IL TRIBUNALE  
 
    Harlem Stone, nato a Benin City (Nigeria), il  1º  dicembre  1980
veniva tratto in arresto dai Carabinieri di Rovereto  il  24  gennaio
2003 per il reato di cui all'art. 14, commi 5-bis e ter d.lgs. n. 286
del 1998, introdotto dall'art. 13 legge n.  189  del  2002  e  quindi
condotto dal p.m. all'udienza  del  27  gennaio  2003  avanti  questo
Giudice per la convalida  dell'arresto  ed  il  conseguente  giudizio
direttissimo.  Il  p.m.  chiedeva  la  convalida  dell'arresto,   pur
prospettando la questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
14, commi 5-ter e quinquies, nella parte in cui  prevedono  l'arresto
obbligatorio ed il giudizio  direttissimo.  La  difesa  si  associava
all'eccezione di legittimita' costituzionale  e  si  rimetteva  sulla
convalida dell'arresto. 
    Prima della convalida questo Giudice ha pronunciato  la  presente
ordinanza   e,   quindi,   ha   disposto   l'immediata    liberazione
dell'imputato e la sua messa a disposizione del  Questore  di  Trento
per  i  provvedimenti  di  competenza,  concedendo  il   nulla   osta
all'espulsione, previsto dall'art. 13, commi 3 e 3-bis d.lgs. n.  286
del 1998. 
    1. - La normativa denunziata. 
    La legge 30 luglio 2002, n. 189 ha  profondamente  modificato  il
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero; di seguito t.u.), anche  prevedendo
nuore figure di reato ovvero  diversamente  disciplinando  figure  di
reato gia' esistenti. In generale il legislatore ha inteso improntare
a maggior rigore, anche dal punto di vista squisitamente  repressivo,
la lotta all'immigrazione clandestina, sulla base di  una  scelta  di
politica criminale in se' certamente legittima in quanto  espressione
del potere discrezionale che compete  al  Parlamento.  Sennonche'  il
legislatore della novella non si e' troppo preoccupato di armonizzare
le nuove disposizioni con quelle gia' in vigore  e  col  sistema  del
codice  di  procedura  penale,  finendo  cosi'  col  configurare  una
disciplina disarmonica e in piu'  punti  gravemente  contraddittoria,
perche' ispirata a diversi e per  molti  versi  opposti  principi  di
politica  del  diritto  e,  quel   che   e'   peggio,   difficilmente
conciliabile coi principi costituzionali. 
    Nel delineare il quadro legislativo che ne  e'  scaturito,  nella
parte che qui interessa, occorre partire  dai  principi  generali  de
t.u. e, in particolare, dal riconoscimento allo  straniero  «comunque
presente» nel territorio dello Stato - dunque anche al clandestino -,
dei «diritti fondamentali della persona umana previsti», dalle  norme
di diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali in vigore
e dai principi di diritto internazionale  generalmente  riconosciuti»
(art. 2, comma 1), oltre che «parita' di trattamento con il cittadino
relativamente  alla  tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e   degli
interessi legittimi (...)», sia pure «nei limiti e nei modi  previsti
dalla legge» (art., 2, comma 5). Questa  norma  e'  assai  importante
perche' costituisce traduzione a livello di legislazione ordinaria  e
nella  specifica  materia  della  condizione  dello  straniero,   del
principio   di    uguaglianza    di    cui    all'art.    3    Cost.,
nell'interpretazione  ormai  assolutamente  maggioritaria.  E'  noto,
infatti, che la Corte costituzionale, con pronunce  ormai  risalenti,
ha superato il dato formale del riferimento ai «cittadini»  contenuto
nell'art. 3 Cost., mediante una lettura sistematica con gli artt. 2 e
10, comma 2 Cost.,  affermando  espressamente  che  il  principio  di
uguaglianza vale anche  per  gli  stranieri  nel  campo  dei  diritti
inviolabili e delle liberta' fondamentali,  sia  pure  ammettendo  la
possibilita' che «nelle situazioni concrete (..) possano  presentarsi
differenze di fatto che il legislatore  puo'  apprezzare  e  regolare
nella sua  discrezionalita'».  (cfr.  pronunce  nn.  120/63,  104/69,
144/70, 244/74 e 54/79). Cosi', pur  ribadendo  in  generale  che  il
principio di uguaglianza non tollera discriminazioni tra cittadino  e
straniero quando  venga  riferito  a  diritti  inviolabili,  come  la
liberta' personale, la Corte costituzionale ha ritenuto legittima  la
norma  che  prevede  l'espulsione  dello   straniero,   come   misura
sostituiva della pena  o  della  misura  cautelare,  perche'  occorre
valutare le posizioni messe a raffronto non gia' in astratto,  bensi'
in relazione  alla  concreta  fattispecie  oggetto  della  disciplina
normativa contestata. Ora, sotto questo aspetto, la  posizione  dello
straniero rispetto  al  territorio  nazionale  non  puo'  che  essere
diversa rispetto a quella del cittadino, perche' «la regolamentazione
dell'ingresso  e  del  soggiorno  dello  straniero   nel   territorio
nazionale  e'   collegata   alla   ponderazione»   -   rimessa   alla
discrezionalita' del legislatore - «di svariati  interessi  pubblici,
quali, ad esempio, la  sicurezza  e  la  sanita'  pubblica,  l'ordine
pubblico,  i  vincoli  di  carattere  internazionale  e  la  politica
nazionale in tema di immigrazione» (cfr. sentenza 62/1994). 
    Con  piu'  specifico  riferimento  alle   misure   di   contrasto
all'immigrazione irregolare, a norma dell'art. 10 t.u. la polizia  di
frontiera respinge gli stranieri che  si  presentano  ai  valichi  di
frontiera senza i requisiti richiesti per l'ingresso  nel  territorio
dello Stato. L'art. 12 prevede  poi  due  distinti  delitti  per  chi
compia atti diretti a procurare l'ingresso  illegale  nel  territorio
dello Stato e per chi compia lo  stesso  fatto  ma  con  il  fine  di
profitto (ovvero se commesso da piu' di tre  persone,  o  utilizzando
servizi internazionali di trasporto o documenti contraffatti), punito
il primo con la pena fino a tre anni di reclusione e la multa fino ad
€ 15.000,00 (comma 1) ed il secondo addirittura  con  la  pena  della
reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di €  15.000,00  a
persona (comma 3); le suddette pene vengono poi inasprite in presenza
delle aggravanti ad effetto speciale di cui, ai commi 3-bis e  3-ter.
Il successivo comma 4 prevede per entrambe le ipotesi sopra  indicate
sempre l'arresto obbligatorio in flagranza di reato nonche'  -  salva
l'ipotesi che «siano necessarie  speciali  indagini»  -  il  giudizio
direttissimo. 
    L'art. 13  disciplina  l'espulsione  amministrativa  disposta,  a
seconda dei casi, dal Ministro dell'interno (comma 1) o dal  Prefetto
(comma 2), con decreto motivato e previo rilascio del nulla  osta  da
parte dell'autorita' giudiziaria, qualora lo straniero sia sottoposto
a procedimento penale (comma 3). Condizioni ostative al rilascio  del
nulla osta sono: a) lo stato di custodia  cautelare  in  carcere,  b)
l'esistenza di inderogabili esigenze processuali non in assoluto,  ma
«in relazione all'accertamento  della  responsabilita'  di  eventuali
concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati  connessi,
e  all'interesse  della  persona  offesa,  c)  la  natura  del  reato
contestato (comma 3-sexies). 
    Nei casi in cui sia stato rilasciato  il  nulla  osta,  la  prova
dell'avvenuta espulsione impone al Giudice del procedimento penale  a
carico dello  straniero  di  pronunciare  sentenza  di  non  luogo  a
procedere, «se non  e'  ancora  stato  emesso  il  provvedimento  che
dispone  il  giudizio»  (comma  3-quater),  salva  la   ripresa   del
procedimento penale  in  caso  di  ulteriore  ingresso  illegale  nel
territorio dello Stato (comma 3-quinquies). 
    Quanto alla concreta esecuzione  dell'espulsione  amministrativa,
la novella del 2002 ha rovesciato il rapporto tra  le  due  modalita'
previste: intimazione a lasciare il territorio dello Stato  entro  il
termine di 15 giorni ed accompagnamento alla  frontiera,  perche'  in
precedenza la prima era considerata l'ipotesi generale e  la  seconda
l'ipotesi speciale,  applicabile  ai  casi  tassativamente  previsti,
mentre  ora  e'  l'inverso.  Infatti  l'attuale   comma   4   dispone
perentoriamente che «l'espulsione e' sempre eseguita dal Questore con
accompagnamento alla  frontiera  a  mezzo  della  forza  pubblica  ad
eccezione dei casi di cui al comma  5»,  ossia  nei  confronti  dello
straniero con permesso di soggiorno scaduto di validita' da  piu'  di
sessanta giorni che non abbia richiesto il rinnovo.  Solo  in  questo
residuo  caso,  ritenuto  meno  grave,   l'espulsione   avviene   con
l'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro  15  giorni.
Tuttavia,   anche   nell'ipotesi   eccettuata,   si    procede    con
l'accompagnamento immediato alla frontiera, se il Prefetto rilevi  il
concreto pericolo che lo straniero si  sottragga  all'esecuzione  del
provvedimento (comma 5). 
    Lo straniero espulso che rientri illegalmente nel territorio nel.
territorio dello Stato e' punito con l'arresto da sei mesi ad un anno
ed e' nuovamente espulso con accompagnamento  alla  frontiera  (comma
13) ed in caso di nuova trasgressione (ovvero di reingresso a seguito
dell'espulsione disposta dal Giudice) con  la  reclusione  da  uno  a
quattro anni (comma 13-bis):  in  entrambi  i  casi  e'  «consentito»
l'arresto in flagranza di reato e, per l'ipotesi piu' grave di cui al
comma 13-bis, anche  il  fermo  (comma  13-ter).  L'uso  del  termine
«consentito» chiarisce si tratta di misure restrittive della liberta'
personale  facoltative  e  non  obbligatorie.   La   norma   prosegue
affermando che si procede «in ogni caso (...) con rito direttissimo». 
