LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha pronunciato, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo  1953,
n. 87, la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al  n.  2787
del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 2005 avente  ad
oggetto: opposizione alla stima, tra Ferrara Livia,  rappresentata  e
difesa dagli avv.ti Giorgio Stella Richter e Danno Marzano e con essi
elettivamente domiciliata in Napoli via Solimene, 155  presso  l'avv.
Gianpiero Profeta, come da procura in calce all'atto di  riassunzione
e alla comparsa del 2 maggio 2008, attrice e  Comune  di  Salerno  in
persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso
dall'avv. Edilberto Ricciardi e con lui elettivamente domiciliato  in
Napoli  via  Giordano  Bruno,  142  presso  l'avv.  Ernesto   Alfredo
Ricciardi, come da procura a margine della comparsa di  costituzione,
convenuto. 
 
                          Rilevato in fatto 
 
    La Corte di appello di Salerno con sentenza 5 settembre  2001  ha
determinato in L. 10.778.315.029 l'indennita' dovuta a Livia  Ferrara
per l'espropriazione (con decreti del 10 febbraio 1998  e  22  giugno
1999) di alcuni terreni di sua proprieta'  da  parte  del  Comune  di
Salerno per la realizzazione del Parco del  Mercatello  riportati  in
catasto al fol.36, part. 955, 135, 957, 956, 662, 946, 947, 663, 664,
665, 973, 974, 975, 976, 977, 1158, 1169, 50, 654,  944,  945,  1172,
653, 655, 652,656) e in L. 634.416.885  l'indennita'  di  occupazione
temporanea, osservando: 
        a) che gli immobili gia' inclusi dal P.R.G. di  quel  Comune,
approvato, con  d.P.R.  4  febbraio  1965.  in  zona  intensiva  C  a
formazione lineare e semiaperta (con esclusione delle parti destinate
a strade ed a verde) a seguito di variante definitivamente  approvata
con decreto del Presidente della Giunta Reg. Campana, del  13  luglio
1994, facevano parte di una zona  (Pastena)  classificata  8  B  gia'
satura,  destinata  a  standard  urbanistici,  e  cioe'  a   pubblici
riservati ad attivita' collettive, al verde pubblico, a parcheggi,  a
servizi pubblici o attrezzature pubbliche di interesse generico; 
        b) che, trattandosi di  declassamento  attuato  per  esigenze
discrezionali  pubblicistiche,   del   relativo   vincolo   destinato
all'espropriazione   non   doveva   tenersi   conto    nella    stima
dell'indennita'; e  d'altra  parte  la  variante  laddove  consentiva
soltanto interventi di  manutenzione  ordinaria  e  straordinaria  di
risanamento conservativo, si riferiva necessariamente alle aree  gia'
edificate, mentre per quelle che non lo  erano  veniva  prevista  una
vasta zona rivolta a  rendere  piu'  fruibile  l'uso  del  patrimonio
edilizio; 
    c) che per la valutazione delle aree,  percio'  da  classificarsi
edificabili,    il    loro    valore,    applicando     il     metodo
sintetico-comparativo,  poteva  ricavarsi  da  altra  sentenza  della
stessa Corte del 1986, nonche' da due precedenti atti del comune  con
cui  erano  stati  determinati  altrettanti  indennizzi  in   materia
espropriativa mediando i  relativi  prezzi  ed  adeguandoli  mediante
indici ISTAT all'epoca dei decreti ablativi: cosi' ottenendosi quello
di L. 475.000 mq., mentre per la zona destinata a strada di piano  il
valore doveva restare quello di L. 140.000 mq., attribuito dal comune
alle aree destinate a standard; 
    d) che non era applicabile la decurtazione del 40%  prevista  dal
1° comma dell'art. 5 della legge n. 359 del 1992 per la  sproporzione
esistente  tra  l'indennita'  offerta   dal   Comune,   assolutamente
inadeguata all'effettivo valore delle aree, e quella e come accertata
dalla consulenza tecnica. 
