Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'articolo  17,  comma
30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1°  luglio
2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonche'  proroga  di  termini),
convertito, con modificazioni, dalla legge 3  agosto  2009,  n.  102,
come modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera c), numero  1,  del
decreto-legge 3 agosto 2009,  n.  103  (Disposizioni  correttive  del
decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni
dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, promossi dalla Corte dei conti  -
sezione giurisdizionale per la Regione Umbria con  ordinanza  del  16
novembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la
Regione Calabria con ordinanza del 16 novembre 2009; dalla Corte  dei
conti - sezione giurisdizionale per la Regione Campania con ordinanze
del 14 e 27 ottobre 2009 e del 9 dicembre 2009; dalla Corte dei conti
- sezione giurisdizionale per la Regione siciliana con ordinanza  del
14 ottobre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale  per
la Regione Lombardia con ordinanze del 12 novembre e del 29  dicembre
2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la  Regione
Toscana con ordinanza del 10 dicembre 2009 e dalla Corte dei conti  -
sezione prima giurisdizionale centrale d'appello con ordinanza del 17
marzo 2010, rispettivamente iscritte al n. 331 del registro ordinanze
2009 e ai numeri 24, 25, 26, 27, 44, 95, 125, 145 e 162 del  registro
ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
numeri 4, 7, 9, 14, 18, 21 e 23, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti gli atti di costituzione di D.T.M.L., di P.G., di  B.G.  ed
altri, fuori termine, nonche' gli atti di intervento  del  Presidente
del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 2010 e  nella  camera
di consiglio  del  17  novembre  2010  il  giudice  relatore  Alfonso
Quaranta; 
    Uditi gli avvocati Luigi Manzi per D.T.M.L.,  Luigi  Medugno  per
P.G. e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza del  16  novembre  2009  la  Corte  di  conti,
sezione giurisdizionale per la  Regione  Umbria  (reg.  ord.  n.  331
2009),  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto,  del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonche'
proroga di termini), convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  3
agosto 2009, n.  102,  come  modificato  dall'articolo  1,  comma  1,
lettera c), numero  1,  del  decreto-legge  3  agosto  2009,  n.  103
(Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009),
convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141,  per
violazione, nel complesso, degli artt. 3, 24, primo  comma,  54,  81,
quarto  comma,  97,  primo   comma,   103,   secondo   comma,   della
Costituzione, nonche' del combinato  disposto  dei  periodi  secondo,
terzo e quarto, del suddetto art. 17, comma  30-ter,  per  violazione
dell'art. 111 Cost. 
    1.1. - Il giudice a quo premette  che  la  procura  regionale  ha
convenuto il presidente, taluni consiglieri di amministrazione  e  il
direttore generale dell'azienda speciale farmacie municipalizzate  di
Terni (AsFM) perche' venissero condannati al risarcimento  del  danno
complessivo di euro 273.165,77, causato alle  finanze  aziendali  per
avere, con condotta gravemente colposa,  attivato  il  centro  salute
«Hera», previsto nel piano- programma per gli anni 2000 e 2001, prima
della richiesta delle prescritte autorizzazioni. Inoltre,  l'azienda,
«per la diffusione mediatica assunta dalla vicenda»,  avrebbe  subito
«un danno d'immagine stimato in 40 mila euro». 
    Il giudice a quo deduce come la  controversia  abbia  ad  oggetto
soltanto la questione relativa al danno all'immagine,  in  quanto  e'
stata disposta la separazione di quella avente ad  oggetto  il  danno
patrimoniale. 
    1.2. - Il giudice stesso dubita della legittimita' costituzionale
del citato art. 17, comma 30-ter, il quale  prevede  che  le  procure
della Corte dei conti esercitano l'azione  per  il  risarcimento  del
danno all'immagine nei soli casi  e  modi  previsti  dall'articolo  7
della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale
ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione, di cui al  comma
2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in
materia di giurisdizione e  controllo  della  Corte  dei  conti),  e'
sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. 
    A tale proposito, il giudice remittente  richiama  l'orientamento
della Corte di cassazione e della stessa Corte dei conti, secondo cui
il danno all'immagine e al prestigio della  pubblica  amministrazione
rientrerebbe nella categoria del danno patrimoniale e sarebbe  dovuto
anche in assenza dell'accertamento di un fatto di reato. 
    Si  assume  al  riguardo  che  la  questione  sollevata   sarebbe
rilevante sia perche' la norma impugnata ha una valenza  processuale,
che la rende applicabile ai giudizi in corso, sia perche' per i fatti
per i quali si procede non e' stata proposta azione penale. 