    Ulteriori disposizione  riguardo  all'esecuzione  dell'espulsione
sono dettate dall'art. 14 che prevede anzitutto che,  quando  non  e'
possibile    eseguire    l'espulsione     immediatamente     mediante
accompagnamento  alla  frontiera  ovvero  il  respingimento,  per  la
necessita' di prestare soccorso allo  straniero  o  di  procedere  ad
accertamenti; in ordine alla sua  identita'  o  nazionalita',  ovvero
all'acquisizione   dei   documenti    di    viaggio,    ovvero    per
l'indisponibilita' di vettore o altro mezzo di trasporto  idoneo,  il
Questore «dispone» che straniero sia trattenuto presso un  centro  di
permanenza e  assistenza  piu'  vicino  «per  il  tempo  strettamente
necessario» (comma 1),  che  comunque  non  puo'  eccedere  i  trenta
giorni, prorogabile di ulteriori trenta giorni con provvedimento  del
Giudice (comma 5). La restrizione alla liberta' personale conseguente
al provvedimento del Questore, innesca  un  meccanismo  di  convalida
chiaramente ricalcato sul modello di cui all'art. 13 Cost. (richiesta
del Questore nel termine di 48  ore  e  provvedimento  dell'autorita'
giudiziaria nelle 48 successive), che pero' si  distingue  nettamente
da istituti propri del diritto penale, sia per le finalita' (anche di
assistenza), sia per il regime, diverso da quello penitenziario  sia,
infine, per il rito regolato dagli artt. 737 ss.  c.p.c.  Inoltre,  a
differenza della convalida dell'arresto o del fermo, che si limita  a
legittimare ex post l'operato dell'autorita' di polizia giustificando
la detenzione subita, senza consentire  il  protrarsi  della  stessa,
eventualmente oggetto di un ulteriore ed autonomo  provvedimento  del
Giudice fondato su diversi presupposti (gravi indizi di  colpevolezza
ed esigenze cautelari), la convalida del  trattenimento,  oltre  alla
funzione di legittimare l'atto coercitivo dell'autorita' di  polizia,
ha anche quella di fungere da titolo dell'ulteriore privazione  della
liberta' personale dello straniero, fino al limite  massi  di  trenta
giorni, con effetto pertanto rivolto anche al  futuro  (Corte  cost.,
ord. n. 297 del 2001). 
    I  dubbi  di  costituzionalita'  di  questa  anomala   forma   di
privazione provvisoria della liberta' personale sono  stati  superati
dalla fondamentale sentenza n.  105  del  2001  della  Consulta,  con
riferimento alla disciplina precedente alla novella, sulla base della
premessa interpretativa secondo la quale  il  giudizio  di  convalida
rimesso   all'autorita'   giudiziaria   costituisce   «un   controllo
giurisdizionale pieno,  e  non  un  riscontro  meramente  esteriore»,
necessariamente esteso non solo al  provvedimento  del  Questore  che
dispone il trattenimento ma anche al provvedimento di espulsione  con
accompagnamento disposto dal Prefetto,  che  del  primo  costituisce,
ineludibile presupposto,  tanto  che  in  mancanza   va   negata   la
convalida, mentre il trattenimento finisce col costituire  «(...)  la
modalita'  organizzativa  prescelta  dal  legislatore   per   rendere
possibile, nei casi tassativamente previsti dall'art.  14,  comma  1,
che lo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, sia
accompagnato alla frontiera ed allontanato dal territorio nazionale». 
    Si deve infatti ricordare come l'originaria disciplina prevedesse
il giudizio di convalida solo  del  provvedimento  del  Questore  che
disponeva il trattenimento del  centro  di permanenza  temporanea  ed
assistenza piu' vicino, non anche del provvedimento di espulsione con
accompagnamento. La citata sentenza  della  Corte  costituzionale  ha
avuto il merito di chiarire  come  l'espulsione  con  accompagnamento
alla frontiera presenta  di  per  se'  quel  carattere  di  immediata
coercizione che caratterizza le restrizioni della liberta'  personali
che, in quanto tali, non possono  sottrarsi  alle  garanzie  previste
dall'art. 13 Cost., cosi' distinguendosi dalle misure incidenti  solo
sulla liberta' di circolazione. Sulla stessa linea sono del  resto  i
precedenti che hanno affermato la natura di  misura  incidente  sulla
liberta' personale della traduzione del rimpatriando  con  foglio  di
via obbligatorio (sentenza n. 2/56), negandolo invece  all'ordine  di
rimpatrio (sentenza n. 210/95), proprio  muovendo  dalla  distinzione
tra atti della pubblica autorita' obbligatori,  la  cui  inosservanza
espone  il  destinatario  ad  una  sanzione,  e  coercitivi,  la  cui
esecuzione, invece,  viene  fisicamente  imposta  incidendo  in  modo
diretto sulla persona del destinatario. 
    Sennonche' questa importante premessa di  fondo,  inevitabilmente
fondava forti dubbi di legittimita' costituzionale con riferimento ai
casi - estranei a quella decisione  -  in  cui  al  provvedimento  di
espulsione con accompagnamento alla frontiera non facesse seguito una
misura  di  trattenimento.  In  tali  ipotesi,  infatti,  secondo  la
disciplina originaria, mancava totalmente un giudizio di convalida da
parte  dell'autorita'  giudiziaria.  Proprio  per  ovviare  a  questi
pesanti dubbi di costituzionalita', non a caso subito  sollevati,  il
legislatore e' corso ai ripari modificando l'art. 13  con  l'aggiunta
del comma 5-bis e la previsione di un autonomo giudizio di  convalida
del provvedimento di accompagnamento  alla  frontiera  (cfr.  art.  2
decreto-legge n. 51 del 2002, convertito con legge n. 106 del 2002  e
Corte cost. ord. n. 16 del 2003,  che  ha  disposto  la  trasmissione
degli atti ai giudici remittenti  per  una  nuova  valutazione  della
rilevanza della questione  proposta,  alla  luce  delle  sopravvenute
modificazioni legislative). 
    Attualmente, pertanto, i giudizi di convalida previsti sono  due,
uno per il provvedimento di accompagnamento alla frontiera (art.  13,
comma 5-bis t.u.) ed uno per il provvedimento  di  trattenimento  nei
centri di permanenza temporanea ed assistenza (art. 14, commi 3  -  5
t.u.). 
    Quando sia stato adottato  un  provvedimento  di  espulsione  con
accompagnamento alla  frontiera,  non  sia  possibile  eseguirlo  con
immediatezza per i motivi gia'  sopra  indicati  e  non  sia  neppure
possibile trattenere lo straniero  presso  un  centro  di  permanenza
temporanea, ovvero siano trascorsi  i  termini  di  permanenza  senza
essere riusciti ad eseguire l'espulsione,  il  Questore  ordina  allo
straniero di lasciare il  territorio  dello  Stato  entro  5  giorni,
avvertendolo delle conseguenze penali in caso di trasgressione (comma
5-bis). In caso  di  trasgressione  «senza  giustificato  motivo»  lo
straniero e' punito con l'arresto da sei mesi ad un anno e si procede
a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a  mezzo  della
forza pubblica (comma 5-ter). Lo straniero che, espulso ai sensi  del
comma 5-ter, viene trovato in violazione delle norme del testo unico,
nel territorio dello Stato, e' punito con  la  reclusione  da  uno  a
quattro anni (comma 5-quater).  Per  entrambi  i  reati  e'  previsto
l'arresto obbligatorio «e si procede con  rito  direttissimo»  (comma
5-quinquies). 
    2. - L'interpretazione della normativa denunziata. 
    Prescindendo dai molti dubbi  interpretativi  che  queste  ultime
disposizioni sollevano, non direttamente  attinenti  all'oggetto  del
presente giudizio, importante e' sottolineare la struttura  di  reato
permanente del reato contravvenzionale, evidenziata dal fatto che  la
condotta punita e' descritta  col  termine  «si  trattiene»,  sicche'
l'arresto obbligatorio previsto deve ritenersi, nonostante  la  legge
taccia sul punto, un arresto in flagranza a  tutti  gli  effetti.  La
precisazione e' importate perche' in  riferimento  al  diverso  reato
contravvenzionale a struttura istantanea di cui all'art. 13, comma 13
t.u., previsto per il caso in cui lo straniero  espulso  rientri  nel
territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del  Ministro
dell'interno, il legislatore ha sentito l'esigenza di  precisare  che
e' consentito  l'arresto  «in  flagranza»,  cosi'  chiarendo  che  e'
possibile   solo   quando   lo   straniero   e'    colto    nell'atto
dell'introduzione  nello  Stato  ovvero  nelle  fasi   immediatamente
successive, non quando viene  semplicemente  trovato  sul  territorio
dello Stato,  magari  a  distanza  di  anni  dal  commesso  reato  di
ingresso. Questa  interpretazione  appare  del  resto  imposta  dalla
seconda parte dell'art. 13,  comma  ter  t.u.  che,  per  delitto  di
«ingresso» previsto dall'art.  13,  comma  13-bis  tu.,  consente  il
«fermo» cosi' confermando che l'arresto in flagranza non puo'  essere
adottato per lo  straniero  semplicemente  rinvenuto  nel  territorio
nazionale. L'univocita' degli indicati elementi testuali e'  tale  da
far ritenere superata l'interpretazione  giurisprudenziale,  peraltro
risalente e del tutto isolata, secondo la  quale  il  reato  previsto
dall'art. 151 r.d. n. 773 del 1931 configurava  un  reato  permanente
(Cass. pen., 22 febbraio 1989, n. 2890). 
    Infatti, se e' vero che i precetti delle due norme incriminatrici
sono assai simili e' pur vero che mutato e' il sistema complessivo di
riferimento riguardo, ad es., ai  presupposti  e  alle  modalita'  di
esecuzione dell'espulsione e,  soprattutto,  l'interpretazione  della
norma attualmente in vigore non  puo'  prescindere  dalla  previsione
dell'arresto in flagranza e del fermo (quest'ultimo  per  il  delitto
che pero' ha identica struttura) di cui al comma 13-ter. Del resto la
rilevanza del sistema normativo di riferimento  e'  confermata  dalla
stessa  stringata  motivazione  di  quel  lontano  precedente,   che,
prescindendo   dalla   sua   correttezza,   muoveva   proprio   dalla
correlazione con l'art. 150 t.u.l.p.s., concernente  l'allontanamento
dagli stranieri condannati per delitto e l'espulsione per  motivi  di
ordine pubblico, per argomentare come la  condotta  illecita  non  si
esaurisse con il passaggio indebito dalla frontiera protraendosi  per
tutto il tempo in cui lo straniero  risiedesse  senza  autorizzazione
nel territorio dello Stato e,  pertanto,  la  natura  permanente  del
reato. 