    Contro la decisione il Comune di Salerno ha proposto ricorso  per
Cassazione sulla base di tre motivi, denunciando,  con  il  primo  di
essi, la violazione degli art. 5-bis della legge n. 359 del 1992, gli
articoli 7, 10, 40 e 41 della legge n. 1150 del 1942 e l'art.  3  del
D.M. n. 1444 del 1968. Ha osservato in particolare  che  la  sentenza
abbia  qualificato  la  variante   del   1994   vincolo   preordinato
all'esproprio e dichiarato il terreno edificabile, senza considerare: 
        1) che occorreva accertare se la stessa  avesse  funzione  di
zonizzazione  del  territorio  ovvero  di  localizzazione  dell'opera
implicante la traslazione dei beni all'ente pubblico, essendo, invece
del irrilevante che il declassamento della zona  fosse  avvenuto  per
esigenze discrezionali pubblicistiche; 
        2) che la destinazione  a  standard  urbanistici  delle  aree
espropriate era generica e non finalizzata alla realizzazione di  una
specifica opera pubblica, peraltro deliberata dopo 8 anni; e comunque
successiva alla riclassificazione in zona B in cui secondo  l'art.  7
del provvedimento di variante sono ammissibili soltanto interventi di
manutenzione, risanamento e ristrutturazione; 
        3) che riferendo questa riclassificazione solo alle aree gia'
edificate e non anche a quelle ancora libere ove  doveva  operare  la
destinazione a standard, la sentenza aveva  sostanzialmente  ritenuto
la illegittimita' della zonizzazione  e  della  determinazione  degli
standard, pur in assenza di una domanda al riguardo di controparte; 
        4) che, d'altra parte, la destinazione  suddetta  costituisce
proprio un provvedimento attuativo della zonizzazione; e la  variante
lo strumento urbanistico per la modifica del P.R.G. che nel caso  era
addirittura   obbligatoria   onde   consentire   l'osservanza   delle
proporzioni imposte dall'art. 41 della legge urbanistica; 
        5) che l'inclusione dei terreni in zona C in luogo di  quella
B in cui li aveva compresi detta  variante  comportava,  dunque,  una
palese violazione dell'art. 4 della 2248 del 1865 All.E; e non poteva
giustificarsi neppure al lume della sentenza 12/1992 del Consiglio di
Stato che aveva ritenuto la zona edificabile, essendo stata resa  con
riguardo alla situazione antecedente alla variante. 
    La Corte suprema, con la sentenza n. 10265/04 del 28 maggio 2004,
accogliendo il predetto motivo, ha  rigettato  il  primo  motivo  del
ricorso incidentale della Ferrara e,  ritenuti  assorbiti  gli  altri
motivi, ha  cassato  la  sentenza  in  relazione  al  motivo  accolto
rinviando  a  questa  Corte  per  una  nuova   determinazione   delle
indennita'  attenendosi  ai   principi   esposti   nonche'   per   la
liquidazione delle spese del giudizio di legittimita'. 
    Ha affermato in sostanza la Corte suprema  -  nell'accogliere  il
primo motivo del ricorso principale  -  che  nell'accertamento  della
qualita'  edificatoria  di  un'area  ai  fini  della   determinazione
dell'indennita' di  esproprio,  in  presenza  di  variante  al  piano
regolatore generale il carattere conformativo di essa  (che  soltanto
consente di tenerne conto ai fini indennitari) e non  ablatorio,  non
discende dalla collocazione in una specifica categoria  di  strumenti
urbanistici,   e   neppure   dalla   tipologia   delle   destinazioni
individuate, ma dipende soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e
struttura, che presentano i vincoli in essa contenuti. Tale carattere
e' dunque configurabile  ove  tali  vincoli  mirino  ad  una  (nuova)
zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso,  si'
da incidere su di una generalita'  di  beni,  nei  confronti  di  una
pluralita'   indifferenziata   di   soggetti,   in   funzione   della
destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono  ed  in  ragione
delle sue caratteristiche intrinseche o del  rapporto  (per  lo  piu'
spaziale) con un'opera pubblica; per converso,  se  la  variante  non
abbia una tal natura generale,  ma  imponga  un  vincolo  particolare
incidente su beni determinati, in funzione non gia' di  una  generale
destinazione di zona, ma della localizzazione di  un'opera  pubblica,
la cui realizzazione non puo' coesistere con la  proprieta'  privata,
il vincolo che  la  stessa  contiene  deve  essere  qualificato  come
preordinato alla relativa espropriazione  e  da  esso  deve,  dunque,
prescindersi nella qualificazione dell'area, pur quando  la  variante
abbia mutato la classificazione urbanistica di quest'ultima,  con  la
conseguenza che soltanto in tal  caso  deve  farsi  riferimento  alla
previgente destinazione del piano regolatore generale. 
