LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 2787 del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 2005 avente ad oggetto: opposizione alla stima, tra Ferrara Livia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giorgio Stella Richter e Danno Marzano e con essi elettivamente domiciliata in Napoli via Solimene, 155 presso l'avv. Gianpiero Profeta, come da procura in calce all'atto di riassunzione e alla comparsa del 2 maggio 2008, attrice e Comune di Salerno in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Edilberto Ricciardi e con lui elettivamente domiciliato in Napoli via Giordano Bruno, 142 presso l'avv. Ernesto Alfredo Ricciardi, come da procura a margine della comparsa di costituzione, convenuto. Rilevato in fatto La Corte di appello di Salerno con sentenza 5 settembre 2001 ha determinato in L. 10.778.315.029 l'indennita' dovuta a Livia Ferrara per l'espropriazione (con decreti del 10 febbraio 1998 e 22 giugno 1999) di alcuni terreni di sua proprieta' da parte del Comune di Salerno per la realizzazione del Parco del Mercatello riportati in catasto al fol.36, part. 955, 135, 957, 956, 662, 946, 947, 663, 664, 665, 973, 974, 975, 976, 977, 1158, 1169, 50, 654, 944, 945, 1172, 653, 655, 652,656) e in L. 634.416.885 l'indennita' di occupazione temporanea, osservando: a) che gli immobili gia' inclusi dal P.R.G. di quel Comune, approvato, con d.P.R. 4 febbraio 1965. in zona intensiva C a formazione lineare e semiaperta (con esclusione delle parti destinate a strade ed a verde) a seguito di variante definitivamente approvata con decreto del Presidente della Giunta Reg. Campana, del 13 luglio 1994, facevano parte di una zona (Pastena) classificata 8 B gia' satura, destinata a standard urbanistici, e cioe' a pubblici riservati ad attivita' collettive, al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici o attrezzature pubbliche di interesse generico; b) che, trattandosi di declassamento attuato per esigenze discrezionali pubblicistiche, del relativo vincolo destinato all'espropriazione non doveva tenersi conto nella stima dell'indennita'; e d'altra parte la variante laddove consentiva soltanto interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di risanamento conservativo, si riferiva necessariamente alle aree gia' edificate, mentre per quelle che non lo erano veniva prevista una vasta zona rivolta a rendere piu' fruibile l'uso del patrimonio edilizio; c) che per la valutazione delle aree, percio' da classificarsi edificabili, il loro valore, applicando il metodo sintetico-comparativo, poteva ricavarsi da altra sentenza della stessa Corte del 1986, nonche' da due precedenti atti del comune con cui erano stati determinati altrettanti indennizzi in materia espropriativa mediando i relativi prezzi ed adeguandoli mediante indici ISTAT all'epoca dei decreti ablativi: cosi' ottenendosi quello di L. 475.000 mq., mentre per la zona destinata a strada di piano il valore doveva restare quello di L. 140.000 mq., attribuito dal comune alle aree destinate a standard; d) che non era applicabile la decurtazione del 40% prevista dal 1° comma dell'art. 5 della legge n. 359 del 1992 per la sproporzione esistente tra l'indennita' offerta dal Comune, assolutamente inadeguata all'effettivo valore delle aree, e quella e come accertata dalla consulenza tecnica. Contro la decisione il Comune di Salerno ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi, denunciando, con il primo di essi, la violazione degli art. 5-bis della legge n. 359 del 1992, gli articoli 7, 10, 40 e 41 della legge n. 1150 del 1942 e l'art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968. Ha osservato in particolare che la sentenza abbia qualificato la variante del 1994 vincolo preordinato all'esproprio e dichiarato il terreno edificabile, senza considerare: 1) che occorreva accertare se la stessa avesse funzione di zonizzazione del territorio ovvero di localizzazione dell'opera implicante la traslazione dei beni all'ente pubblico, essendo, invece del irrilevante che il declassamento della zona fosse avvenuto per esigenze discrezionali pubblicistiche; 2) che la destinazione a standard urbanistici delle aree espropriate era generica e non finalizzata alla realizzazione di una specifica opera pubblica, peraltro deliberata dopo 8 anni; e comunque successiva alla riclassificazione in zona B in cui secondo l'art. 7 del provvedimento di variante sono ammissibili soltanto interventi di manutenzione, risanamento e ristrutturazione; 3) che riferendo questa riclassificazione solo alle aree gia' edificate e non anche a