    Tornando al reato direttamente oggetto della presente  questione,
appare importante evidenziare due ulteriori  note  strutturali  della
contravvenzione prevista dall'art. 14, comma 5-ter t.u.: la prima  e'
che e' punibile anche a titolo di colpa, trattandosi di una  semplice
contravvenzione; la seconda e' che si tratta di  un  vero  e  proprio
reato omissivo nonostante le  incertezze  determinate  dall'imprecisa
tecnica utilizzata per tipizzare la condotta. Infatti,  l'espressione
«si trattiene»  solo  in  apparenza  descrive  una  condotta  attiva,
perche' in realta' non viene punita la semplice permanenza  illegale.
nel territorio  dello  Stato  bensi'  la  permanenza  «in  violazione
dell'ordine  impartito  dal  questore  ai  sensi  del  comma  5-bis»,
elemento questo che viene ad integrare il nucleo essenziale del reato
rendendolo  molto  vicino,  dal  punto  di  vista  strutturale,  alla
contravvenzione di  cui  all'art.  650  c.p.  Ad  essere  qualificato
illecito e'  cioe'  l'inottemperanza  al  comando  dell'autorita'  di
lasciare il territorio dello Stato nel termine di 5 giorni, tanto  e'
vero che la sussistenza di «un giustificato motivo» esclude il  reato
nonostante una permanenza illegale, sotto il profilo  amministrativo,
nel territorio dello Stato. Tutto cio' chiarisce in modo evidente che
non e' stato incriminato il semplice stato  di  clandestinita'  dello
straniero. 
    Le  caratteristiche  di  reato  permanente,  omissivo  e  colposo
valgono  a  distinguere  questa  fattispecie  dalla   contravvenzione
prevista dall'art. 13, comma  13  che  e',  al  contrario,  un  reato
istantaneo, commissivo e doloso, perche' si consuma al momento in cui
lo straniero espulso faccia rientro  nel  territorio  dello  Stato  e
perche' non e' dubitabile, da un lato, che la  condotta  di  ingresso
nel territorio dello Stato sia una condotta attiva e, dall'altro, che
richieda quale coefficiente psicologico minimo il dolo, nonostante la
natura  contravvenzionale  del  reato.   L'affinita'   tra   le   due
fattispecie attiene, piuttosto, al bene giuridico  protetto,  essendo
inserite  nel  medesimo  corpo  di  norme finalizzato  a  contrastare
l'immigrazione irregolare e  alla  valutazione  legislativa  di  pari
gravita', testimoniata dalla previsione di un'identica pena. 
    Va inoltre sottolineato come l'intimo legame  con  la  violazione
dell'ordine impartito dal Questore di lasciare  il  territorio  dello
Stato entro 5 giorni rende il reato dipendente dagli  ampi  spazi  di
discrezionalita' attribuiti all'autorita' amministrativa in  materia.
In particolare presupposti  dell'ordine  del  Questore  sono:  1)  un
provvedimento di espulsione da  eseguirsi  con  accompagnamento  alla
frontiera; 2)  l'impossibilita'  di  eseguire  l'espulsione  mediante
l'accompagnamento alla frontiera per i motivi precisati dal  comma  1
dell'art. 14, che legittimano la misura del trattenimento nei  centri
di  permanenza  temporanea;  3)  l'impossibilita'  di   disporre   il
trattenimento  dello  straniero  presso  un  centro   di   permanenza
temporanea ovvero scadenza senza esito  dei  termini  di  permanenza.
Ebbene, appare evidente che mentre i presupposti sub  1)  e  2)  sono
sufficientemente definiti  dalla  legge, quello  sub  3)  e'  rimesso
essenzialmente alla  discrezionalita'  dell'autorita'  amministrativa
almeno nel  caso,  nella  prassi  assolutamente  prevalente,  in  cui
l'ordine    del    Questore    sia    adottato    sul     presupposto
dell'impossibilita' di trattenere lo straniero presso  un  centro  di
permanenza temporanea, perche' la legge non prevede i casi  tassativi
di tale  impossibilita',  sicche'  si  deve  ritenere  che  anche  la
semplice indisponibilita' di posti presso i centri  di  permanenza  o
mere difficolta' pratico-organizzative dell'ufficio di p.s.,  purche'
serie, siano in grado di  giustificare  l'emissione  dell'ordine  del
Questore. 
    Ulteriori e piu' gravi  incertezze  interpretative  derivano  dal
mancato coordinamento dell'arresto obbligatorio con l'art. 121  disp.
att. c.p.p., che impone al p.m. di porre immediatamente  in  liberta'
l'arrestato o il fermato quando  ritenga  di  non  dovere  richiedere
l'applicazione di misure coercitive. Nella specie  e'  infatti  certo
che, trattandosi  di  contravvenzione  e  non  sussistendo  i  limiti
edittali,  e'  radicalmente  esclusa  la   possibilita'   stessa   di
applicazione di una qualsiasi misura cautelare coercitiva, sicche' il
cit. art. 121' dovrebbe implicare l'obbligo e non  solo  la  facolta'
del p.m. di liberare immediatamente l'arrestato. 
    Sennonche' l'immediata liberazione dell'arrestato  ad  opera  del
p.m., per quanto sembri imposta dal sistema, pone un  grave  problema
operativo, connesso alla necessita' di rispettare la  previsione  del
rito direttissimo, configurato dalla legge come obbligatorio e che, a
questo punto, si svolgerebbe nei confronti di  un  imputato  a  piede
libero. 
    A fronte delle incertezze proprie del dato  normativo  le  prassi
interpretative  seguite  dai  vari  uffici  di  Procura   e   persino
all'interno del medesimo ufficio si sono  diversificate  secondo  tre
diversi modelli, con tutte le  conseguenze  negative  in  termini  di
parita' di trattamento. 
    Secondo  la  prima  opzione,  seguita  nel  presente   caso,   la
previsione dell'arresto obbligatorio  e  del  rito  direttissimo,  in
quanto norma speciale, prevarrebbe sull'art. 121 disp. att.,  sicche'
l'arrestato va sempre e obbligatoriamente condotto avanti al  Giudice
del  dibattimento  per  la  convalida  ed  il  contestatile  giudizio
direttissimo. Si tratta di una soluzione che certamente ha il  pregio
di adeguarsi alla (presumibile) volonta' storica del legislatore  del
2002 e di cercare di conferire una certa coerenza  ad  una  normativa
che non brilla per questo aspetto, ma poggia su  una  premessa  -  il
rapporto tra art. 121 disp. att. c.p.p. e art. 14, comma  5-quinquies
d.lgs. n. 286 del 1998 in termini di norma generale / norma  speciale
- che non puo' essere condivisa perche' le due  norme  non  regolano,
neppure in parte, la medesima  materia,  prevedendo  la  seconda  una
nuova  ipotesi  di  arresto  obbligatorio  e   regolando   la   prima
l'attivita' successiva all'arresto (o al fermo),  con  la  previsione
dell'immediata  liberazione  nel  caso  in  cui  non   si   prospetti
l'applicazione di una misura coercitiva. 
    Secondo una diversa opzione, invece,  piu'  aderente  al  rilievo
costituzionale della  liberta'  personale  ed  al  favor  libertatis,
occorre  applicare  l'art.  121  disp.  att.  c.p.p.   e,   pertanto,
l'arrestato deve essere sempre immediatamente posto in  liberta'  dal
p.m.  Ma  all'interno  di  questa  opzione,  si   apre   un'ulteriore
alternativa tra chi ritiene che, a causa dello  stretto  collegamento
tra  rito  direttissimo  e  stato  di   arresto   dell'unico   sbocco
processuale possibile resta quello del rito ordinario  e  chi  invece
ritiene  di  dar  comunque  luogo  al  rito  direttissimo,  anche  se
l'imputato e' a piede libero, sulla scorta del rilievo che si  tratta
di eventualita' ammessa dalla stessa disciplina generale (artt.  449,
commi 2 e 5 e 450, comma 2 c.p.p.). 
    La prima soluzione contrasta in tutta  evidenza  con  la  lettera
della legge che impone per questi reati il rito direttissimo, perche'
la generalizzata liberazione  dell'imputato  a  norma  dell'art.  121
disp. att. c.p.p. precluderebbe l'accesso al rito  speciale  in  modo
altrettanto  generalizzato.  La  conclusione  appare  confermata  dal
collegamento sistematico con l'art. 13, comma 13-ter t.u.  che,  come
si  e'  visto,  rafforza  la   previsione   del   rito   direttissimo
obbligatorio con un «in ogni caso», che non lascia spazio a soluzioni
alternative e a possibilita'  di  procedere  per  le  vie  ordinarie.
L'espressione si giustifica in relazione  alla  previsione,  in  quel
contesto, dell'arresto come meramente facoltativo e solo ne  casi  di
flagranza, perche' serve a chiarire che  il  rito  direttissimo  deve
essere instaurato anche nel caso l'arresto non sia stato effettuato e
anche nell'ipotesi in cui non sia stato disposto  neppure  il  fermo,
per la mancanza del pericolo di fuga. Se cosi' e' non vi  e'  ragione
per non adottare la medesima  interpretazione  anche  in  riferimento
all'art. 14, comma 5-quinquies, in cui l'espressione «in  ogni  caso»
manca semplicemente perche' la norma prevede un arresto  obbligatorio
e, pertanto, il legislatore ha dato per scontato che l'arresto  fosse
sempre eseguito da parte delle  forze  dell'ordine,  sicche'  non  ha
ritenuto necessario ribadire che il rito direttissimo dovesse  essere
instaurato «in ogni caso». Le indicazioni che  precedono,  unitamente
al chiaro tenore testuale delle norme  appena  richiamate  del  t.u.,
portano alla conclusione che la forma atipica  di  rito  direttissimo
prevista non prevede affatto, quale presupposto ne' l'arresto ne'  la
sua  convalida,  sicche'  il  rito  speciale   e'   obbligatoriamente
instaurato, anche nel caso l'arresto non sia stato effettuato  o,  se
effettuato, non venga convalidato. In  effetti  dalla  lettura  delle
norme emerge che rito direttissimo  e  misure  precautelari,  arresto
obbligatorio nel caso dell'art. 14 e arresto facoltativo o fermo  nel
caso dell'art. 13 t.u., sono previsioni poste una accanto  all'altra,
senza  quella  reciproca  correlazione  che  caratterizza   il   rito
direttissimo nella forma «tipica» (cfr. art. 449 e 558 c.p.p.). 