    Alla riassunzione davanti a questa Corte di rinvio ha  provveduto
la Ferrara  con  atto  del  26  maggio  2005  chiedendo  le  seguenti
pronunce: 
        «previa ammissione, occorrendo, di c.t.u. diretta. sia ad una
ricostruzione genetica e  storica  della  strumentazione  urbanistica
generale del Comune di Salerno che ad una migliore determinazione del
valore  venale  dell'area  espropriata  anche  in  relazione  al  suo
ulteriore incremento nelle more del  presente  giudizio  -  disattesa
ogni contraria istanza e ragione,  in  accoglimento  dell'opposizione
alla  stima  a)  in  via  preliminare  in  forza  dell'eccezione  qui
proposta, dichiarare che vi e' giudicato  (esterno)  in  ordine  alla
natura di vincolo non  generalizzato  ma  particolare  imposto  dalla
variante relativamente al terreno per cui e' causa,  subordinatamente
accertando  comunque  tale  natura;  b)  conseguentemente  dichiarare
ingiusta e contra legem  la  misura  dell'indennita'  depositata  dal
Comune di Salerno; c) dichiarare che nella fattispecie  in  esame  il
criterio estimativo applicabile e' quello indicato  dall'art.  5-bis,
legge n. 359/92 per i suoli edificabili; d) dichiarare, altresi', che
nel caso di specie non e' applicabile la riduzione del  40%  prevista
per l'ipotesi di  mancata  accettazione  dell'indennita'  offerta  in
quanto l'espropriando non e' stato posto nelle  condizioni  di  poter
convenire la cessione volontaria ai sensi dell'art.  5-bis  legge  n.
359/92; e) in ogni  caso,  determinare  in  misura  non  inferiore  a
5.556.535,15 (L. 10.778.315.029) l'ammontare della giusta  indennita'
di esproprio dovuta all'attrice tenendo anche conto  del  danno  alle
parti residue del terreno che,  in  seguito  all'espropriazione,  non
saranno piu'  suscettibili  di  utile  destinazione,  condannando  al
pagamento diretto ovvero ordinandone il deposito nelle forme di legge
delle somme integrative;  f)  determinare,  inoltre,  in  misura  non
inferiore a € 327.648,97 (L. 634.416.885) o in  quell'altra  ritenuta
di giustizia l'indennita' di occupazione provvisoria. Il tutto  oltre
rivalutazione ed interessi, anche anatocistici; g) con vittoria delle
spese dell'intero giudizio, con attribuzione».  
    Il Comune di Salerno, costituitosi nel  giudizio  di  rinvio  con
comparsa del 29 luglio 2005, ha  chiesto  alla  Corte  di  dichiarare
inammissibili, improponibili e comunque infondate le domande attrici,
con vittoria di spese anche relativamente al giudizio di cassazione. 
    Con sentenza non definitiva emessa in data odierna il Collegio ha
accertato: 
        che il suolo era  incluso  dall'originario  Piano  Regolatore
Generale del Comune di Salerno approvato con decreto  del  Presidente
della Giunta Regionale 4 febbraio 1965 in zona intensiva c  tipologia
9 a formazione lineare e semiaperta; e che  una  successiva  variante
adottata con delibera della  stessa  amministrazione  n.  71  del  18
dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della  Giunta
Regionale Campania n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva individuato  una
zona 13 (Pastena) omogenea gia' satura in cui  l'aveva  inclusa,  con
destinazione a standard urbanistici consistenti in spazi  pubblici  o
riservati ad attivita' collettive, al verde pubblico, a parcheggi,  a
servizi pubblici, o attrezzature pubbliche di interesse generico; 
        che sulla base dei  criteri  enunciati  dalla  suprema  Corte
(pag. 13 della sentenza n. 10265 del 2004 relativa al caso di specie,
ma anche Cass. s.u. 22 ottobre 2008, n. 28051; cass. 21 gennaio 2005,
n. 1336) e cioe' dall'esame dei  requisiti  oggettivi,  di  natura  e
struttura, che presentano i vincoli contenuti  nella  variante,  deve
ritenersi senz'altro sussistente il carattere  conformativo  di  essa
(che consente di tenerne conto ai fini indennitari); 
        la  natura  inedificabile  del  suolo  emerge  con  chiarezza
proprio dal disposto dell'art. 7 ultimo comma  della  variante  (....
Tutte le aree attualmente libere  ricadenti  nelle  zone  omogenee  B
anche se comprese nei piani di  recupero,  a  servizio  o  pertinenze
(cortili, giardini e comunque spazi liberi a qualsiasi uso destinati)
di fabbricati o gruppi di fabbricati sono assolutamente inedificabili
anche in  sede  di  recupero,  ristrutturazione  o  ricostruzione  di
manufatti esistenti»). 
 
                         Ritenuto in diritto 
 
    Come gia'  esposto  nella  sentenza  non  definitiva,  a  rigore,
dovrebbe  applicarsi,  per  la  determinazione   dell'indennita'   di
espropriazione (e di quella di occupazione  temporanea)  il  criterio
del valore agricolo medio ai sensi dell'articolo 16  della  legge  22
ottobre 1971, n. 865, (cfr. art. 5-bis comma  4  del  d.l  11  luglio
1992, n. 333 convertito con modificazioni nella legge 8 agosto  1992,
n. 359 che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al
titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865). 
    Questa Corte, pero',  dubita  della  legittimita'  costituzionale
del comma 4 dell' art. 5-bis del decreto-legge  11  luglio  1992,  n.