    Il giudice  a  quo  sottolinea,  inoltre,  che  «la  formulazione
ellittica della disposizione  in  rassegna  ha  indotto  il  Collegio
dapprima a ricercarne una lettura "costituzionalmente  orientata"  e,
all'esito, di vedersi pervaso da dubbi  di  costituzionalita',  quale
che fosse la possibile soluzione  individuata».  In  particolare,  si
rileva come due sarebbero le possibili interpretazioni  della  norma:
una prima dovrebbe condurre a ritenere che il legislatore  ha  voluto
affermare il principio in base al quale il danno all'immagine  ed  al
prestigio della p.a. non possa ricevere  tutela  giurisdizionale,  se
non in presenza di fattispecie costituenti anche reato accertato;  la
seconda, invece, porterebbe a sostenere che la tutela  sia  piena  ma
ottenibile in sedi giurisdizionali differenti e  cioe'  innanzi  alla
Corte dei conti per le fattispecie costituenti anche reato e  innanzi
ad altro giudice in tutti gli altri casi. 
    Accedendo alla prima interpretazione la norma  impugnata  sarebbe
illegittima per violazione: 
        a) dell'art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una irrazionale
differenziazione di tutela tra le fattispecie di danno all'immagine e
le altre tipologie di  danno  subito  dalla  p.a.,  aventi  anch'esse
rilievo patrimoniale; 
        b)  dell'art.  24  Cost.,  in  quanto  la  procura  contabile
potrebbe agire  in  giudizio  soltanto  in  presenza  del  preventivo
esercizio dell'azione penale; 
        c) degli artt. 54 e 97 Cost., in quanto si  impedirebbe  alla
p.a. di ottenere piena tutela in tutte le ipotesi in cui soggetti  ad
essa collegati da un rapporto di  servizio  «le  abbiano  causato  il
danno all'immagine». 
    Si osserva, inoltre, come siano state emanate altre  disposizioni
che si muovono in senso opposto rispetto  a  quello  tracciato  dalla
norma impugnata. Si richiama, al riguardo, la legge 4 marzo 2009,  n.
15  (Delega   al   Governo   finalizzata   all'ottimizzazione   della
produttivita' del lavoro pubblico e  alla  efficienza  e  trasparenza
delle  pubbliche  amministrazioni  nonche'  disposizioni  integrative
delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e  del
lavoro e alla Corte dei conti). 
    Accedendo alla seconda interpretazione,  sarebbe  violato  l'art.
103, secondo comma, Cost., il quale attribuisce alla Corte dei  conti
la «giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica». 
    Sempre nell'ambito  della  seconda  interpretazione,  si  assume,
altresi',  il  contrasto  della  norma  impugnata  con  il  combinato
disposto degli artt. 3 e  103  Cost.  Cio'  in  quanto,  dinnanzi  al
giudice contabile varrebbe la limitazione di responsabilita' soltanto
in presenza di condotte poste in  essere  con  dolo  o  colpa  grave,
mentre tale limitazione non opererebbe innanzi al giudice ordinario. 
    Il Collegio remittente  ritiene,  infine,  che  sussistano  altre
ragioni di contrasto della norma con  la  Costituzione  «distinte  ed
autonome rispetto a quelle sin qui esplicitate». 
    In particolare, si assume, in  primo  luogo,  che  sarebbe  stato
violato l'art. 81, quarto comma, Cost., il quale  prevede  che  «ogni
altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i  mezzi
per farvi fronte». Nel caso in esame la norma censurata, limitando la
responsabilita'  amministrativa,  imporrebbe  all'amministrazione  di
sostenere con proprie risorse il danno subito senza, pero',  indicare
come fare fronte a tale «maggiore spesa». 
    In secondo luogo, il giudice a quo  rileva  che  le  disposizioni
impugnate, insieme al quarto periodo, si porrebbero in contrasto  con
l'art. 111 Cost. Cio' in quanto la disposizione «e'  suscettibile  di
provocare una sorta  di  "doppio  binario"  processuale,  ad  assetto
variabile, in quanto  -  per  gli  stessi  fatti  -  i  limiti  posti
all'azione della procura, sanzionati con la nullita',  sono  operanti
esclusivamente se chi vi ha interesse dia o meno  corso  al  giudizio
incidentale per l'accertamento della nullita' degli atti istruttori o
processuali sui quali si fonda l'addebito». 