    Controprova e', ancora, la previsione del rito  direttissimo  «in
ogni caso», ossia anche nel caso in cui nessuna  misura  precautelare
sia stata in concreto disposta, da parte dell'art. 13,  comma  13-ter
tu. e la totale assenza, anche nell'art. 14, comma 5-quinquies  t.u.,
di qualsiasi previsione processuale  in  caso  di  mancata  convalida
della misura  precautelare  eventualmente  disposta.  D'altra  parte,
l'assoluta  specialita'  delle  norme  e  «l'atipicita'»   del   rito
direttissimo ivi previsto esclude che la lacuna possa essere  colmata
con l'applicazione delle norme generali proprie del rito direttissimo
«tipico» previsto dal codice di rito, con la  conseguenza  che  unico
presupposto indefettibile che, residua per questa  anomala  forma  di
rito direttissimo e' costituito dal mero titolo di reato. 
    Ne deriva, in  conclusione,  che  anche  l'immediata  liberazione
dell'imputato ad opera del p.m., in applicazione dell'art. 121  disp.
att.  c.p.p.,  non  elimina  affatto.  l'obbligatorieta'   del   rito
direttissimo che, a questo punto verra' instaurato con  l'imputato  a
piede libero, come peraltro puo' ben accadere anche in caso  di  rito
direttissimo «tipico» (cfr. art. 450, comma  2  c.p.p.).  E'  infatti
notorio che il rito direttissimo presuppone non  tanto  lo  stato  di
arresto dell'imputato, ma l'evidenza della prova, che  rende  inutile
il protrarsi delle indagini  e  lo  svolgimento  procedimento  penale
secondo le cadenze ed i tempi usuali. Infatti, proprio dal  «modello»
generale  di   giudizio   direttissimo,   fondato   sui   presupposti
alternativi dell'arresto «in flagranza» (art. 449, comma 1 c.p.p.)  e
della «confessione» (comma 5) dell'imputato,  e'  possibile  desumere
che la giustificazione di fondo del  rito  speciale  risiede  appunto
nell'evidenza della prova, non nello stato di arresto  dell'imputato.
Piu' precisamente, il presupposto dell'arresto assume  rilevanza  non
tanto quale misura restrittiva della liberta' personale,  ma  perche'
rende evidente la penale responsabilita' dell'imputato, essendo stato
eseguito «in flagranza», quale tipica situazione che rende  evidente,
nella generalita' dei casi, la penale  responsabilita'  dell'imputato
tanto da giustificare la celebrazione del processo con forme, termini
e modi particolarmente contratti e semplificati. E' sulla base  delle
indicazioni che precedono che si  puo'  comprendere  perche'  mai  il
fermo  non  consente  in  via  generale  l'instaurazione   del   rito
direttissimo. Infatti il fermo, non essendo eseguito nella  flagranza
di reato, non puo'  vantare  quella  situazione  di  «evidenza  della
prova», normalmente connessa all'arresto in flagranza di reato, ma su
una situazione probatoria meno pregnante definita con la formula  dei
«gravi indizi di colpevolezza». Per terminare con riferimento al rito
direttissimo «tipico» previsto dal codice di rito vale solo  la  pena
di  ricordare  come  l'instaurarsi  del  rito  speciale,  e'  rimessa
comunque ad una scelta discrezionale del p.m., al quale e' attribuito
il potere di valutare l'evidenza, non sempre in concreto  sussistente
nonostante l'arresto in flagranza o la confessione dell'imputato. 
    Comunque, va ricordato che nel caso in esame il p.m. non ha fatto
applicazione dell'art. 121 disp. att.  c.p.p.  presentando  a  questo
Giudice l'imputato ancora in stato di detenzione,  per  la  convalida
dell'arresto ed il  contestuale  giudizio  direttissimo.  Secondo  il
«diritto vivente», elaborato con riferimento.  al  rito  direttissimo
«tipico» ma che puo' essere esteso anche al caso in esame,  lo  stato
di detenzione dell'imputato sino al termine dell'udienza di convalida
e  del  contestuale  giudizio  direttissimo,  trova   valido   titolo
nell'arresto disposto dalla polizia giudiziaria, senza necessita' che
il Giudice disponga una misura cautelare prima dello svolgimento  del
giudizio direttissimo (cfr. Cass. Sez. Un., 1º ottobre 1991, nr.  19,
rv 188583),  naturalmente  a  condizione  che  convalida  e  giudizio
direttissimo trovino conclusione nella medesima udienza. Nel caso  in
esame, pero', l'evidente anomalia consiste nel  fatto  che  all'esito
dell'udienza l'imputato non potra' essere in alcun caso sottoposto ad
alcuna misura cautelare  coercitiva,  per  mancanza  dei  presupposti
generali e dovra', pertanto, essere necessariamente  liberato,  anche
nel caso in cui si sia pervenuti ad una  sentenza  di  condanna  alla
pena massima consentita. Pertanto, l'applicabilita' o meno  ad  opera
del  p.m.  della  liberazione  anticipata  dell'imputato   ai   sensi
dell'art. 121 disp. att. c.p.p., non  assume  rilevanza  decisiva  ai
fini della presente decisione e, nella sostanza, comporta  unicamente
una contrazione della durata messima della restrizione alla  liberta'
personale conseguente all'arresto obbligatorio, che e' di 48  ore  se
si applica l'art. 121 disp..att. c.p.p: ed invece di 96  ore  (48+48)
in  caso  contrario.  Inoltre,  il  semplice   esercizio   da   parte
dell'imputato del diritto di richiedere un termine a difesa (art. 451
u.c. e 558, comma 7 c.p.p.) ha come inevitabile  conseguenza  che  il
giudizio direttissimo si svolga, sempre e comunque, nel confronti  di
un imputato a piede libero, ancora per l'impossibilita'  di  disporre
alcuna misura cautelare coercitiva e per  il  venir  meno,  a  questo
punto, dell'arresto come valido titolo di detenzione. 
    Non  solo,  ma  va  anche  sottolineato   come   la   liberazione
dell'imputato prima dello svolgimento del rito direttissimo, a  norma
dell'art. 121 disp. att. c.p.p. ovvero a seguito della  richiesta  di
un termine a difesa, impone necessariamente  il  rilascio  del  nulla
osta all'espulsione, a norma dell'art. 13,  commi  3  e  3-bis  t.u.,
salvo la sussistenza delle inderogabili  esigenze  processuali  sopra
indicate, sicche' se poi  l'espulsione  sia  effettivamente  eseguita
mediante accompagnamento  alla  frontiera,  evenienza  che  non  puo'
essere  data  per   scontata   perche'   l'autorita'   amministrativa
competente potrebbe anche disporre il trattenimento in un  centro  di
permanenza temporanea, il giudizio si  svolgera'  generalmente  nella
contumacia dell'imputato. 
    In definitiva, si puo' affermare che la normativa  in  esame  nel
suo complesso risponde all'esigenza di assicurare  in  ogni  caso  la
concreta  esecuzione  dell'espulsione   nel   modo   piu'   immediato
possibile,  anche  al  costo  di  pesanti  sacrifici  alla   liberta'
personale dello  straniero  clandestino,  mediante  l'accompagnamento
alla frontiera ove possibile e, qualora non sia  possibile,  mediante
restrizioni   alla   liberta'   personale   ancora   piu'   incisive,
rappresentate  alternativamente  dal  trattenimento  nei  centri   di
permanenza  temporanea,  che  configura  una  sorta   di   detenzione
amministrativa ovvero dalla  previsione  di  autonomi  reati  per  la
violazione all'ordine del Questore a  lasciare  il  territorio  dello
Stato nei 5 giorni.  La  ratio  di  fondo  sembra  essere  quella  di
sollecitare    la    collaborazione    dello    straniero     colpito
dall'espulsione,    rendendo    comunque    scarsamente    appetibile
la permanenza nel territorio dello Stato. 
    2. - Rilevanza. 
    Inserite  le  disposizioni  denunciate  nel  sistema   al   quale
appartengono,  la   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale proposta appare evidente dal momento che  il  giudizio
non puo' essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione. 
    Infatti, e' certo che questo Giudice, in mancanza  dei  dubbi  di
costituzionalita' dell'art. 14, commi 5-ter e quinquies, nella  parte
in cui  prevede  l'arresto  obbligatorio  ed  il  rito  direttissimo,
avrebbe dovuto procedere al giudizio di convalida dell'arresto  e  al
conseguente  giudizio  direttissimo,  mentre  nel  caso  in  cui   le
disposizioni sospettate di incostituzionalita'  venissero  dichiarate
illegittime, dovrebbe negare la convalida  dell'arresto:  conseguenza
della caducazione con effetto retroattivo della disposizione in  base
alla quale l'arresto e' stato eseguito  e  disporre  la  trasmissione
degli atti al p.m., affinche' proceda con  rito  ordinario.  Inoltre,
nell'ipotesi  in  cui  venisse  ritenuta  legittima   la   previsione
dell'arresto obbligatorio ma non la previsione del rito direttissimo,
non si potrebbe negare al p.m. il potere  discrezionale  di  decidere
se  procedere nelle forme del rito direttissimo o del rito ordinario,
secondo la disciplina generale (art. 449, comma 1 c.p.p.). 
    Ne' una diversa conclusione in punto  di  rilevanza  puo'  essere
prospettata  in  ragione  dell'immediata  liberazione  dell'imputato,
disposta contestualmente alla presente ordinanza, perche' il giudizio
di convalida dell'arresto, che  e'  stato  sospeso,  attiene  non  al
protrarsi dello stato di  privazione  della  liberta'  personale,  la
quale semmai formera' oggetto di un distinto provvedimento di  misura
cautelare, ma alla privazione della liberta' personale  gia'  subita.