quelle ancora libere ove doveva operare la destinazione a standard, la sentenza aveva sostanzialmente ritenuto la illegittimita' della zonizzazione e della determinazione degli standard, pur in assenza di una domanda al riguardo di controparte; 4) che, d'altra parte, la destinazione suddetta costituisce proprio un provvedimento attuativo della zonizzazione; e la variante lo strumento urbanistico per la modifica del P.R.G. che nel caso era addirittura obbligatoria onde consentire l'osservanza delle proporzioni imposte dall'art. 41 della legge urbanistica; 5) che l'inclusione dei terreni in zona C in luogo di quella B in cui li aveva compresi detta variante comportava, dunque, una palese violazione dell'art. 4 della 2248 del 1865 All.E; e non poteva giustificarsi neppure al lume della sentenza 12/1992 del Consiglio di Stato che aveva ritenuto la zona edificabile, essendo stata resa con riguardo alla situazione antecedente alla variante. La Corte suprema, con la sentenza n. 10265/04 del 28 maggio 2004, accogliendo il predetto motivo, ha rigettato il primo motivo del ricorso incidentale della Ferrara e, ritenuti assorbiti gli altri motivi, ha cassato la sentenza in relazione al motivo accolto rinviando a questa Corte per una nuova determinazione delle indennita' attenendosi ai principi esposti nonche' per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita'. Ha affermato in sostanza la Corte suprema - nell'accogliere il primo motivo del ricorso principale - che nell'accertamento della qualita' edificatoria di un'area ai fini della determinazione dell'indennita' di esproprio, in presenza di variante al piano regolatore generale il carattere conformativo di essa (che soltanto consente di tenerne conto ai fini indennitari) e non ablatorio, non discende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, e neppure dalla tipologia delle destinazioni individuate, ma dipende soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e struttura, che presentano i vincoli in essa contenuti. Tale carattere e' dunque configurabile ove tali vincoli mirino ad una (nuova) zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, si' da incidere su di una generalita' di beni, nei confronti di una pluralita' indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo piu' spaziale) con un'opera pubblica; per converso, se la variante non abbia una tal natura generale, ma imponga un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione non gia' di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non puo' coesistere con la proprieta' privata, il vincolo che la stessa contiene deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, dunque, prescindersi nella qualificazione dell'area, pur quando la variante abbia mutato la classificazione urbanistica di quest'ultima, con la conseguenza che soltanto in tal caso deve farsi riferimento alla previgente destinazione del piano regolatore generale. Alla riassunzione davanti a questa Corte di rinvio ha provveduto la Ferrara con atto del 26 maggio 2005 chiedendo le seguenti pronunce: «previa ammissione, occorrendo, di c.t.u. diretta. sia ad una ricostruzione genetica e storica della strumentazione urbanistica generale del Comune di Salerno che ad una migliore determinazione del valore venale dell'area espropriata anche in relazione al suo ulteriore incremento nelle more del presente giudizio - disattesa ogni contraria istanza e ragione, in accoglimento dell'opposizione alla stima a) in via preliminare in forza dell'eccezione qui proposta, dichiarare che vi e' giudicato (esterno) in ordine alla natura di vincolo non generalizzato ma particolare imposto dalla variante relativamente al terreno per cui e' causa, subordinatamente accertando comunque tale natura; b) conseguentemente dichiarare ingiusta e contra legem la misura dell'indennita' depositata dal Comune di Salerno; c) dichiarare che nella fattispecie in esame il criterio estimativo applicabile e' quello indicato dall'art. 5-bis, legge n. 359/92 per i suoli edificabili; d) dichiarare, altresi', che nel caso di specie non e' applicabile la riduzione del 40% prevista per l'ipotesi di mancata accettazione dell'indennita' offerta in quanto l'espropriando non e' stato posto nelle condizioni di poter convenire la cessione volontaria ai sensi dell'art. 5-bis legge n. 359/92; e) in ogni caso, determinare in misura non inferiore a 5.556.535,15 (L. 10.778.315.029) l'ammontare della giusta indennita' di esproprio dovuta all'attrice tenendo anche conto del danno alle parti residue del terreno che, in seguito all'espropriazione, non saranno