333, convertito con modificazioni nella  legge  8  agosto  n.  359  -
applicabile ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore  della
legge che lo ha introdotto - secondo il quale «per le aree agricole e
per quelle che....  non  sono  classificabili  come  edificabili,  si
applicano le norme di cui al titolo II della legge 22  ottobre  1971,
n. 865 e successive  modificazioni  e  integrazioni»,  nonche'  della
legittimita' costituzionale dei commi 5 e  6  dell'art.  16  di  tale
ultima legge, cosi' come  sostituiti  dall'art.  14  della  legge  28
gennaio 1977, n. 10 (che, secondo il diritto vivente, sono tuttora in
vigore esclusivamente con riguardo alle aree non aventi  destinazione
edilizia)  che  a  loro  volta   prevedono   che   «l'indennita'   di
espropriazione ....per  le  aree  esterne  ai  centri  edificati,  e'
commisurata al valore agricolo medio...  corrispondente  al  tipo  di
coltura in atto nell'area da espropriare» e che «nelle aree  comprese
nei centri edificati, l'indennita' e' commisurata al valore  agricolo
medio della coltura piu' redditizia tra  quelle  che,  nella  regione
agraria da espropriare, coprono una superficie  superiore  al  5%  di
quella coltivata nella regione stessa». 
    Le predette disposizioni normative, che all'evidenza non appaiono
suscettibili  di  un'interpretazione  diversa  da  quella  letterale,
stabiliscono un criterio di determinazione delle indennita' dei suoli
agricoli e dei suoli non edificabili del tutto disancorato  dal  loro
effettivo valore di mercato. 
    Invero, ancorche' non possa escludersi che valore  di  mercato  e
valore agricolo medio (cd. V.A.M.)  di  tali  categorie  di  immobili
siano talvolta, in concreto, coincidenti, non v'e' dubbio  che  assai
spesso il primo valore  risulti  (anche  notevolmente)  superiore  al
secondo, in quanto l'appetibilita' di  un  terreno  sul  mercato  non
dipende  solo  dalla  sua  edificabilita',  ma  da  molteplici  altri
fattori, come ad esempio la sua posizione e le concrete  possibilita'
di sfruttamento  per  fini  diversi  dalla  coltivazione.  Cosi',  ad
esempio,  un  suolo  agricolo  puo'  costituire  area  di  pertinenza
(adibita a giardino o ad orto) di  una  villa  in  zona  turistica  o
costituire area sulla quale insiste un c.d. «comodo rurale» del quale
e' consentita la ristrutturazione; oppure (sempre un suolo  agricolo)
puo' essere acquistato per incrementare la  volumetria  dell'immobile
da realizzare sull'annessa area edificabile; analogamente,  un  suolo
non edificabile sito all'interno di un  centro  abitato  puo'  essere
adibito a giardino  pertinenziale,  a  parcheggio  scoperto,  o  puo'
essere sfruttato per il  completamento  di  un'area  edificabile:  in
tutti  questi  casi  (e  nei  molteplici  altri  che  si   potrebbero
ipotizzare), in una libera contrattazione fra parti private il  suolo
verrebbe venduto ad  un  prezzo  non  solo  assai  maggiore  del  suo
ipotetico «valore  agricolo  medio»,  ma  addirittura  ad  un  prezzo
stabilito prescindendo del tutto da tale valore. 
    La questione e' rilevante nel presente giudizio. 
    Con sentenza non definitiva emessa in data odierna, la  Corte  ha
accertato la natura non edificabile del suolo e  il  valore  agricolo
medio per le colture prevalenti (agrumeto e frutteto)  riportate  nei
dati catastali (attesa la genericita' della descrizione contenuta nel
verbale di consistenza del 24 aprile 1997, in cui si  fa  riferimento
alla presenza di «piantumazione» senza alcuna specificazione del tipo
di coltura: cfr. atti nonche' rel. CTU pag.  18)  sul  terreno  negli
anni 1998 e  1999  (data  dei  decreti  di  esproprio)  era,  per  il
frutteto,  di  L.  86.700.000  per  ettaro  cioe'  di   appena   lire
8.670,00/mq e, per l'agrumeto, per l'anno 1998, di L. 137.700.000 per
ettaro  cioe'  di  appena  lire  13.770,00/mq,   ridottosi   a   lire
120.000.000  per  ettaro  per  l'anno  1999,  cioe'  di  appena  lire
12.000/mq (e l'agrumeto, come  si  evince  dai  Bollettini  Ufficiali
della Regione Campania n. 18 del 6 aprile 1998 e n. 22 del 10  maggio
1999, e' anche tra le colture piu' redditizie nella  Regione  Agraria
n. 13, Colline Litoranee di Salerno, in cui si trova il fondo). 