    2. - Si sono costituiti in giudizio (oltre il  termine  previsto)
G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R.,  chiedendo  che  la  questione  venga
dichiarata  inammissibile  per  irrilevanza,  in  quanto  il  giudice
remittente  avrebbe  dovuto  verificare,  in  via   preliminare,   se
sussistessero i presupposti per la condanna al risarcimento del danno
all'immagine; presupposti che non  sarebbero  presenti  essendo,  tra
l'altro, il relativo diritto prescritto. 
    Nel merito si svolgono ampie argomentazioni volte a dimostrare la
infondatezza di tutte le censure formulate. 
    3. - Con ordinanza del 16 novembre 2009  (reg.  ord.  n.  24  del
2010), la Corte di conti,  sezione  giurisdizionale  per  la  Regione
Calabria,  ha   sollevato   anch'essa   questione   di   legittimita'
costituzionale del citato art. 17, comma 30-ter,  periodi  secondo  e
terzo. 
    Il  giudice  a  quo  premette,  in  punto  di  fatto,  che,   con
provvedimento n.  482  del  6  dicembre  1999,  la  Regione  Calabria
delineava le linee guida  per  la  realizzazione  delle  campagne  di
screening per  la  diagnosi  precoce  e  la  prevenzione  dei  tumori
femminili. 
    Con nota n. 6261 del 20  febbraio  2001,  il  direttore  generale
dell'assessorato alla sanita' richiedeva al predetto  assessorato  di
potere acquistare, con l'impiego dei fondi regionali finalizzati,  un
particolare sistema mammografico. Tale  acquisto  veniva  autorizzato
dall'assessorato con nota del 12 aprile 2001 n. 9086. 
    Secondo la procura contabile, il predetto  acquisto  «avrebbe  di
fatto impedito la realizzazione dei programmi di screening poiche' le
somme destinate a tale acquisto (pari ad euro  647.822,88)  sarebbero
state sottratte alla realizzazione del progetto  di  prevenzione  cui
erano state originariamente destinate». 
    Da tali condotte sarebbe derivato, oltre un  danno  patrimoniale,
anche un «danno all'immagine». In relazione a  tale  ultima  voce  di
danno si pone in evidenza come la vicenda  avrebbe  avuto  una  forte
risonanza sui mezzi di comunicazione. 
    3.1. - Esposto cio', dopo avere  rilevato  che  non  sussiste  la
eccepita nullita' dell'atto di citazione per  indeterminatezza  della
notizia di reato, la Corte remittente ha, innanzitutto,  sottolineato
come le questioni siano rilevanti,  in  quanto  la  norma  censurata,
precludendo l'azione in mancanza di un fatto di  reato,  impedirebbe,
nella specie, di pervenire ad una pronuncia nel merito. Inoltre, tale
disposizione presenterebbe natura processuale, con la conseguenza che
la stessa si applicherebbe nei giudizi in corso. 
    3.1.1.  -  Per  quanto  attiene  al  giudizio  di  non  manifesta
infondatezza, la Corte  premette  che  il  danno  all'immagine  della
pubblica  amministrazione  avrebbe  una  valenza   pubblicistica   e,
pertanto, si realizzerebbe non con la lesione del «buon nome» o della
«identita'  personale»,  ma  con  il   pregiudizio   al   «prestigio»
dell'amministrazione stessa. Ne consegue che, qualora lo Stato, o gli
altri enti pubblici, a causa della condotta illecita  di  un  proprio
dipendente (o amministratore) perdano di prestigio, si affievolirebbe
nei cittadini «il  desiderio  di  partecipazione,  il  sentimento  di
appartenenza e di affidamento alle istituzioni». 
    In questa prospettiva, la tutela  dell'immagine  dovrebbe  essere
considerata un  diritto  che  trova  la  sua  matrice  costituzionale
nell'art. 2 Cost., la cui lesione sarebbe, pertanto,  risarcibile  ex
art. 2059 del codice civile,  senza  che  sia  necessario  il  previo
accertamento della sussistenza di una condotta penalmente rilevante. 
    3.1.2. - Cio'  premesso,  si  assume  il  contrasto  della  norma
censurata con gli artt. 2 e 24 Cost. Infatti, tale norma, consentendo
la risarcibilita' soltanto in presenza di una  sentenza  irrevocabile
di condanna per la commissione  di  un  delitto  contro  la  pubblica
amministrazione, negherebbe la possibilita'  giuridica  alla  procura
contabile di agire in giudizio,  «cosi'  svuotando  di  contenuto  un
diritto riconosciuto alla pubblica amministrazione proprio in  virtu'
dell'art. 2 della Costituzione». 