Del  resto,  che  l'interesse  generale  ad   una   pronuncia   sulla
legittimita'  dell'arresto  permanga  anche   dopo   la   liberazione
dell'arrestato e' dimostrato dall'art. 121, comma 2 disp. att. stessa
Corte costituzionale, con sentenza n. 54 del 1993, nel giudizio sulla
legittimita' costituzionale dell'art. 380, comma 2, lett. e)  c.p.p.,
nella parte in cui prevedeva l'arresto obbligatorio per il delitto di
furto aggravato dalla violenza sulle  cose  anche  nelle  ipotesi  di
danno patrimoniale esiguo, ha ricosciuto la rilevanza della questione
nonostante la gia' avvenuta liberazione, affermando che si tratta «di
stabilire  se  la  liberazione  dell'arrestata   debba   considerarsi
conseguente all'applicazione dell'art. 391,  settimo  comma,  ovvero,
piu' radicalmente, alla caducazione  con  effetto  retroattivo  della
disposizione in base alla quale gli arresti furono eseguiti». 
    Nel  caso  di  specie,  poi,  la  rilevanza   appare   avvalorata
dall'impossibilita' di disporre un autonomo provvedimento  di  misura
cautelare e dalla correlata necessita'  di  disporre  la  liberazione
dell'arrestato, a prescindere dal giudizio di convalida  dell'arresto
e dalla previsione di cui all'art. 391,  comma  7  c.p.p.  Si  tratta
cioe', come si e' sopra gia' argomentato, di  un  esito  inevitabile,
che si sarebbe imposto anche dopo la  Convalida  dell'arresto  ed  il
contestuale giudizio direttissimo. 
    4.  -  Non  manifesta  infondatezza:  a)  in   riferimento   alla
previsione dell'arresto obbligatorio. 
    Con riferimento  alla  previsione  dell'arresto  obbligatorio  il
parametro costituzionale  di  riferimento  principale  e'  costituito
dall'art. 13 Cost.  che,  com'e'  noto,  a  presidio  della  liberta'
personale qualificata come «inviolabile» (comma 1), pone una  riserva
di legge ed una riserva di giurisdizione (comma 2), prescrivendo  che
restrizioni alla liberta' personale sono  possibili  solo  «per  atto
motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
dalla legge». Pertanto, la titolarita' del potere di adottare  misure
restrittive della liberta' personale spetta, in linea  di  principio,
unicamente all'autorita' giudiziaria, mentre l'autorita' di  pubblica
sicurezza puo' adottare provvedimenti «provvisori» e  solo  «in  casi
eccezionali di necessita' e di urgenza, indicati tassativamente dalla
legge» (comma 3). Che si tratti di un esercizio in via vicaria di  un
potere la cui titolarita' spetta comunque all'autorita'  giudiziaria,
e' confermato non solo dalla sottolineatura della natura  provvisoria
dei provvedimenti adottati dall'autorita' di p.s. ma anche dal  fatto
che in tali casi vige l'obbligo di  comunicazione  entro  le  48  ore
all'autorita' giudiziaria e dall'automatica revoca e perdita di  ogni
effetto in caso di mancata convalida entro le 48 ore successive. 
    La norma costituzionale non precisa in via tassativa  i  casi  in
cui sia consentita la restrizione  della  liberta'  personale  ma  la
natura inviolabile del diritto alla  liberta'  personale,  impone  la
conclusione che il suo sacrificio risponda  ad  esigenze  di  rilievo
costituzionale, quali certamente devono considerarsi quelle  connesse
alla repressione dei reati, sulla base di un  adeguato  bilanciamento
di contrapposti interessi. Piu'  analitico,  sotto  questo  punto  di
vista, e' l'art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo, ratificata con legge n. 848/1955 che ammette la privazione
della liberta' personale solo in casi tassativi,  tra  i  quali  sono
indicati,  per  cio'  che  qui  interessa,   quelli   connessi   alla
repressione dei reati (cfr. lett. a, b e c) e l'ipotesi  dell'arresto
o della detenzione «di una  persona  per  impedirle  di  entrare  nel
territorio  clandestinamente  o  contro  la  quale  e'  in  corso  un
procedimento di espulsione o di estradizione» (cfr.  lett.  f).  Ora,
nell'ambito dell'ordinamento processuale  generale  l'arresto,  cosi'
come il fermo, si' caratterizza come  tipica  misura  disposta  dalla
polizia giudiziaria con funzione «precautelare», finalizzata cioe'  a
consentire l'adozione di una misura  cautelare  coercitiva  da  parte
dell'autorita' giudiziaria. Ma le misure  cautelari  coercitive  sono
possibili, a norma dell'art. 280 c.p.p., solo per  i  delitti  puniti
con la reclusione superiore nel massimo a 3 anni (4 per  la  custodia
in carcere), mentre gli indicati limiti di pena non si  applicano,  a
norma  dell'art.  391,  comma  5  c.p.p.,  in   caso   di   convalida
dell'arresto per i delitti di cui all'art. 381, comma 2 c.p.p. ovvero
per uno dei delitti per i quali e' consentito l'arresto  anche  fuori
dai casi di flagranza (tipico il caso  dell'evasione  a  norma  degli
artt. 385 c.p. e 3 d.l. nr. 152/1991). Del  resto  questa  disciplina
era imposta da una precisa direttiva contenuta nella legge delega per
l'emanazione del nuovo codice  di  procedura  penale,  contenuta  nel
punto n. 59 dell'art. 2 che  prevede  una  stretta  correlazione  tra
gravita' del reato, secondo  la  valutazione  astratta  compiuta  dal
legislatore nel determinare i limiti edittali di pena, e possibilita'
di applicazione delle misure cautelari coercitive. Non solo, ma  gia'
nel 1980 la Corte costituzionale,  dopo  aver  sottolineato  come  la
custodia preventiva debba rispondere  ad  esigenze  cautelari  e  non
possa risolversi in una anticipazione di pena, ha osservato  come  la
formula legislativa allora in vigore,  che  faceva  riferimento  alle
«esigenze di tutela della collettivita'», debba  essere  interpretata
nel senso che si riferisca a reati di particolare gravita' per  l'uso
d'armi o di altri mezzi di violenza contro le persone,  riferibilita'
ad organizzazioni criminali  comuni  o  politiche,  direzione  lesiva
verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o  dell'ordine
democratico (cfr. sentenza 1/80). 
    Ne deriva, come gia' anticipato, che per  la  contravvenzione  di
cui  all'art.  14,  comma  5-quinquies  t.u.,  punita  con  la   pena
dell'arresto da 6 mesi ad 1 anno, non puo' applicarsi alcun  tipo  di
misura coercitiva, sicche' la finalita' «precautelare»  del  previsto
arresto obbligatorio viene, per cosi' dire, meno  in  via  normativa,
sul piano  generale  ed  astratto,  sicche'  l'arresto  in  questione
finisce  col  trasformarsi  in  misura  restrittiva  della   liberta'
personale fine a se' stessa, priva di alcun nesso  di  strumentalita'
col procedimento penale in cui e' inserita e, per di  piu',  disposta
dall'autorita' di p.s. 
    In  queste  condizioni  il  controllo  da  parte   dell'autorita'
giudiziaria in sede di convalida, pur previsto dalla legge, si riduce
in un riscontro meramente esteriore di  elementi  puramente  formali,
quali il rispetto dei limiti temporali e la sussistenza del fumus del
commesso reato, senza che vi sia quel controllo giurisdizionale pieno
e di  merito  richiesto,  come  si  e'  visto,  dalla  giurisprudenza
costituzionale per ritenere rispettata, nella  sostanza  e  non  solo
nella forma, la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13, comma
2 Cost.  (cfr.  sentenza  n.  105/2001).  L'assoluta  inutilita'  del
giudizio di convalida, ridotto in realta' ad un mero  simulacro  onde
assicurare il rispetto formale della riserva di giurisdizione, emerge
in tutta  evidenza  dal  fatto  che  convalida  o  mancata  convalida
dell'arresto  non  hanno  alcun  concreto  effetto  in  ordine   alla
restrizione della liberta' personale disposta dall'autorita' di p.s.,
perche' in entrambi i casi l'imputato deve  essere  obbligatoriamente
messo in  liberta',  con  sostanziale  svuotamento  della  previsione
costituzionale  secondo  la  quale  la  mancata  convalida  da  parte
dell'autorita'   giudiziaria   nelle   48   ore   successive    dalla
comunicazione del provvedimento dell'autorita' di  p.s.  comporta  la
revoca  e  la  privazione  di  ogni  effetto  del  provvedimento   di
restrizione, evidentemente sul presupposto  che  la  convalida  debba
poter consentire  la  protrazione  della  restrizione  alla  liberta'
personale, sulla base di un approfondito giudizio di merito  compiuto
dall'autorita' giudiziaria. 
    Ne' sembra possibile individuare profili finalistici alternativi,
in grado di porre al riparo la previsione  dell'arresto  obbligatorio
da dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Rimanendo nell'ambito del sistema, processuale  penale  deve,  in
particolare, escludersi che l'arresto obbligatorio possa svolgere  la
funzione di rendere possibile il rito direttissimo, dal momento  che,
come gia' si e' sopra visto, da un lato in termini generali  il  rito
direttissimo non presuppone necessariamente lo  stato  di  detenzione
dell'imputato, bensi'  quella  particolare   evidenza   della   prova
connessa allo stato di flagranza e, dall'altro, con riferimento  alla
forma «atipica» di rito direttissimo prevista dalla norma  denunziata
sono comunque enucleabili casi, di generale  ricorrenza,  in  cui  il
giudizio debba obbligatoriamente svolgersi  con  l'imputato  a  piede
libero, per effetto dell'anticipata liberazione da parte del p.m.,  a
norma dell'art. 121 disp.  att.  c.p.p.  ovvero  della  richiesta  di
termine a difesa avanzata dall'imputato condotto avanti al Giudice in
stato di detenzione per la convalida dell'arresto, a norma  dell'art.