    Deve pertanto concludersi che, essendo  il  giudizio  sorto  dopo
l'entrata in vigore della legge n. 359/92, l'indennita' di  esproprio
andrebbe liquidata alla stregua dei criteri dettati dalle norme della
cui legittimita' costituzionale si dubita, con la conseguenza che  la
somma spettante alla opponente Ferrara per tale  titolo  risulterebbe
irrisoria,  se  rapportata  al  valore  di  mercato  del  suolo  come
emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal CTU (solo per fare
qualche esempio, in una compravendita del 1996 per  notaio  Buonocore
viene indicato un prezzo di lire 59.524  al  mq,  e  in  un  atto  di
chiusura espropriativa del 1997 per notaio Giuseppe Monica di Salerno
viene calcolato un prezzo unitario di lire 188.580 al mq:  cfr.  rel.
CTU pag. 24 e 26). 
    Non appare, allora,  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale  delle  norme  in  esame  per  violazione
dell'art. 117 primo comma Cost., nel  testo  introdotto  dalla  legge
cost. 18 ottobre 2001 n. 3,  per  il  loro  contrasto  con  le  norme
internazionali convenzionali ed, in particolare,  con  l'art.  1  del
Primo protocollo addizionale della Convenzione  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  ratificato,
unitamente alla Convenzione, con legge. n. 848/55. 
    Come ampiamente chiarito dalla  Corte  costituzionale  nelle  due
sentenze nn. 348 e 349 del 2006, il giudice comune non puo' procedere
alla diretta disapplicazione della norma interna in contrasto con  la
norma CEDU. Le norme  CEDU,  in  quanto  di  origine  pattizia,  sono
infatti escluse dall'ambito di operativita' dell'art. 10, primo comma
Cost.  che  con  l'espressione  «norme  del  diritto   internazionale
generalmente  riconosciute»  si   riferisce   soltanto   alle   norme
consuetudinarie,  disponendo  l'adattamento  automatico  alle  stesse
dell'ordinamento giuridico italiano, sicche' non possono di  per  se'
stesse essere assunte quali parametri del  giudizio  di  legittimita'
costituzionale (C.  cost.  sentenza  n.  188/80)  ovvero  come  norme
interposte ex art. 10 Cost.(Corte cost. ordinanza n. 143 del 1993), e
non rientrano neppure fra le  norme  che,  come  quelle  comunitarie,
hanno piena  efficacia  obbligatoria  e  diretta  applicazione  nello
Stato, senza necessita' di  leggi  di  ricezione  e  adattamento,  in
considerazione delle limitazioni alla sovranita' nazionale che l'art.
11 Cost. consente quando siano necessarie per promuovere  e  favorire
le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace  e  la
giustizia fra le nazioni (Corte cost. sentenza n. 188/80 cit.). 
    In  sostanza,  la  CEDU  non  crea   un   ordinamento   giuridico
sovranazionale e non produce quindi  norme  direttamente  applicabili
negli,  Stati  contraenti,  ma  e'  configurabile  come  un  trattato
.internazionale multilaterale da cui derivano obblighi per gli  Stati
contraenti,  ma  non  l'incorporazione   dell'ordinamento   giuridico
italiano in un  sistema  piu'  vasto,  dai  cui  organi  deliberativi
possano promanare norme vincolanti - omisso  medio  -  per  tutte  le
autorita' interne degli Stati (C. cost. sent.. n. 348/06 cit.). 
    L'art. 117, primo comma Cost. condiziona pero' l'esercizio  della
potesta' legislativa dello Stato e delle Regioni  al  rispetto  degli
obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente  rientrano  quelli
derivanti dalla CEDU. 
    Vanno  qui  brevemente  richiamati  i   principi   interpretativi
enunciati nella sentenza n. 348/06 cit: 
        l) E' escluso che l'articolo sia operante solo  nei  rapporti
interni fra Stato e Regioni, in quanto il dovere  di  rispettare  gli
obblighi  internazionali  incide  globalmente  e   univocamente   sul
contenuto della legge statale, la cui validita'  non  puo'  mutare  a
seconda che la si consideri ai fini della delimitazione  delle  sfere
di competenza legislativa di Stato e  Regioni  o  che  invece  la  si
prenda in esame nella sua potenzialita' normativa generale: la  legge
e' sempre la stessa e deve ricevere un'interpretazione uniforme,  nei
limiti  in  cui   gli   strumenti   istituzionali   predisposti   per
l'applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo. 
        2) Anche se si restringesse la  portata  normativa  dell'art.
117, primo comma Cost. esclusivamente  all'interno  del  sistema  dei
rapporti fra potesta' legislativa statale e regionale configurato dal
titolo V della parte seconda  della  Costituzione,  non  si  potrebbe
negare che esso vale comunque a  vincolare  la  potesta'  legislativa
dello Stato sia nelle materie  indicate  dal  comma  2  del  medesimo
articolo, di esclusiva competenza statale, sia in quelle indicate dal
comma 3, di competenza concorrente. 