    Il giudice a quo sottolinea, inoltre, come  non  sarebbe  neanche
prospettabile  una  interpretazione  conforme  a  Costituzione,   che
riconosca  "negli  altri  casi"  la   sussistenza   di   una   tutela
giurisdizionale in altra sede. 
    Ne consegue che non si porrebbe  una  questione  «di  difetto  di
giurisdizione del giudice contabile a favore di altro giudice  ma  di
carenza di qualsivoglia tutela», con conseguente violazione dell'art.
24 Cost. 
    3.1.3. - Sotto altro aspetto, si assume il contrasto della  norma
censurata con l'art.  3  Cost.  Infatti,  la  disposizione  in  esame
creerebbe una irragionevole ed illogica disparita' di trattamento tra
la tutela all'immagine assicurata alle  persone  giuridiche  private,
per le quali non varrebbe  alcun  limite,  e  quella  garantita  alle
persone giuridiche pubbliche, per le quali  varrebbero  i  limiti  in
esame. 
    Secondo  la  Corte,  se  e'  pur   vero   che   il   legislatore,
nell'esercizio della sua discrezionalita', puo' stabilire quali siano
i comportamenti idonei a fondare la  responsabilita'  amministrativa,
e' altrettanto vero che tali scelte devono essere non  irragionevoli.
La scelta legislativa di limitare la responsabilita' ai soli casi  di
colpa grave e  consentire  la  riduzione  dell'addebito  avrebbe  una
motivazione  adeguata  nell'esigenza  di  evitare  «rallentamenti  ed
inerzie nello svolgimento dell'attivita' amministrativa». Ma nel caso
in esame non  sarebbe  rinvenibile  alcuna  giustificazione  «ove  si
consideri la peculiare connotazione dell'immagine pubblica». 
    3.1.4. - Il remittente  ritiene  che  la  disposizione  censurata
abbia un contenuto  irragionevole  anche  perche'  introdurrebbe  una
disciplina differenziata tra condotte delittuose, in  relazione  alle
quali si riconosce la tutela, e condotte illecite non delittuose,  in
relazione alle quali non si riconosce la  tutela,  ancorche'  possano
comunque   causare   il    danno    all'immagine    della    pubblica
amministrazione. 
    3.1.5. - La violazione  dell'art.  3  Cost.  sussisterebbe  anche
perche' il legislatore ha inteso limitare la responsabilita' soltanto
in presenza dei reati previsti dal  capo  I,  titolo  II,  del  libro
secondo del codice penale, «precludendo  cosi'  il  risarcimento  del
danno all'immagine in tutte le altre ipotesi delittuose, tra le quali
ve ne sono certamente piu' gravi». Inoltre, la  norma  creerebbe  una
disparita' di trattamento tra dipendenti pubblici  e  amministratori,
in  quanto,  per  questi  ultimi,  non  opererebbero  le  limitazioni
previste dalla disposizione impugnata. 
    Entrambi questi  profili  non  sarebbero,  pero',  rilevanti,  in
quanto nel caso in esame non e' stata pronunciata alcuna sentenza  di
condanna. 
    3.1.6. - Sarebbe, inoltre, violato l'art. 97 Cost.,  atteso  che,
sebbene il buon andamento e  l'imparzialita'  «non  costituiscono  il
fondamento costituzionale della tutela  dell'immagine  pubblica»,  la
«stretta relazione tra l'immagine pubblica e l'agire corretto»  e  la
circostanza che gli stessi costituiscono  «criteri  cui  deve  essere
improntata l'azione amministrativa affinche'  il  prestigio  pubblico
non venga leso», comportano  che  «una  ridotta  tutela  della  prima
inevitabilmente     indebolisce      il      diritto      sostanziale
dell'amministrazione ad agire, attraverso  i  propri  funzionari,  in
modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente». 
    3.1.7. - Viene ipotizzata, poi, la violazione degli  artt.  25  e
103 Cost. 
    Si rileva, infatti, che la Corte dei conti, istituzionalmente, ha
una  giurisdizione  esclusiva  nelle  controversie   che   riguardano
soggetti legati alla  pubblica  amministrazione  da  un  rapporto  di
servizio  per  il  danno  erariale  causato  dalla   loro   condotta,
fattispecie, quest'ultima, alla quale deve ricondursi anche il  danno
all'immagine, che, come piu' volte chiarito dalle Sezioni unite della
Corte di cassazione, deve essere inteso come «la spesa necessaria  al
ripristino del prestigio», costituendo cosi'  un  danno  a  contenuto
patrimoniale in quanto suscettibile di valutazione economica. 