558,  comma  7  c.p.p.  e   cio',   ancora   una   volta,   a   causa
dell'impossibilita' di disporre una qualsiasi misura  coercitiva.  Si
tratta, pertanto, di una misura del tutto slegata  rispetto  al  fine
prospettato e  che  tende  a  configurarsi  come  sanzione  autonoma,
emancipandosi dal contesto processuale al quale  appartiene.  D'altra
parte sarebbe comunque dubbia la legittimita'  costituzionale  di  un
arresto obbligatorio previsto a fini puramente  «processuali»,  ossia
esclusivamente per giustificare la previsione di una forma anomala di
rito speciale, senza alcuna connessione rispetto  alla  gravita'  del
reato commesso e ai profili di  pericolosita'  sociale  del  soggetto
colpito. Sul piano concreto, poi, l'arresto  in  parola  va  eseguito
dalla polizia giudiziaria  a  prescindere  da  qualsiasi  valutazione
sulla gravita' del fatto o  sulla  pericolosita'  del  soggetto  che,
l'art. 381, comma 4 c.p.p. prevede  come  presupposto  esclusivamente
per le ipotesi di arresto facoltativo. 
    Escluso che la commissione del  reato  possa  in  qualsiasi  modo
fornire un'adeguata giustificazione all'arresto obbligatorio, si deve
anche escludere sia possibile individuare un fine estraneo al sistema
processuale penale.  Infatti,  a  parte  l'evidente  anomalia,di  una
misura tipicamente pre-cautelare piegata  ad  una  funzione  estranea
all'ordinamento penale, va rilevato che lo stato di irregolarita' sul
territorio  nazionale  dello  straniero  extracomunitario  tratto  in
arresto e, pertanto, la necessaria pendenza  di  un  procedimento  di
espulsione, non puo' essere circostanza  valorizzabile  a  tal  fine,
neppure nel limitato senso di  consentire  un'agevolazione  di  fatto
all'esecuzione dell'espulsione dal territorio nazionale. Invero,  nel
sistema normativo di riferimento, sono previste  autonome  misure  di
restrizione della liberta' personale tipicamente strumentali a questo
fine,  quali  l'accompagnamento  coattivo  alla   frontiera   ed   il
trattenimento presso i centri di permanenza temporanea e  assistenza,
mentre  l'arresto  obbligatorio  per  la   contravvenzione   prevista
dall'art. 14, comma 5-quinquies t.u. non e'  minimamente  configurato
come presupposto del procedimento di espulsione e, anzi, finisce  col
costituire, insieme col relativo  procedimento  penale,  un  ostacolo
all'espulsione,  alla  cui  rimozione  appare   infatti   preordinato
l'istituto del nulla osta da parte dell'autorita'  giudiziaria  (cfr.
art. 13, comma  3  t.u.).  Inoltre,  sotto  il  profilo  pratico,  si
tratterebbe di mezzo palesemente inadeguato rispetto al fine, perche'
si tratta di misura che puo' estendere i propri effetti per un  lasso
temporale   assai   limitato,   di   48   o   96   ore   a    seconda
dell'interpretazione    seguita    dell'art.    121    disp.     att.
c.p.p., certamente insufficiente, per consentire la  rimozione  delle
difficolta' materiali che si  frappongono  alla  concreta  esecuzione
dell'espulsione. 
    L'assenza di plausibili finalita'  dell'arresto  obbligatorio  in
esame, rende ragione del contrasto anche col principio di uguaglianza
di  cui  all'art.  3  Cost.,  gia'  sotto  il  profilo  della   grave
razionalita' intrinseca e dell'intima contraddittorieta' della legge.
Il legislatore, infatti, da un lato ha valutato il reato  in  termini
di scarsa gravita', qualificandolo come contravvenzione e  prevedendo
la  pena  dell'arresto  da  6  mesi  ad  1  anno,  tanto  da  imporre
all'autorita' giudiziaria  l'immediata  liberazione  dell'imputato  e
l'esclusione di qualsiasi misura cautelare e, dall'altro, ha compiuto
una valutazione del tutto opposta, ritenendo il reato tanto grave  da
giustificare l'arresto obbligatorio ed imporre il rito direttissimo. 
    La norma denunziata sembra violare il  principio  di  uguaglianza
anche sotto il profilo della  disparita'  di  trattamento,  anzitutto
assumendo  come  termine   di   paragone   la   disciplina   generale
dell'arresto obbligatorio,  perche'  l'obliterazione  della  funzione
pre-cautelare della misura con  esclusivo  riferimento  ai  reati  in
parola appare priva di qualsiasi possibile  giustificazione,  finendo
col determinare un immotivato sacrificio del diritto inviolabile alla
liberta' personale  dello  straniero.  L'arresto  obbligatorio  nella
disciplina   generale   si   caratterizza,   infatti,   come   misura
pre-cautelare del tutto eccezionale, giustificata  o  dalla  notevole
gravita' del reato commesso o da «speciali esigenze di  tutela  della
collettivita'», come si esprime il punto  n.  32  dell'art.  2  delle
legge delega per l'emanazione del nuovo  codice  di  rito,  tanto  da
indurre la Corte costituzionale a dichiarare  l'illegittimita'  della
previsione dell'arresto obbligatorio in flagranza  di  reato  per  il
furto aggravato ai sensi dell'art. 625, n. 2 prima ipotesi, nel  caso
ricorra l'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p. (cfr.  sentenza  n.
54/1993). Non si comprende quindi per  quale  motivo  il  legislatore
abbia previsto la medesima misura per un reato  di  scarsa  gravita',
quale deve essere certamente ritenuta la contravvenzione di cui  deve
rispondere  l'odierno   imputato.   L'irragionevole   disparita'   di
trattamento non potrebbe essere piu' evidente. 
    Analoga irragionevole disparita' di  trattamento  sembra  doversi
affermare anche assumendo come  termine  di  paragone  la  disciplina
generale di tutti gli altri reati contravvenzionali,  anche  ritenuti
piu' gravi rispetto a quello in esame, che  tuttavia  non  consentono
l'arresto ne' obbligatorio ne' facoltativo. Unica  eccezione  risulta
essere l'art. 6, comma 2 del d.l. nr. 122 del 1993 (misure urgenti in
materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) che  prevede
l'arresto facoltativo in flagranza di reato  per  le  contravvenzioni
previste in materia di armi dall'art. 4, commi 4 e 5 legge n. 110 del
1975  e,  nel  caso  sussista   l'aggravante   della   finalita'   di
discriminazione o di odio etnico, nazionale,  razziale  o  religioso,
anche di quelle previste dai  commi  1  e  2  del  medesimo  art.  4.
Sennonche', a parte il rilievo che ben potrebbe trattarsi di norma  a
sua volta illegittima,  vanno  evidenziate  significative  differenze
rispetto alla norma denunziata in questa sede, sia perche'  l'arresto
previsto e' meramente facoltativo e, pertanto, verra'  adottato  solo
in presenza di un fatto grave o di un soggetto pericoloso (cfr.  art.
381, comma 4 c.p.p.), sia perche' la misura potrebbe  trovare  valida
giustificazione, a differenza dell'ipotesi in esame, nella necessita'
di interrompere una situazione di pericolo per  l'ordine  pubblico  e
l'incolumita' delle persone rappresentata dal porto in luogo pubblico
di strumenti atti ad offendere, a  maggior  ragione  se  in  riunioni
pubbliche o per finalita' di odio etnico. Insomma, la misura potrebbe
essere utilmente preordinata alla prevenzione di piu' gravi reati  da
parte delle persone che hanno portato fuori dalla propria  abitazione
strumenti atti ad offendere  nelle  situazioni  e  circostanze  sopra
riferite, considerando che questa condotta e' normalmente preordinata
alla commissione di gravi reati contro la  persona.  Situazione  che,
invece,  non  ricorre  in   modo   assoluto   in   riferimento   alla
contravvenzione oggetto del presente procedimento. 
    Persino il raffronto con le  altre  norme  del  t.u.  evidenziano
irragionevoli   disparita'   di   trattamento,   perche'    l'arresto
obbligatorio previsto dall'art. 12, comma 4 t.u.. si riferisce ad  un
delitto, punito  assai  gravemente,  mentre  la  contravvenzione  cui
all'art. 13, comma 13 t.u. che, benche' punita con la  medesima  pena
prevista dall'art. 14, comma 5-ter t.u., integra certamente un'offesa
piu'  pregnante  al  bene  giuridico  protetto  in   relazione   alle
differenze strutturali gia' sopra evidenziate (di  reato  istantaneo,
commissivo e doloso), legittima unicamente l'arresto  facoltativo  in
flagranza  di  reato  ovvero  il  fermo  e,  pertanto,   misure   che
presuppongono la prima la gravita' del fatto o la  pericolosita'  del
soggetto e, la seconda, il pericolo di fuga. Non si comprende  allora
perche' mai in caso di inottemperanza  dell'ordine  del  Questore  di
lasciare  il  territorio  nazionale  nel  termine  di  5  giorni   lo
straniero, debba essere obbligatoriamente arrestato, a prescindere da
quei presupposti. 
    I dubbi di legittimita'  costituzionale  sopra  esposti  sembrano
avvalorati: dalla giurisprudenza della Corte  costituzionale  che  ha
gia' piu' volte dichiarato  incostituzionale  norme  che  prevedevano
l'arresto ovvero misure cautelari coercitive per reati puniti con  la
sola pena pecuniaria (cfr. sentenze nn. 39/70, 42/73 e 215/83) ed  ha
anche di recente ribadito l'importanza della  funzione  pre-cautelare
dell'arresto e  del  fermo,  tanto  da  imporre  la  riparazione  per
ingiusta detenzione quando all'arresto sia seguita  una  sentenza  di
proscioglimento  ovvero  la  mancata  convalida  (cfr.  sentenza   n.
109/1999). Anche quando la Corte ha riconosciuto la  legittimita'  di
previsioni derogatorie rispetto alla disciplina  codicistica,  lo  ha
fatto precisando che la legittimita' dell'arresto,  pur  diversamente
regolato, e'  comunque  assicurata  laddove  sia  preservata  la  sua
funzione pre-cautelare e sia, pertanto,  in  concreto  disposto  solo
«sulla ragionevole prognosi di una sua trasformazione ope iudicis  in
una misura cautelare piu' stabile» (cfr. sentenza n. 305/1996 che  ha
riconosciuto  la  legittimita'  dell'arresto   facoltativo   previsto
dall'art. 189, comma 6 del codice della strada per il  reato  di  chi
non adempia all'obbligo di fermarsi in caso di incidente stradale con
danni alle persone). 