        3) La struttura della norma costituzionale in esame e' simile
a quella di altre norme della Carta fondamentale, che  sviluppano  la
loro concreta operativita' solo se poste in stretto collegamento  con
altre norme, di rango subcostituzionale, destinate a  dare  contenuti
ad un parametro che si  limita  ad  enunciare  in  via  generale  una
qualita' che le leggi in esso richiamate devono  possedere:  si  deve
cioe' riconoscere che il parametro di cui all'art. 117,  primo  comma
Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati gli
«obblighi internazionali» che vincolano la potesta' legislativa dello
Stato e delle regioni. 
        4) Fra tali obblighi rientra quello assunto dall'Italia,  con
la sottoscrizione e la ratifica. della CEDU, di adeguare  la  propria
legislazione alle norme di tale trattato. 
        5) Poiche' la CEDU presenta,  rispetto  agli  altri  trattati
internazionali, la caratteristica  peculiare  di  aver  istituito  un
organo giurisdizionale, la Corte europea dei diritti  dell'uomo,  cui
e' affidata la funzione di interpretare le  norme  della  convenzione
stessa, la legislazione italiana va adeguata alle predette norme  nel
significato loro attribuito dalla Corte. 
        6) Le norme CEDU, nell'interpretazione che  viene  loro  data
dalla Corte di  Strasburgo,  per  poter  integrare  il  parametro  di
costituzionalita' di cui  all'art.  117,  primo  comma  Cost.  devono
superare  il  vaglio  della  loro  compatibilita'  con  l'ordinamento
costituzionale italiano, che non  puo'  essere  modificato  da  fonti
esterne se non nei limiti indicati dall'art. 111 Cost. 
    L'art. 1 del Primo protocollo addizionale della  CEDU  stabilisce
che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei  suoi
beni. Nessuno puo' essere privato della sua  proprieta'  se  non  per
causa di utilita' pubblica e nelle condizioni previste dalla legge  e
da principi generali del diritto internazionale». 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo ha interpretato tale norma
in  numerose  sentenze,  dando  vita   ad   un   orientamento   ormai
consolidato, formatesi anche in processi  concernenti  la  disciplina
ordinaria dell'indennita' di espropriazione,  secondo  il  quale  una
misura che costituisce un'ingerenza nel diritto al rispetto dei  beni
di  una  persona  fisica  o  giuridica  deve  realizzare  «un  giusto
equilibrio» tra le esigenze di interesse generale della comunita'  ed
il  principio  della  salvaguardia  dei  diritti  e  delle   liberta'
fondamentali. 
    La necessita'  di  assicurare  siffatto  equilibrio,  secondo  la
Corte, concerne tutto il contenuto dell'art. 1 del primo  Protocollo:
anche la disposizione che prevede che  nessuno  puo'  essere  privato
della sua proprieta' se non per causa di pubblica  utilita'  e  nelle
condizioni previste dalla legge e dai principi generali  del  diritto
internazionale va  pertanto  letta  alla  luce  del  primo  principio
(CEDU., sez. I, 9 marzo 2006, n. 10162). 
    Al  fine  di  stabilire  se  le  misure  adottate  da  uno  Stato
nell'interesse generale  garantiscono  un  giusto  equilibrio  e  non
riversano sul proprietario un peso sproporzionato,  occorre  prendere
in considerazione le modalita' di  indennizzo  previste  dalla  leggi
interne. 
    A questo proposito la Corte di Strasburgo ha osservato che, senza
il versamento di una somma ragionevole  in  rapporto  al  valore  del
bene, la privazione  della  proprieta'  che  si  realizza  attraverso
l'esproprio costituisce normalmente un'ingerenza  eccessiva  e  viola
l'art. 1 del Primo  protocollo  e  che,  in  caso  di  espropriazione
isolata di un terreno, soltanto un indennizzo integrale  puo'  essere
considerato  ragionevole,  mentre  la  mancanza  di   un   indennizzo
integrale,  ai  sensi  dell'art.  l  del  Protocollo   n.   1,   puo'
giustificarsi soltanto in presenza di obiettivi legittimi di pubblica
utilita' che perseguono misure di riforma economica  o  di  giustizia
sociale (C. eur. sez. I, 29 luglio 2004 nonche' n. 10162 cit.). 