    Orbene, poiche' nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale
precostituito per legge, non  e'  possibile  configurare  l'esercizio
dell'azione per il  risarcimento  di  tale  danno  innanzi  ad  altra
autorita' giudiziaria diversa dalla Corte dei conti. 
    3.1.8. - Infine, il giudice a quo sottolinea come la  norma,  pur
essendo  inserita   nell'ambito   di   un   decreto-legge   volto   a
razionalizzare le risorse erariali  per  il  rilancio  dell'economia,
perseguirebbe «l'obiettivo contrario e cioe' quello di  imporre  alle
amministrazioni pubbliche le spese effettivamente sostenute a ristoro
del detrimento del proprio prestigio». 
    3.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo   che   le   questioni   sollevate    vengano    dichiarate
manifestamente inammissibili e infondate. 
    In primo luogo, si osserva come la limitazione di responsabilita'
in  esame  non  sarebbe   viziata   da   manifesta   illogicita'.   A
dimostrazione di come il legislatore  possa  introdurre  limiti  alla
responsabilita' contabile,  si  richiama  l'art.  1  della  legge  14
gennaio 1994, n. 20  (Disposizioni  in  materia  di  giurisdizione  e
controllo della Corte dei conti) che, al comma 1,  prevede  che  tale
responsabilita' e' configurabile in presenza, tra l'altro,  di  fatti
ed omissioni «commessi con dolo e colpa grave». Questa norma e' stata
ritenuta non in contrasto con la Costituzione dalla sentenza  n.  371
del 1998 di questa Corte. 
    L'Avvocatura sostiene  che  i  principi  enunciati  dalla  citata
pronuncia varrebbero anche nel caso in esame, in quanto verrebbe  pur
sempre in rilievo una norma  che  pone  limiti  alla  responsabilita'
contabile anche se «sotto il diverso profilo oggettivo del danno  per
il cui ristoro si agisce» e non  dei  criteri  di  imputazione  della
responsabilita'. 
    La difesa dello  Stato  mette,  poi,  in  rilievo  che  la  norma
censurata  non  esclude  in  assoluto  la  risarcibilita'  del  danno
all'immagine «ma la limita a quelle fattispecie ritenute di  maggiore
gravita' alle quali si ricollega - con l'esercizio dell'azione penale
- anche l'evidente pregiudizio collegato allo strepitus fori». 
    Del resto, si sottolinea, anche le Sezioni unite della  Corte  di
cassazione, con la sentenza n. 26972 del  2008,  hanno  posto  limiti
alla risarcibilita' del danno non patrimoniale,  richiedendo  che  la
legge debba riguardare un interesse avente rilevanza costituzionale e
che la lesione debba essere grave e il danno non futile. 
    Per quanto attiene, poi,  all'asserita  violazione  dell'art.  24
Cost., si richiama,  per  dimostrare  l'infondatezza  della  censura,
l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, secondo il  quale
«la  garanzia  apprestata  dall'art.  24  della  Costituzione   opera
attribuendo tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive
nei termini in cui queste risultano  riconosciute  dal  legislatore»,
trovando dunque confini nel contenuto del diritto  sostanziale  cosi'
come delineato dall'ordinamento (sentenza n. 327 del 1998). 
    Per quanto attiene alla censura fondata  sugli  artt.  25  e  103
Cost., se ne deduce l'inammissibilita', «in quanto prospettata in via
ipotetica ed eventuale alla luce di una interpretazione  della  norma
che si afferma non possibile». In ogni caso,  si  aggiunge,  «nessuno
spostamento di giurisdizione o limitazione di poteri  giurisdizionali
si verifica  nel  caso  in  esame,  incidendo  la  disposizione  solo
sull'ambito delle pronunce che possono essere  rese  nel  merito  dal
giudice contabile alla luce dei diritti sostanziali azionabili». 
    Non sarebbe, inoltre, fondata la censura con  cui  si  deduce  la
violazione del principio di uguaglianza, in quanto la  diversita'  di
trattamento giuridico sarebbe  giustificata  dalla  diversita'  delle
posizioni dei soggetti coinvolti dall'azione di responsabilita'. 
