisce l'art. 441 comma V c.p.p. In realta', allo squilibrio tra le parti contendenti sopra denunciato si aggiunge una «alterazione del sistema» cosi' come paventato dalla Corte costituzionale poiche' il meccanismo attuato dalla difesa si pone, a ben vedere, in chiave di chiara elusione della regola processuale di cui all'art. 438, quinto comma c.p.p. L'imputato potrebbe, infatti, richiedere di subordinare il giudizio abbreviato alla acquisizione delle prove che sono state assunte con gli strumenti di cui all'art. 391-bis e ss c.p.p.: ma cio' comporterebbe per la difesa l'onere di dimostrare che quella prova e' necessaria per la decisione nonche' compatibile con le finalita' di economia processuale del procedimento; ma, soprattutto, esporrebbe l'imputato alla piena esplicazione del contraddittorio con la possibilita' del p.m. di chiedere l'ammissione di prova contraria. Tutti questi «paletti processuali» vengono elusi sistematicamente dalla possibilita' di produrre al fascicolo processuale le indagini difensive che si ritengono pertinenti e di rinunciare subito dopo al contraddittorio con la richiesta di giudizio abbreviato non condizionato. Cio', all'evidenza, comporta un meccanismo di introduzione degli elementi di valutazione all'interno del fascicolo processuale che, senza controllo del giudice e senza poteri processuali del p.m., determinano una alterazione del sistema rispetto all'impianto originario del giudizio abbreviato cosi' come congeniato dagli artt. 438-443 c.p.p. L'alterazione della simmetria parte pubblica-parte privata a vantaggio di quest'ultima e derivante dal meccanismo processuale «produzione fascicolo indagini difensive-richiesta di giudizio abbreviato» non e' compatibile con il principio di parita' delle parti poiche' per un verso non trova una adeguata ratio giustificatrice del ruolo istituzionale del p.m. (che non ha poteri processuali autonomi in una fase determinante dell'esito di giudizio); per altro verso non e' contenuta entro limiti di ragionevolezza poiche' crea uno «scalino» (Corte cost. n. 26/2007) rilevante tra opzioni difensive e poteri del p.m. nel momento decisivo della valutazione delle prove e della decisione del merito della causa. Lo squilibrio tra le parti contendenti necessita, a parere di questo giudice, di un intervento additivo della Corte che, incidendo sull'art. 391-octies comma I c.p.p. e 442 comma I-bis c.p.p. - rilevi la mancanza di un termine per la presentazione al giudice degli elementi di prova a favore del proprio assistito nel caso di proposizione di giudizio abbreviato. L'alterazione di sistema denunciata impone, d'altro canto, di riconoscere, in caso di produzione di fascicolo con indagini difensive e successiva richiesta di giudizio abbreviato, al p.m. di richiedere l'ammissione a prova contraria.