    Ad avviso di questo Collegio remittente, l'art.  5-bis,  comma  4
della legge n. 359/92 e l'art. 16 commi 4 e 5 della legge n. 865/71 -
prevedendo per la determinazione  dell'indennita'  di  esproprio  dei
suoli agricoli e di quelli non edificabili  un  criterio  astratto  e
predeterminato (quale e'  quello  del  valore  agricolo  medio  della
coltura in atto o di quella piu' redditizia nella regione agraria  di
appartenenza dell'area da espropriare), criterio  che  e'  del  tutto
svincolato dalla considerazione dell'effettivo valore di mercato  dei
suoli medesimi e che, per quanto sopra si e' detto, non  assicura  il
versamento all'avente diritto di un indennizzo integrale o quantomeno
«ragionevole» - si pongono, ad avviso di questo Collegio, in evidente
contrasto   con   l'art.   1   del   Primo   Protocollo   Addizionale
nell'interpretazione datane dalla Corte CEDU. 
    Va escluso, poi, che tale interpretazione confligga con la tutela
di interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri  articoli
della Costituzione, posto che anche l'art. 42 terzo  comma  e'  stato
costantemente interpretato dalla Corte costituzionale nel senso  che,
pur non  essendo  il  legislatore  tenuto  ad  individuare  un  unico
criterio  di   determinazione   dell'indennita',   valido   in   ogni
fattispecie espropriativa o  ad  assicurare  l'integrale  riparazione
della  perdita  subita  dal  proprietario  espropriato,  1'indennita'
medesima non puo' mai essere meramente simbolica o irrisoria, ma deve
rappresentare un serio ristoro (cfr. Corte cost. n. 5/1980). 
    Vero e' che la Corte costituzionale, con la sentenza n.  261  del
1997,  ha  dichiarato  manifestamente  infondata  la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art 5-bis comma  4  della  legge  n.
359/92 e dell'art 16, commi 4 e 5 della legge n. 865/71, sollevata in
riferimento agli artt. 42, terzo comma, 24 e 1, terzo comma Cost.  La
questione era stata pero' affrontata dai giudici remittenti  in  base
ai diversi rilievi dell'ingiustificata equiparazione, ai  fini  della
determinazione delle indennita', fra terreni agricoli (per i quali si
presupponeva la correttezza del  criterio  tabellare  previsto  dalle
norme censurate e terreni non edificabili, sostenendosi, in  pratica,
la necessita'  di  introduzione  di  un  tertium  genus  fra  le  due
categorie di suoli individuate dal  legislatore,  e  dell'altrettanto
ingiustificato affidamento  della  quantificazione  degli  indennizzi
all'insindacabile determinazione della P.A., cui  spetta,  attraverso
apposite commissioni, stabilire i V.A.M. dei diversi tipi di  coltura
nell'ambito di ciascuna regione agraria. 
    La Corte costituzionale si limito' allora  ad  osservare  che  la
soluzione  adottata  dal  legislatore  per  semplificare  il  calcolo
indennitario, ancorche' non obbligata, non  presentava  caratteri  di
irragionevolezza o di arbitrarieta' tali da far riscontrare un  vizio
sotto il profilo denunciato, in quanto di per se' non pregiudicava il
serio ed effettivo ristoro del proprietario espropriato, tenuto conto
che anche nell'ambito delle aree la cui indennita' andava commisurata
al  V.A.M.  operavano  meccanismi  differenziati  che  a  loro  volta
tenevano conto di una serie di  fattori  e  che,  in  ogni  caso,  le
tabelle  formate  dalle  commissioni  amministrative  e  le  relative
applicazioni non restavano  sottratte  al  sindacato  giurisdizionale
sugli atti dell'amministrazione. 
    In questa sede, invece, si vuole  sottolineare  come,  alla  luce
dell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo  all'art.  1  del
Primo  Protocollo  Addizionale,  non  possa   ritenersi   ragionevole
qualsivoglia criterio di determinazione dell'indennita' che prescinda
dal dato di partenza del valore di mercato del bene espropriato,  non
dovendosi  piu'  valutare  se  la  norma  interna  di  per  se'  «non
pregiudichi» il serio ed effettivo ristoro della perdita del bene ma,
piuttosto, se essa sia in grado di assicurare tale  ristoro  in  ogni
fattispecie in cui debba trovare  applicazione  e  non  solo  in  via
occasionale, in virtu' di fattori casuali e contingenti, legati  alla
specifica situazione del terreno ablato. 
    In tale ottica, e' la stessa dicotomia immaginata dal legislatore
al fine di semplificare il calcolo dell'indennizzo - e  non  gia'  la
mancata previsione di una terza tipologia  di  aree,  intermedia  fra
quelle  agricole  e  quelle  edificabili  -  che  appare   priva   di
giustificazione. 