piu' suscettibili di utile destinazione, condannando al pagamento diretto ovvero ordinandone il deposito nelle forme di legge delle somme integrative; f) determinare, inoltre, in misura non inferiore a € 327.648,97 (L. 634.416.885) o in quell'altra ritenuta di giustizia l'indennita' di occupazione provvisoria. Il tutto oltre rivalutazione ed interessi, anche anatocistici; g) con vittoria delle spese dell'intero giudizio, con attribuzione». Il Comune di Salerno, costituitosi nel giudizio di rinvio con comparsa del 29 luglio 2005, ha chiesto alla Corte di dichiarare inammissibili, improponibili e comunque infondate le domande attrici, con vittoria di spese anche relativamente al giudizio di cassazione. Con sentenza non definitiva emessa in data odierna il Collegio ha accertato: che il suolo era incluso dall'originario Piano Regolatore Generale del Comune di Salerno approvato con decreto del Presidente della Giunta Regionale 4 febbraio 1965 in zona intensiva c tipologia 9 a formazione lineare e semiaperta; e che una successiva variante adottata con delibera della stessa amministrazione n. 71 del 18 dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della Giunta Regionale Campania n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva individuato una zona 13 (Pastena) omogenea gia' satura in cui l'aveva inclusa, con destinazione a standard urbanistici consistenti in spazi pubblici o riservati ad attivita' collettive, al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o attrezzature pubbliche di interesse generico; che sulla base dei criteri enunciati dalla suprema Corte (pag. 13 della sentenza n. 10265 del 2004 relativa al caso di specie, ma anche Cass. s.u. 22 ottobre 2008, n. 28051; cass. 21 gennaio 2005, n. 1336) e cioe' dall'esame dei requisiti oggettivi, di natura e struttura, che presentano i vincoli contenuti nella variante, deve ritenersi senz'altro sussistente il carattere conformativo di essa (che consente di tenerne conto ai fini indennitari); la natura inedificabile del suolo emerge con chiarezza proprio dal disposto dell'art. 7 ultimo comma della variante (.... Tutte le aree attualmente libere ricadenti nelle zone omogenee B anche se comprese nei piani di recupero, a servizio o pertinenze (cortili, giardini e comunque spazi liberi a qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di fabbricati sono assolutamente inedificabili anche in sede di recupero, ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti»). Ritenuto in diritto Come gia' esposto nella sentenza non definitiva, a rigore, dovrebbe applicarsi, per la determinazione dell'indennita' di espropriazione (e di quella di occupazione temporanea) il criterio del valore agricolo medio ai sensi dell'articolo 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, (cfr. art. 5-bis comma 4 del d.l 11 luglio 1992, n. 333 convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1992, n. 359 che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865). Questa Corte, pero', dubita della legittimita' costituzionale del comma 4 dell' art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto n. 359 - applicabile ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto - secondo il quale «per le aree agricole e per quelle che.... non sono classificabili come edificabili, si applicano le norme di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865 e successive modificazioni e integrazioni», nonche' della legittimita' costituzionale dei commi 5 e 6 dell'art. 16 di tale ultima legge, cosi' come sostituiti dall'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (che, secondo il diritto vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo alle aree non aventi destinazione edilizia) che a loro volta prevedono che «l'indennita' di espropriazione ....per le aree esterne ai centri edificati, e' commisurata al valore agricolo medio... corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare» e che «nelle aree comprese nei centri edificati, l'indennita' e' commisurata al valore agricolo medio della coltura piu' redditizia tra quelle che, nella regione agraria da espropriare, coprono una superficie superiore al 5% di quella coltivata nella regione stessa». Le predette disposizioni normative, che all'evidenza non appaiono suscettibili di un'interpretazione diversa da quella letterale, stabiliscono un criterio di determinazione delle indennita' dei suoli agricoli e dei suoli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato. Invero, ancorche' non possa escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio (cd. V.A.M.) di tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto, coincidenti, non v'e' dubbio che assai spesso il primo valore risulti (anche notevolmente) superiore al secondo, in quanto l'appetibilita' di un terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilita', ma da molteplici altri fattori, come ad esempio la sua posizione e le concrete possibilita' di sfruttamento per fini diversi dalla coltivazione. Cosi', ad esempio, un suolo agricolo puo' costituire area di pertinenza (adibita a giardino o ad orto) di una villa in zona turistica o costituire area sulla quale insiste un c.d. «comodo rurale» del quale e' consentita la ristrutturazione; oppure (sempre un suolo agricolo) puo' essere acquistato per incrementare la volumetria dell'immobile da realizzare sull'annessa area edificabile; analogamente, un suolo non edificabile sito all'interno di un centro abitato puo' essere adibito a giardino pertinenziale, a parcheggio scoperto, o puo' essere sfruttato per il completamento di un'area edificabile: in tutti questi casi (e nei molteplici altri che si potrebbero ipotizzare), in una libera contrattazione fra parti private il suolo verrebbe venduto ad un prezzo non solo assai maggiore del suo ipotetico «valore agricolo medio», ma addirittura ad un prezzo stabilito prescindendo del tutto da tale valore. La questione e' rilevante nel presente giudizio. Con sentenza non definitiva emessa in data odierna, la Corte ha accertato la natura non edificabile del suolo e il valore agricolo medio per le colture prevalenti (agrumeto e frutteto) riportate nei dati catastali (attesa la genericita' della descrizione contenuta nel verbale di consistenza del 24 aprile 1997, in cui si fa riferimento alla presenza di «piantumazione» senza alcuna specificazione del tipo di coltura: cfr. atti nonche' rel. CTU pag. 18) sul terreno negli anni 1998 e 1999 (data dei decreti di esproprio) era, per il frutteto, di L. 86.700.000 per ettaro cioe' di appena lire 8.670,00/mq e, per l'agrumeto, per l'anno 1998, di L. 137.700.000 per ettaro cioe' di appena lire 13.770,00/mq, ridottosi a lire 120.000.000 per ettaro per l'anno 1999, cioe' di appena lire 12.000/mq (e l'agrumeto, come si evince dai Bollettini Ufficiali della Regione Campania n. 18 del 6 aprile 1998 e n. 22 del 10 maggio 1999, e' anche tra le colture piu' redditizie nella Regione Agraria n. 13, Colline Litoranee di Salerno, in cui si trova il fondo). Deve pertanto concludersi che, essendo il giudizio sorto dopo l'entrata in vigore della legge n. 359/92, l'indennita' di esproprio andrebbe liquidata alla stregua dei criteri dettati dalle norme della cui legittimita' costituzionale si dubita, con la conseguenza che la somma spettante alla opponente Ferrara per tale titolo risulterebbe irrisoria, se rapportata al valore di mercato del suolo come emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal CTU (solo per fare qualche esempio, in una compravendita del 1996 per notaio Buonocore viene indicato un prezzo di lire 59.524 al mq, e in un atto di chiusura espropriativa del 1997 per notaio Giuseppe Monica di Salerno viene calcolato un prezzo unitario di lire 188.580 al mq: cfr. rel. CTU pag. 24 e 26). Non appare, allora, manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale delle norme in esame per violazione dell'art. 117 primo comma Cost., nel testo introdotto dalla legge cost. 18 ottobre 2001 n. 3, per il loro contrasto con le norme internazionali convenzionali ed, in particolare, con l'art. 1 del Primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato, unitamente alla Convenzione, con legge. n. 848/55. Come ampiamente chiarito dalla Corte costituzionale nelle due sentenze nn. 348 e 349 del 2006, il giudice comune non puo' procedere alla diretta disapplicazione della norma interna in contrasto con la norma CEDU. Le norme CEDU, in quanto di origine pattizia, sono infatti escluse dall'ambito di operativita' dell'art. 10, primo comma Cost. che con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie, disponendo l'adattamento automatico alle stesse dell'ordinamento giuridico italiano, sicche' non possono di per se' stesse essere assunte quali parametri del giudizio di legittimita' costituzionale (C. cost. sentenza n. 188/80) ovvero come norme interposte ex art. 10 Cost.