    Infine, la circostanza che il reato  in  esame,  disciplinato  in
modo tanto anomalo e con un  ingiustificato  sacrificio  del  diritto
inviolabile  alla  liberta  personale  dell'imputato,  sia  un  reato
proprio,  in  quanto  puo'  essere  commessa  solo  da  un  cittadino
extracomunitario,  legittima  anche   il   dubbio   di   legittimita'
costituzionale   fondato   sulla   violazione    del    divieto    di
discriminazione  tra  cittadini  e  stranieri,  in  riferimento   sia
all'art. 3 Cost. sia all'art. 10, comma 2 Cost. che, in  collegamento
con l'art. 14 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo, impongono in modo forte che il  godimento  dei  diritti  e
delle liberta' fondamentali  devono  essere  garantiti  senza  alcuna
distinzione fondata sulla razza o l'origine nazionale. 
    5. - Non manifesta infondatezza (segue): b) in  riferimento  alla
previsione del rito direttissimo obbligatorio. 
    Anche  la  previsione  di  un  rito  direttissimo   obbligatorio,
«atipico» e fortemente anomalo suscita  seri  dubbi  di  legittimita'
costituzionale, per la possibile violazione,  in  particolare,  degli
artt. 24, comma 2 e 111 Cost. E' ben vero che  l'ordinamento  prevede
diverse ipotesi di rito direttissimo «atipico» sia in via mediata che
in  leggi  speciali,   ma   l'ipotesi   in   esame   presenta   delle
particolarita' che la  rendono  piu'  difficilmente  compatibile  coi
principi costituzionali sopra indicati. 
    Cosi' l'art. 3 del d.l. n. 152 del 1991 nel consentire  l'arresto
facoltativo per  il  reato  di  evasione  anche  fuori  dai  casi  di
flagranza,  secondo  la   corrente   interpretazione,   consente   lo
svolgimento  anche  del  rito   direttissimo   contestualmente   alla
convalida dell'arresto. Ma assai significativo e' il fatto che questa
interpretazione sia fondata sulla «normale accertabilita'  del  reato
con la stessa evidenza derivante dalla  flagranza»  (cfr.  Cass.,  10
giugno 1997, n. 2310 rv 209750). E' evidente  quindi  che  in  questa
ipotesi la deviazione dalle  regole  proprie  del  rito  direttissimo
«tipico»  e'  minima  perche'  in  entrambi  i   casi   sussiste   la
giustificazione di fondo del rito speciale,  ossia  l'evidenza  della
prova  connessa  ad  elementi  oggettivi.   Analogamente   la   Corte
costituzionale nel respingere la questione di legittimita'  dell'art.
21 legge n. 47/48, che prevedeva il rito  direttissimo  per  i  reati
commessi a mezzo stampa ha osservato che l'immediata celebrazione del
dibattimento puo' essere giustificata «dalla ragionevole valutazione,
almeno in base all'id quod plerumque accidit, che la  fattispecie  in
relazione alla quale si procede presenta una  particolare  evidenza»,
in ragione del mezzo usato per la commissione dei reati. 
    Maggiori sono le deroghe allo  schema  codicistico  presenti  nei
casi previsti da leggi speciali, quali l'art. 12-bis legge n. 356/92,
in materia di armi ed esplosivi, l'art. 6, comma 5 d.l. n. 122/93  in
materia di discriminazione e genocidio e lo stesso art.  12  t.u.  in
materia di  immigrazione,  i  quali  consentono  lo  svolgimento  del
giudizio direttissimo «anche fuori dai casi  previsti  dall'art.  449
codice di procedura penale» ovvero «comunque».  Le  norme  citate  si
differenziano dallo schema codicistico del rito in parola,  anzitutto
per l'obbligatorieta' per il p.m. di esercitare l'azione penale nelle
forme del rito  speciale.  In  tutti  i  casi  citati,  tuttavia,  e'
inserita una clausola di salvaguardia, che preserva un residuo potere
di discrezionalita' in capo al p.m. ordine all'attivazione  del  rito
speciale, espressa dalla formula «salvo che siano necessarie speciali
indagini». Infatti, poiche' la decisione sulla necessita' di svolgere
speciali indagini spetta unicamente ed in via insindacabile al  p.m.,
e'  comunque  consentito  all'organo  dell'accusa  di   decidere   se
esercitare l'azione penale nelle forme ordinarie ovvero nelle  forme,
altrimenti obbligatorie, del rito speciale. Ne deriva che il caso che
obbliga  il  p.m.  a  procedere  nelle  forme  speciali  e'  comunque
riconducibile ad una situazione probatoria che, non  necessitando  di
speciali indagini,  si  caratterizza  come  idonea  a  consentire  un
compiuto accertamento del  fatto  senza  particolari  difficolta'  e,
pertanto, pur non caratterizzandosi in  termini  di  vera  e  propria
evidenza probatoria, senz'altro configura un'ipotesi ad essa vicina. 
    Secondo l'interpretazione  corrente  in  giurisprudenza,  che  va
considerata in questa sede quale  «diritto  vivente»,  la  deroga  ai
«casi» previsti dall'art. 449 c.p.p.  vale  anche  per  i  «termini»,
sicche' al p.m. sarebbe consentito di accedere al rito speciale anche
oltre il termine di 15  giorni  dall'arresto  o  dall'iscrizione  dal
reato, previsto dall'art. 449,  commi  4  o  5  e.p.p.  per  il  rito
direttissimo «tipico» nei confronti dell'imputato il cui arresto  sia
gia' stato convalidato ovvero  dell'imputato  a  piede  libero  (cfr.
Cass., 23 marzo 2000, n. 2161, rv 216196; Cass., 21 marzo  2000,  nr.
4978, rv 216224; Cass., 11 giugno 1996, nr. 4023, rv  205358;  Cass.,
19 febbraio 1990, nr. 401, rv 183660 e Cass., 4  dicembre  1989,  nr.
5374, rv/ 184020). Questa interpretazione, se puo'  essere  confutata
per i casi di giudizio direttissimo «atipico» sopra citati, e'  pero'
imposta per il giudizio direttissimo previsto dagli  artt.  13  e  14
t.u., perche' la legge lo impone «in ogni caso», secondo  la  formula
utilizzata dalla prima norma richiamata e, dunque, anche nel caso  di
scadenza dei termini ordinari. 
    Va pero' subito aggiunto che, cosi' interpretata,  la  disciplina
delle forme «atipiche» del rito direttissimo ha da  sempre  suscitato
seri dubbi di  legittimita'  costituzionale,  perche'  configura  una
situazione di sperequazione delle armi a  disposizione  delle  parti,
consentendo al p.m. di svolgere indagini,  anche  complesse,  che  la
difesa  e'  costretta  a  contrastare  in  termini  temporali   assai
ristretti. In particolare, a  risultare  violato,  sembra  essere  il
precetto di cui all'art. 111, comma 3 Cost. che assicura nel processo
penale  alla  persona  accusata  di  un  reato  «del  tempo  e  delle
condizioni necessari per preparare la difesa». In  simili  condizioni
il contraddittorio finisce col configurasi  come  garanzia  meramente
esteriore e formale, in quanto l'eccezionale  contrazione  dei  tempi
processuali, anche con riferimento  a  fatti  complessi  per  il  cui
accertamento il p.m. ha svolto indagini approfondite, non consente un
effettivo esercizio del diritto  di  difesa.  E'  fin  troppo  ovvio,
infatti, osservare come il diritto di difesa, pur garantito nella sua
pienezza nella fase dibattimentale, nasce come arma spuntata  se  non
si assicura il tempo necessario per reperire le  prove  a  discarico,
eventualmente anche  a  mezzo  di  indagini  difensive,  e  preparare
un'adeguata strategia difensiva. Ed e'  altrettanto  ovvio  osservare
come il tempo necessario per preparare la difesa  muta  in  relazione
alla complessita' del fatto da accertare e  delle  indagini  compiute
dal p.m. Conferma viene  proprio  dai  tempi  scanditi  nello  schema
codicistico del rito  direttissimo,  in  cui  ad  indagini  del  p.m.
protratte per non oltre 15 giorni dall'arresto o dall'iscrizione  nel
registri delle notizie di reato (cfr. art. 449, commi 4 e 5  c.p.p.),
corrisponde la possibilita' di ottenere un termine per  preparare  la
difesa «non superiore a dieci giorni». Come si vede,  una  situazione
che garantisce una certa corrispondenza tra tempi concessi all'accusa
per indagare e termini per  preparare  la  difesa  e,  pertanto,  una
sostanziale parita' delle armi a disposizione delle parti in contesa.
Lo stesso non puo' dirsi se si consente al p.m. di indagare anche per
mesi, obbligando la difesa a controbattere in tempi tanto  ristretti,
come accade, in virtu' dell'interpretazione prevalente, nei c.d. riti
direttissimi «atipici». Una simile disciplina  non  sembra  garantire
l'esercizio  effettivo  del  diritto  di  difesa,  anche   sotto   il
particolare profilo della facolta' dell'imputato, garantita dall'art.
111, comma 3 Cost., di «ottenere la convocazione  e  l'interrogatorio
di persone  a  sua  difesa  nelle  stesse  condizioni  dell'accusa  e
l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo  favore».  Infatti,
mentre l'accusa ha avuto mesi di tempo per reperire i testimoni e  le
prove a carico, la  difesa  e'  costretta  a  ricercare  le  prove  a
discarico  in  un  termine  massimo  di  10  giorni,  che  nel   rito
monocratico, applicabile al caso in esame,  diviene  5  giorni  (cfr.
art. 558, comma 7  c.p.p.)  e  che  spesso  nella  prassi  e'  ancora
inferiore, dal momento  che  nulla  vieta  al  Giudice  di  concedere
termini inferiori a quelli massimi previsti dalla legge. 
    Non e' del resto un caso che il n. 43  dell'art.  2  della  legge
delega  per  l'emanazione  del  nuovo  codice  di  procedura   penale
rivelasse il preciso intento di  mantenere  l'adozione  del  giudizio
direttissimo entro  confini  nettamente  circoscritti,  poi  trasfusi
nell'art. 449  c.p.p.,  e  comunque  sempre  fondato  su  una  scelta
discrezionale ad opera del p.m.. In  adempimento  di  questa  precisa
direttiva l'art. 233 disp. att.  c.p.p.,  al  comma  1,  ha  abrogato
«tutte le disposizioni di leggi o decreti che prevedono  il  giudizio
direttissimo in casi, forme o termini diversi da quelli indicati  nel
codice». Viceversa  il  comma  secondo,  che  faceva  salvo  il  rito
direttissimo  «atipico»  per  i  reati  concernenti  le  armi  e  gli
esplosivi e per i reati commessi a mezzo stampa, e' stato  dichiarato
incostituzionale per eccesso di delega (cfr. sentenza n.  68/91).  La
circostanza  che  poi  leggi   successive   abbiano   abbondato   nel
reintrodurre  nel  sistema  varie  ipotesi   di   rito   direttissimo
«atipico», non  puo'  comunque  far  dimenticare  che  si  tratta  di
ipotesi, da un lato, difficilmente armonizzabili  col  sistema  e  le
minime garanzie difensive. 