    La considerazione, del resto, risulta in linea con  cio'  che  e'
stato affermato dalla Corte costituzionale  nella  sentenza  n.  5/80
cit. e ribadito nella sentenza n. 348/07 cit., nel senso che, perche'
possa realizzarsi un serio ristoro, «occorre far riferimento, per  la
determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione  alle
sue  caratteristiche  essenziali,  fatte  palesi   dalla   potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che  «il  principio
dei serio ristoro e' violato quando  per  la  determinazione  non  si
considerino le caratteristiche del bene da espropriare, ma si  adotti
un diverso criterio che prescinda dal valore di esso». 
    I   suddetti   principi,   ancorche'   enunciati   dalla    Corte
costituzionale solo con riguardo ai terreni  edificabili,  dovrebbero
logicamente - ad avviso di questa Corte remittente - ritenersi validi
ed operanti anche in relazione ai  terreni  agricoli  ed,  a  maggior
ragione, a quelli  privi  di  possibilita'  legali  ed  effettive  di
edificazione ad essi equiparati dalla  legge  n.  352/92,  posto  che
nell'attuale contesto storico, economico e finanziario (in cui si  e'
assistito alla progressiva scomparsa  del  latifondo  privato  e  dei
contratti agrari, alla parcellizzazione dei  suoli,  all'allargamento
delle aree urbane in danno delle campagne, anche attraverso  fenomeni
di abusivismo sempre tollerati dalle amministrazioni locali e  spesso
condonati in via legislativa, e, per  converso,  alla  valorizzazione
delle  zone  scarsamente  edificate,  con  l'istituzione  di   parchi
nazionali  e  regionali  volti  alla  salvaguardia  del   territorio,
all'interno  dei  quali  e'  peraltro  molto  sviluppata  l'attivita'
turistica ed ampiamente autorizzata  la  ristrutturazione  di  comodi
rurali  e  l'apertura  di  aziende  agrituristiche)  l'interesse  del
privato all'acquisto di tali  categorie  di  terreni  e'  determinato
dalle possibilita' di sfruttarli economicamente per fini  diversi  da
quello mero di impiantarvi una  coltivazione,  sicche'  non  e'  piu'
predicabile una corrispondenza fra il loro valore agricolo  medio  ed
il loro valore di mercato. 
    Per le medesime ragioni, non appare manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale delle  norme  censurate  per
violazione dell'art. 42, terzo comma Cost. 
    Non appare, infine,  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art 5-bis, comma 4  della  legge  n.
359/92 e dell'art. 16, comma 5 e 6 della legge 22  ottobre  1971,  n.
865 per violazione dell'art. 3 Cost. 
    Con  la  piu'  volte  citata  sentenza  n.   348/07,   la   Corte
costituzionale   ha   dichiarato   l'illegittimita'    costituzionale
dell'art. 5-bis, commi 1 e 2 del decreto-legge  11  luglio  1992,  n.
333, convertito con  modificazioni  nella  legge  8  agosto  n.  359,
nonche', in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2 del  d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327. 
    A seguito di tale  pronuncia  risultano  definitivamente  espunte
dall'ordinamento le disposizioni che prevedevano che l'indennita'  di
esproprio dei terreni edificabili andasse determinata in misura  pari
alla media fra  il  loro  valore  venale  ed  il  reddito  dominicale
rivalutato degli ultimi dieci anni. 
    Per le espropriazioni ancora in corso (e per  quelle  future)  e'
poi intervenuto l'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, il cui
comma 89, lettera a) ha sostituito l'art. 37, comma 1, del d.P.R.  n.
327/2001, stabilendo che l'indennita' di  espropriazione  di  un'area
edificabile e' determinata in misura pari al valore venale del bene e
che quando l'espropriazione  e'  finalizzata  ad  attuare  interventi
diriforma economico-sociale l'indennita' e' ridotta del 25%. 
    Per i giudizi ancora in corso  in  cui  e'  in  contestazione  la
misura dell'indennita' di  esproprio  trova  invece  applicazione  il
criterio del valore venale del bene previsto dall'ari 39 della  legge
n. 2359 del 1865 (cfr. cass. n. 8731/09). 
    In sostanza, fatta salva l'ipotesi di espropriazione  finalizzata
all'attuazione di interventi  di  riforma  economico-sociale  (per  i
quali e' comunque prevista una  riduzione  dell'indennita'  del  solo
25%) l'indennita' di  esproprio  per  i  suoli  edificabili  e'  oggi
corrispondente al valore di mercato del bene. 
    L'adozione del diverso criterio -  astratto  e  predeterminato  -
dettato, per i suoli agricoli e per i suoli  non  edificabili,  dalle
norme della cui legittimita' costituzionale  si  dubita  crea  allora
un'ingiustificata disparita'  di  trattamento  fra  proprietari,  non
scorgendosi alcuna plausibile ragione in base alla quale il diritto a
percepire un indennizzo commisurato al valore venale dell'area ablata
non debba essere  riconosciuto  anche  a  coloro  che  possiedono  un
terreno privo di vocazione edilizia.