(Corte cost. ordinanza n. 143 del 1993), e non rientrano neppure fra le norme che, come quelle comunitarie, hanno piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione nello Stato, senza necessita' di leggi di ricezione e adattamento, in considerazione delle limitazioni alla sovranita' nazionale che l'art. 11 Cost. consente quando siano necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni (Corte cost. sentenza n. 188/80 cit.). In sostanza, la CEDU non crea un ordinamento giuridico sovranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli, Stati contraenti, ma e' configurabile come un trattato .internazionale multilaterale da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti - omisso medio - per tutte le autorita' interne degli Stati (C. cost. sent.. n. 348/06 cit.). L'art. 117, primo comma Cost. condiziona pero' l'esercizio della potesta' legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla CEDU. Vanno qui brevemente richiamati i principi interpretativi enunciati nella sentenza n. 348/06 cit: l) E' escluso che l'articolo sia operante solo nei rapporti interni fra Stato e Regioni, in quanto il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale, la cui validita' non puo' mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialita' normativa generale: la legge e' sempre la stessa e deve ricevere un'interpretazione uniforme, nei limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l'applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo. 2) Anche se si restringesse la portata normativa dell'art. 117, primo comma Cost. esclusivamente all'interno del sistema dei rapporti fra potesta' legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque a vincolare la potesta' legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal comma 2 del medesimo articolo, di esclusiva competenza statale, sia in quelle indicate dal comma 3, di competenza concorrente. 3) La struttura della norma costituzionale in esame e' simile a quella di altre norme della Carta fondamentale, che sviluppano la loro concreta operativita' solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango subcostituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualita' che le leggi in esso richiamate devono possedere: si deve cioe' riconoscere che il parametro di cui all'art. 117, primo comma Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati gli «obblighi internazionali» che vincolano la potesta' legislativa dello Stato e delle regioni. 4) Fra tali obblighi rientra quello assunto dall'Italia, con la sottoscrizione e la ratifica. della CEDU, di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato. 5) Poiche' la CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver istituito un organo giurisdizionale, la Corte europea dei diritti dell'uomo, cui e' affidata la funzione di interpretare le norme della convenzione stessa, la legislazione italiana va adeguata alle predette norme nel significato loro attribuito dalla Corte. 6) Le norme CEDU, nell'interpretazione che viene loro data dalla Corte di Strasburgo, per poter integrare il parametro di costituzionalita' di cui all'art. 117, primo comma Cost. devono superare il vaglio della loro compatibilita' con l'ordinamento costituzionale italiano, che non puo' essere modificato da fonti esterne se non nei limiti indicati dall'art. 111 Cost. L'art. 1 del Primo protocollo addizionale della CEDU stabilisce che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo' essere privato della sua proprieta' se non per causa di utilita' pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e da principi generali del diritto internazionale». La Corte europea dei diritti dell'uomo ha interpretato tale norma in numerose sentenze, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatesi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell'indennita' di espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce un'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o giuridica deve realizzare «un giusto equilibrio» tra le esigenze di interesse generale della comunita' ed il principio della salvaguardia dei diritti e delle liberta' fondamentali. La necessita' di assicurare siffatto equilibrio, secondo la Corte, concerne tutto il contenuto dell'art. 1 del primo Protocollo: anche la disposizione che prevede che nessuno puo' essere privato della sua proprieta' se non per causa di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale va pertanto letta alla luce del primo principio (CEDU., sez. I, 9 marzo 2006, n. 10162). Al fine di stabilire se le misure adottate da uno Stato nell'interesse generale garantiscono un giusto equilibrio e non riversano sul proprietario un peso sproporzionato, occorre prendere in considerazione le modalita' di indennizzo previste dalla leggi interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo ha osservato che, senza il versamento di una somma ragionevole