    Per  quanto  attiene,  poi,  alla   doglianza   prospettata   con
riferimento alla limitazione dei reati posta dall'art. 7 della  legge
n. 97 del 2001, si  osserva,  in  primo  luogo,  come,  «ammesso  che
l'interpretazione delle norme suggerita dalla  Corte  remittente  sia
effettivamente corretta, la stessa  non  esclude  l'esperibilita'  di
altri rimedi in altra sede giurisdizionale  diversa  dalla  Corte  di
conti, si' da consentire  un  ristoro  del  danno  all'immagine».  In
secondo luogo, si  sottolinea  che  si  sarebbe,  in  ogni  caso,  in
presenza di  una  «valutazione  discrezionale  del  legislatore,  non
irrazionale e quindi non censurabile, essendo in linea  di  principio
ragionevole volere limitare la risarcibilita' di un tipo di  danno  a
quelle fattispecie che per  l'amministrazione  di  appartenenza  -  e
quindi dall'opinione pubblica - possono essere  percepite  come  piu'
gravi in quanto rivolte  proprie  contro  l'ente  nell'interesse  del
quale si sarebbe dovuto agire». 
    Infine, in relazione all'asserita violazione dell'art. 97  Cost.,
si osserva come «la norma delimiti in maniera equilibrata le  ipotesi
di risarcibilita' di cui si tratta, proprio nel perseguimento di quei
fini pubblici che - ha ritenuto il legislatore  -  rischierebbero  di
essere obliterati da un troppo  severo  ampliamento  della  sfera  di
responsabilita': essa  si  riverbererebbe,  infatti,  inevitabilmente
sulla rapidita' ed efficacia dell'agire amministrativo». 
    4. - Analoga questione di legittimita' costituzionale della norma
in esame ha sollevato, con ordinanza del 14 ottobre  2009,  la  Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord.
n. 25 del 2010), la quale ha, peraltro, limitato le censure  ai  soli
periodi secondo e terzo del comma 30-ter dell'art. 17. 
    La remittente premette che la procura contabile aveva evocato  in
giudizio taluni «esponenti» del Comune di Benevento che, con il  loro
comportamento gravemente colposo, consistito  nel  «mancato  rispetto
degli obblighi inerenti il mancato raggiungimento  delle  percentuali
minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi  2003,
2004  e  2005,  avevano  cagionato,  oltre  che  un  rilevante  danno
patrimoniale, anche un danno derivante dalle spese necessarie per  il
ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente. 
    4.1.  -  La  Corte  remittente  rileva,  innanzitutto,  come   la
questione sia rilevante, in quanto la norma censurata,  limitando  la
legittimazione  dell'ufficio  requirente  contabile   ad   agire   in
giudizio, avrebbe natura  processuale,  con  la  conseguenza  che  si
applicherebbe anche ai giudizi in corso. 
    4.1.1. - Con riferimento alla non  manifesta  infondatezza  della
questione, si assume, in  primo  luogo,  la  violazione  dell'art.  2
Cost., in quanto tale  articolo,  garantendo  i  diritti  inviolabili
dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali ove  si  svolge  la
sua personalita', impone che venga assicurata la tutela  del  diritto
all'immagine sia delle persone fisiche sia delle persone  giuridiche,
pubbliche e private. 
    A tale proposito, si rileva come l'art. 2059 cod. civ.  riconosca
il risarcimento del danno non patrimoniale anche al  di  fuori  delle
ipotesi in cui le condotte poste in essere integrano gli  estremi  di
fatti di reato, ogniqualvolta  venga  lesa  una  posizione  giuridica
soggettiva tutelata a livello costituzionale. 
    4.1.2. - Sotto altro profilo, il giudice a  quo  ritiene  che  la
norma violi l'art. 3 Cost., in quanto  creerebbe  una  disparita'  di
trattamento tra il dipendente pubblico e gli amministratori, compresi
quelli  degli  enti  locali,  che  non  sarebbero  destinatari  della
disposizione   censurata.   Quest'ultima,   infatti,    ammette    il
risarcimento del danno all'immagine nei soli  casi  e  modi  previsti
dall'art.  7  della  legge  n.  97  del  2001,  il  quale  si  occupa
esclusivamente dei dipendenti pubblici. Inoltre, l'ente si troverebbe
in una «ingiustificata posizione  di  svantaggio  nei  confronti  del
dipendente pubblico». 
    A tale proposito, si puntualizza che «l'irragionevolezza di  tale
distinzione risulta  di  tutta  evidenza  ove  si  ponga  mente  alla
circostanza che sono proprio gli  amministratori,  che  rappresentano
nei  rapporti  giuridici  e  politici  gli  enti  pubblici,  a  porre
maggiormente in pericolo il prestigio degli  enti  stessi,  piuttosto
che i dipendenti pubblici legati a tali  enti  da  un  mero  rapporto
lavorativo». 
    Non si comprenderebbero  neanche  le  ragioni  della  scelta  del
legislatore, il quale non avrebbe collegato il «privilegio  perpetuo»
ad una «fondata circostanza». 