    La norma qui denunziata presenta tre ulteriori  elementi  che  la
distinguono dalle  ipotesi  sopra  illustrate  di  rito  direttissimo
«atipico» e che acuiscono  i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale
sopra evidenziati. 
    In primo luogo il rito direttissimo ivi previsto e' obbligatorio,
come  si  e'  visto,  in  senso  assoluto,  perche'   dovra'   essere
instaurato, come si esprime l'art. 13, comma  13-ter  t.u.  «in  ogni
caso», ossia a prescindere dall'arresto, dalla sua  convalida  ovvero
dalla successiva liberazione dell'imputato e, pertanto,  senza  alcun
limite temporale da parte del p.m.. Nel caso in esame, infatti, manca
la clausola di salvaguardia che consente  di  procedere  nelle  forme
ordinarie nel caso di necessita' di «speciali indagini», ossia quando
la   situazione   concreta   presenti   elementi   di    complessita'
nell'accertamento del fatto. Ne deriva che mentre nelle altre ipotesi
di rito direttissimo «atipico» la scelta del p.m. di procedere  nelle
forme  del  rito  speciale,  nonostante  il  compimento  di  speciali
indagini  e  senza  rispettare  il  termine  di  15  giorni  previsto
dall'art. 449 c.p.p. potrebbe anche ritenersi come «patologica»,  per
violazione della regola che vuole subordinato il rito  speciale  alla
non necessita'  di  speciali  indagini  e  cio'  potrebbe  indurre  a
rivedere l'interpretazione sopra  citata  ed  assunta  come  «diritto
vivente», nel caso in esame una prospettiva di questo tipo  non  puo'
essere in alcun modo condivisa, alla luce del chiaro  tenore  testale
della legge, che impone sempre e comunque il rito direttissimo, senza
alcuna possibilita' di deroga. 
    In secondo luogo, la contravvenzione prevista dall'art. 14, comma
5-ter t.u. presenta una complessita' strutturale  tale  da  escludere
quella «facile accertabilita'» affermata invece, come si e' visto, in
tema di evasione. A dir meglio gli elementi a  carico  dell'imputato,
ossia la sussistenza  di  un'espulsione  eseguibile  con  l'immediato
accompagnamento alla frontiera ed il conseguente ordine del  Questore
di allontanamento dal territorio nazionale nel termine di  5  giorni,
rimasto  inadempiuto  sono:  tutti  elementi  facilmente  accertabili
mediante la semplice richiesta  di  invio  di  copia  alle  autorita'
emittenti, mentre la violazione dell'ordine al Questore e'  attestata
dal verbale di arresto  e  dalla  presenza  dell'imputato  sul  suolo
nazionale. Sono invece i possibili elementi a discarico a  richiedere
tipicamente  una  complessa  attivita'  di  ricerca,   prima   e   di
accertamento, poi. Vengono in rilievo, anzitutto, possibili  vizi  di
legittimita' della procedura di espulsione per motivi  «sostanziali»,
ossia  non  direttamente  evincibili   dal   tenore   letterale   dei
provvedimenti  acquisiti,  ad  es.,  in  relazione  al   diritto   al
congiungimento familiare ovvero ai  casi  di  divieto  di  espulsione
previsti dall'art. 19. t.u. Ma, soprattutto, viene in  considerazione
quell'autentico elemento negativo della  fattispecie  espresso  dalla
formula «senza giustificato motivo», che, da un lato, e' descritto in
modo  scarsamente.  determinato  e,  dall'altro,  va  necessariamente
interpretato  in  senso  ampio,  ossia  nel   senso   che   qualsiasi
circostanza di fatto o di diritto che abbia reso impossibile o  anche
solo estremamente  gravoso  per  lo  straniero  l'allontanamento  dal
territorio nazionale nel termine prescritto vale ad integrare  quella
giustificazione che esclude il reato.  Il  rinvio  ad  una  categoria
tanto ampia di situazioni  fattuali,  non  prevedibili  in  astratto,
richiede  in  modo  ricorrente  e  non  solo  in   via   eccezionale,
approfondimenti  ed  ampi  spazi  di  accertamento  ed   elaborazione
probatoria. Prima ancora, il  diritto  dell'imputato  di  difendersi,
provando la  sussistenza  di  un  «giustificato  motivo»,  imporrebbe
un'attivita' di raccolta di elementi di prova per lo piu' preclusa in
via di fatto dai ritmi serrati dello schema  procedimentale  imposto.
D'altra  parte  la  segnalata   sperequazione,   sotto   il   profilo
dell'accertamento del  fatto,  tra  elementi  a  carico  e  quelli  a
discarico, fa nascere il sospetto che la scelta  del  rito  speciale,
come  modus  procedendi  obbligatorio   ed   inderogabile,   risponda
all'inconfessabile  ratio  di   impedire   o   perlomeno   ostacolare
un'indagine approfondita e seria sugli elementi in grado di escludere
la penale responsabilita', pur  previsti  dalla  legge,  in  modo  da
giungere comunque ad una veloce condanna, sulla base di  un  giudizio
sommario, per poi procedere all'espulsione dello straniero. 
    In terzo luogo, un ulteriore grave ostacolo al concreto esercizio
del diritto di difesa, e' rappresentato  dalla  necessaria  pendenza,
nel momento in cui  si  celebra  il  giudizio,  del  procedimento  di
espulsione dello straniero, che comporta  che  se  l'imputato  chiede
termine a difesa, eventualmente proprio al fine  di  reperire  quelle
prove a discarico necessarie  a  dimostrare  il  giustificato  motivo
della mancata ottemperanza al provvedimento del Questore, in linea di
principio  lo  straniero  sara'   immediatamente   espulso   mediante
l'accompagnamento alla frontiera, con la conseguenza che il  processo
dovra' necessariamente svolgersi nella sua contumacia,  almeno  nella
stragrande maggioranza dei  casi,  per  la  difficolta'  di  ottenere
l'autorizzazione all'ingresso a norma dell'art. 17 t.u. da  parte  di
stranieri spesso in condizioni sociali estremamente disagiate. Stesso
esito si ha nel caso in cui lo straniero sia liberato dal p.m.  prima
della convalida dell'arreso e' del  giudizio  direttissimo,  a  norma
dell'art. 121 disp. att. c.p.p. Ne' si puo' sostenere che l'immediata
espulsione puo' essere impedita dal mancato rilascio del  nulla  osta
da parte dell'autorita' giudiziaria nel caso di  procedimento  penale
pendente,  perche'  l'art.  13,  comma  3  t.u.  e'  chiarissimo  nel
consentire il diniego di nulla osta solo a salvaguardia  di  esigenze
processuali funzionali all'interesse dell'accusa, in riferimento alla
sussistenza di  concorrenti  nel  reato  ovvero  all'interesse  della
persona offesa, senza alcuna considerazione  del  diritto  di  difesa
dell' imputato, di cui si occupa unicamente l'art. 17 t. u. 
    Alla luce della sopra esposta disciplina legislativa, nel caso lo
straniero venga portato in stato di detenzione avanti al Giudice  per
la convalida dell'arresto ed il  contestuale  giudizio  direttissimo,
ricorrente nella specie, si trova di fronte  a  questa  stringente  e
gravosa alternativa:  o  rinuncia  al  pieno  esercizio  del  proprio
diritto di difesa provando, in particolare,  il  giustificato  motivo
alla  mancata  ottemperanza  all'ordine  del  Questore,   limitandosi
sostanzialmente  a  difendersi  con  mere  allegazioni  in  sede   di
interrogatorio per la convalida dell'arresto, ovvero fa richiesta  di
termine a difesa, al fine di reperire le prove a  discarico  o  anche
solo organizzare la strategia difensiva  piu'  opportuna,  ed  allora
dovra'  necessariamente  essere  immediatamente  liberato  ma   anche
espulso, con tutte le conseguenze negative,  anche  in  via  di  puro
fatto, sulla concreta esperibilita' dell'attivita' di raccolta  delle
prove a discarico. 
    In ragione delle  argomentazioni  che  precedono  ritiene  questo
Giudice che la disciplina sopra indicata non si sottragga a dubbi  di
legittimita'  costituzionale  in  riferimento   ai   sopra   indicati
parametri costituzionali (artt. 24, comma 2 e 111, commi  da  1  a  5
Cost.).  Peraltro  viene  in  rilievo  anche  l'art.  3  Cost.,   per
l'irragionevole disparita' di trattamento, con specifico  riferimento
alla  limitazione  del  diritto  fondamentale  della  difesa  in   un
procedimento penale, che gli imputati di questi  reati  subiscono  in
confronto degli imputati di tutti gli altri reati, anche  molto  piu'
gravi. Trattandosi poi di reati propri, che possono  essere  commessi
solo da stranieri extracomunitari, appare fondato anche  il  sospetto
della violazione del divieto di discriminazione per ragioni di  razza
o di origine nazionale, previsto ancora dall'art. 3 Cost. e dall'art.
10, comma 2 Cost. in collegamento con l'art. 14 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti.dell'uomo. 
    Infine,  viene  in  considerazione  anche  l'art.  97  Cost.,  in
collegamento sistematico con l'art. 3 Cost.,  perche'  la  previsione
generalizzata di un rito direttissimo per  un  reato  ritenuto  dallo
stesso legislatore non grave ma che risulta essere  assai  frequente,
ostacola l'organizzazione degli uffici giudiziari e, in  particolare,
l'ufficio del Giudice del dibattimento, in modo da garantire il  buon
andamento   e   l'imparzialita'   dell'amministrazione   giudiziaria,
obbligando   a   dare   la   precedenza,   senza   alcuna   razionale
giustificazione, ai reati in parola anziche' a reati assai piu' gravi
per i quali si deve pero' procedere nelle forme ordinarie.