in rapporto al valore del bene, la privazione della proprieta' che si realizza attraverso l'esproprio costituisce normalmente un'ingerenza eccessiva e viola l'art. 1 del Primo protocollo e che, in caso di espropriazione isolata di un terreno, soltanto un indennizzo integrale puo' essere considerato ragionevole, mentre la mancanza di un indennizzo integrale, ai sensi dell'art. l del Protocollo n. 1, puo' giustificarsi soltanto in presenza di obiettivi legittimi di pubblica utilita' che perseguono misure di riforma economica o di giustizia sociale (C. eur. sez. I, 29 luglio 2004 nonche' n. 10162 cit.). Ad avviso di questo Collegio remittente, l'art. 5-bis, comma 4 della legge n. 359/92 e l'art. 16 commi 4 e 5 della legge n. 865/71 - prevedendo per la determinazione dell'indennita' di esproprio dei suoli agricoli e di quelli non edificabili un criterio astratto e predeterminato (quale e' quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di quella piu' redditizia nella regione agraria di appartenenza dell'area da espropriare), criterio che e' del tutto svincolato dalla considerazione dell'effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e che, per quanto sopra si e' detto, non assicura il versamento all'avente diritto di un indennizzo integrale o quantomeno «ragionevole» - si pongono, ad avviso di questo Collegio, in evidente contrasto con l'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale nell'interpretazione datane dalla Corte CEDU. Va escluso, poi, che tale interpretazione confligga con la tutela di interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione, posto che anche l'art. 42 terzo comma e' stato costantemente interpretato dalla Corte costituzionale nel senso che, pur non essendo il legislatore tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione dell'indennita', valido in ogni fattispecie espropriativa o ad assicurare l'integrale riparazione della perdita subita dal proprietario espropriato, 1'indennita' medesima non puo' mai essere meramente simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (cfr. Corte cost. n. 5/1980). Vero e' che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 261 del 1997, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art 5-bis comma 4 della legge n. 359/92 e dell'art 16, commi 4 e 5 della legge n. 865/71, sollevata in riferimento agli artt. 42, terzo comma, 24 e 1, terzo comma Cost. La questione era stata pero' affrontata dai giudici remittenti in base ai diversi rilievi dell'ingiustificata equiparazione, ai fini della determinazione delle indennita', fra terreni agricoli (per i quali si presupponeva la correttezza del criterio tabellare previsto dalle norme censurate e terreni non edificabili, sostenendosi, in pratica, la necessita' di introduzione di un tertium genus fra le due categorie di suoli individuate dal legislatore, e dell'altrettanto ingiustificato affidamento della quantificazione degli indennizzi all'insindacabile determinazione della P.A., cui spetta, attraverso apposite commissioni, stabilire i V.A.M. dei diversi tipi di coltura nell'ambito di ciascuna regione agraria. La Corte costituzionale si limito' allora ad osservare che la soluzione adottata dal legislatore per semplificare il calcolo indennitario, ancorche' non obbligata, non presentava caratteri di irragionevolezza o di arbitrarieta' tali da far riscontrare un vizio sotto il profilo denunciato, in quanto di per se' non pregiudicava il serio ed effettivo ristoro del proprietario espropriato, tenuto conto che anche nell'ambito delle aree la cui indennita' andava commisurata al V.A.M. operavano meccanismi differenziati che a loro volta tenevano conto di una serie di fattori e che, in ogni caso, le tabelle formate dalle commissioni amministrative e le relative applicazioni non restavano sottratte al sindacato giurisdizionale sugli atti dell'amministrazione. In questa sede, invece, si vuole sottolineare come, alla luce dell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo all'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale, non possa ritenersi ragionevole qualsivoglia criterio di determinazione dell'indennita' che prescinda dal dato di partenza del valore di mercato del bene espropriato, non dovendosi piu' valutare se la norma interna di per se' «non pregiudichi» il serio ed effettivo ristoro della perdita del bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di assicurare tale ristoro in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione e non solo in via occasionale, in virtu' di fattori casuali e contingenti, legati alla specifica