    Un ulteriore profilo di irragionevole disparita'  di  trattamento
vi sarebbe tra la pubblica  amministrazione  e  i  restanti  soggetti
dell'ordinamento, «in quanto il  deterioramento  dell'immagine  della
prima non e' sanzionato  se  non  in  casi  limite  dipendenti  dalla
commissione di gravi  delitti,  mentre  quello  dei  secondi  e'  ben
tutelato in tutti i casi di commissione  di  illecito  anche  di  non
rilievo penale». 
    4.1.3. - Secondo il remittente, la norma censurata si porrebbe in
contrasto  anche  con  l'art.  97  Cost.,  in  quanto,  da  un  lato,
«determina un'alterazione della  funzionalita'  degli  enti  pubblici
sotto il delicato  profilo  della  reputazione  e  della  conseguente
fiducia dei cittadini nei confronti delle  istituzioni»,  dall'altro,
«contraddice»  il  principio  di  imparzialita'   «che   si   risolve
essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale». 
    4.1.4. - Sotto altro aspetto la manifesta irragionevolezza  della
disposizione in esame risulterebbe dal fatto che la  norma  e'  stata
introdotta dalla legge di conversione  «senza  che  nel  corso  della
brevissima discussione», avente ad oggetto la norma stessa, «ne siano
state valutate a pieno la portata e le conseguenze». 
    4.1.5. - Sarebbero violati, altresi', gli artt. 24, primo  comma,
che riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio  a  tutela  dei
propri diritti e interessi e 113, primo e secondo comma,  Cost.,  che
non consentirebbero «alcuna limitazione alla  tutela  giurisdizionale
di  diritti  ed  interessi   legittimi   in   materia   di   funzione
amministrativa». 
    4.1.6. - Il contrasto,  invece,  con  l'art.  81,  quarto  comma,
Cost., deriverebbe dal fatto che non sarebbe  stata  prevista  alcuna
copertura  finanziaria  «della  minore  entrata  imposta  agli   enti
pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati  alle  loro
finanze di natura derivata». 
    4.1.7. - Infine, si assume la violazione degli artt. 103, secondo
comma, e 25, primo comma, Cost.  Cio'  in  quanto,  alla  luce  delle
citate  disposizioni  costituzionali,  al  legislatore  non   sarebbe
consentito, da un lato, «escludere apoditticamente  la  giurisdizione
della Corte dei  conti  con  riferimento  ad  ipotesi  specifiche  di
responsabilita' rientranti  tradizionalmente  e  genericamente  nella
materia della  contabilita'  pubblica»,  dall'altro,  distogliere  la
controversia dal suo giudice naturale «successivamente al verificarsi
del fatto generatore». 
    4.2. - E' intervenuto anche in tale giudizio  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le  questioni  sollevate  vengano
dichiarate inammissibili o infondate. 
    L'Avvocatura,  dopo  avere  svolto  la  premessa  gia'  contenuta
nell'atto   di   intervento   depositato   nel   giudizio    riferito
all'ordinanza n. 24 del 2010, riprende le stesse  argomentazioni  con
riguardo alle censure formulate in relazione agli artt. 24 (nel  caso
in esame si richiama anche l'art. 113 ma le deduzioni non  mutano)  e
97 Cost. 
    Con  riferimento  all'asserita  violazione   del   principio   di
uguaglianza si aggiunge come, «a prescindere dal fatto che e'  lecito
dubitare   che   l'interpretazione   fornita   dal   remittente   sia
effettivamente corretta e l'unica  possibile  sotto  il  profilo,  ad
esempio,  della  non  applicabilita'  della  norma  in   esame   agli
"amministratori" degli enti e agli altri soggetti  legati  da  (mero)
rapporto di  servizio»,  sarebbe  sufficiente  porre  in  rilievo  la
diversita' della posizione dei soggetti che provocano o subiscono  il
danno per giustificare la diversita' di trattamento. 
    Per quanto  attiene  poi  all'asserita  violazione  dell'art.  81
Cost.,   l'Avvocatura   sottolinea   l'inconferenza   del   parametro
costituzionale evocato. 
    Infine, con riferimento all'asserita violazione degli artt. 25  e
103 Cost., si rileva come «nessuno  spostamento  di  giurisdizione  o
limitazione dei  poteri  giurisdizionali  si  verifica  nel  caso  in
esame». 
    5. - Con ordinanza del 27  ottobre  2009,  la  Corte  dei  conti,
sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 26  del
2010),  ha  sollevato  una  ulteriore   questione   di   legittimita'
costituzionale  avente  ad  oggetto   il   medesimo   comma   30-ter,
limitatamente ai periodi secondo e terzo. 