situazione del terreno ablato. In tale ottica, e' la stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il calcolo dell'indennizzo - e non gia' la mancata previsione di una terza tipologia di aree, intermedia fra quelle agricole e quelle edificabili - che appare priva di giustificazione. La considerazione, del resto, risulta in linea con cio' che e' stato affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 5/80 cit. e ribadito nella sentenza n. 348/07 cit., nel senso che, perche' possa realizzarsi un serio ristoro, «occorre far riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che «il principio dei serio ristoro e' violato quando per la determinazione non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare, ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso». I suddetti principi, ancorche' enunciati dalla Corte costituzionale solo con riguardo ai terreni edificabili, dovrebbero logicamente - ad avviso di questa Corte remittente - ritenersi validi ed operanti anche in relazione ai terreni agricoli ed, a maggior ragione, a quelli privi di possibilita' legali ed effettive di edificazione ad essi equiparati dalla legge n. 352/92, posto che nell'attuale contesto storico, economico e finanziario (in cui si e' assistito alla progressiva scomparsa del latifondo privato e dei contratti agrari, alla parcellizzazione dei suoli, all'allargamento delle aree urbane in danno delle campagne, anche attraverso fenomeni di abusivismo sempre tollerati dalle amministrazioni locali e spesso condonati in via legislativa, e, per converso, alla valorizzazione delle zone scarsamente edificate, con l'istituzione di parchi nazionali e regionali volti alla salvaguardia del territorio, all'interno dei quali e' peraltro molto sviluppata l'attivita' turistica ed ampiamente autorizzata la ristrutturazione di comodi rurali e l'apertura di aziende agrituristiche) l'interesse del privato all'acquisto di tali categorie di terreni e' determinato dalle possibilita' di sfruttarli economicamente per fini diversi da quello mero di impiantarvi una coltivazione, sicche' non e' piu' predicabile una corrispondenza fra il loro valore agricolo medio ed il loro valore di mercato. Per le medesime ragioni, non appare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale delle norme censurate per violazione dell'art. 42, terzo comma Cost. Non appare, infine, manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art 5-bis, comma 4 della legge n. 359/92 e dell'art. 16, comma 5 e 6 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 per violazione dell'art. 3 Cost. Con la piu' volte citata sentenza n. 348/07, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto n. 359, nonche', in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327. A seguito di tale pronuncia risultano definitivamente espunte dall'ordinamento le disposizioni che prevedevano che l'indennita' di esproprio dei terreni edificabili andasse determinata in misura pari alla media fra il loro valore venale ed il reddito dominicale rivalutato degli ultimi dieci anni. Per le espropriazioni ancora in corso (e per quelle future) e' poi intervenuto l'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, il cui comma 89, lettera a) ha sostituito l'art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001, stabilendo che l'indennita' di espropriazione di un'area edificabile e' determinata in misura pari al valore venale del bene e che quando l'espropriazione e' finalizzata ad attuare interventi diriforma economico-sociale l'indennita' e' ridotta del 25%. Per i giudizi ancora in corso in cui e' in contestazione la misura dell'indennita' di esproprio trova invece applicazione il criterio del valore venale del bene previsto dall'ari 39 della legge n. 2359 del 1865 (cfr. cass. n. 8731/09). In sostanza, fatta salva l'ipotesi di espropriazione finalizzata all'attuazione di interventi di riforma economico-sociale (per i quali e' comunque prevista una riduzione dell'indennita' del solo 25%) l'indennita' di esproprio per i suoli edificabili e' oggi corrispondente al valore di mercato del bene. L'adozione del diverso criterio - astratto e predeterminato - dettato, per i suoli agricoli e per i suoli non edificabili, dalle norme della cui legittimita' costituzionale si dubita crea allora un'ingiustificata disparita' di trattamento fra proprietari, non scorgendosi alcuna plausibile ragione in base alla quale il diritto a percepire un indennizzo commisurato al valore venale dell'area ablata non debba essere riconosciuto anche a coloro che possiedono un terreno privo di vocazione edilizia.