    Il giudice a quo premette che la procura contabile  aveva  citato
in giudizio due dipendenti del Ministero delle finanze, uno solo  dei
quali e' stato condannato con sentenza passata in giudicato ma per un
reato non  rientrante  tra  quelli  indicati  nel  capo  relativo  ai
«delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione». 
    5.1. - Cio' premesso, la Corte remittente solleva la questione di
legittimita'  costituzionale  per  le  medesime   ragioni   contenute
nell'ordinanza del 14 ottobre 2009 (r.o. n. 25 del 2009). 
    In particolare, si aggiunge  che  «non  appare  coerente  con  il
sistema costituzionale e con i principi del diritto  non  considerare
dannosi per il prestigio  dell'amministrazione  gli  illeciti  penali
diversi da quelli specifici contenuti nel capo I del  titolo  II  del
libro II del codice penale, in quanto anche gli altri - ove  compiuti
nell'esercizio delle funzioni pubbliche o in occasione di esse - sono
senz'altro lesivi dell'immagine della p.a.». 
    5.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  che  ha
depositato un atto avente lo stesso contenuto  di  quello  depositato
nel giudizio promosso con l'ordinanza reg. ord. n. 25 del 2006. 
    6. - La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per  la  Regione
Campania, ha sollevato, con ordinanza del 9 dicembre 2009 (reg.  ord.
n. 27 del  2010),  altra  questione  di  legittimita'  costituzionale
avente sempre ad oggetto l'art. 17, comma 30-ter, periodi  secondo  e
terzo. 
    6.1. - Il giudice a quo premette che la procura  contabile  aveva
evocato in giudizio il sindaco, un dirigente, un capo servizio ed  un
responsabile di un ufficio  del  Comune  di  Marcianise  perche'  gli
stessi venissero condannati al pagamento, pro quota,  di  determinate
somme per il «mancato rispetto degli  obblighi  inerenti  il  mancato
raggiungimento da parte del Comune di  Marcianise  delle  percentuali
minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi  2003,
2004 e 2005. In particolare, ai soggetti convenuti in giudizio veniva
richiesto,  tra  l'altro,  il  risarcimento  di  danni  per   lesione
dell'immagine dell'ente  regionale  a  causa  dell'«enorme  risonanza
nella pubblica opinione dell'emergenza  rifiuti,  con  risalto  anche
all'estero ed impatto fortemente negativo per il settore turistico». 
    6.1.2. - Si assume che la questione sarebbe rilevante, in  quanto
la norma impugnata, avendo natura processuale,  si  applicherebbe  ai
giudizi in corso, imponendo l'accoglimento dell'eccezione di nullita'
della domanda risarcitoria di danno all'immagine. 
    6.1.3.  -  Per  quanto  attiene  al  giudizio  di  non  manifesta
infondatezza si assume la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto  la
norma impugnata, con prescrizione non ragionevole, avrebbe introdotto
un limite all'esercizio dell'azione di danno soltanto  a  favore  dei
dipendenti pubblici e non anche degli  amministratori,  nonostante  a
quest'ultimi sia rimessa «l'attivita' di formazione  degli  indirizzi
politici  dell'ente,  laddove  ai  dipendenti  e'  affidata  la  fase
propriamente gestionale se non addirittura operativa». 
    6.1.4. - Il giudice a quo  assume,  inoltre,  che  sia  priva  di
ragionevole  giustificazione  la  scelta  legislativa  di   ammettere
l'azione di risarcimento  del  danno  soltanto  in  presenza  di  una
condanna definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione  e
non anche in presenza di altre  ipotesi  delittuose  o  di  «illeciti
gestionali caratterizzati da colpa grave». 
    6.1.5. - Sarebbe, inoltre, violato anche  l'art.  103  Cost.,  in
quanto la norma, escludendo la risarcibilita' in presenza di  delitti
diversi da quelli contro  la  pubblica  amministrazione,  inciderebbe
sull'ambito della giurisdizione della Corte dei conti. 
    6.1.6. - Sarebbero, violati, anche gli artt. 24, primo comma, che
riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri
diritti e interessi, e 113, primo e secondo comma, Cost. 
    6.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  che  ha
esposto, con riguardo agli evocati artt. 3, 24, 103 e 113  Cost.,  le
argomentazioni gia' indicate  negli  altri  atti  di  intervento.  La
difesa dello Stato ha aggiunto che le norme in esame  possono  essere
interpretate in senso  conforme  a  Costituzione,  ritenendo  che  la
responsabilita' si estende non  solo  ai  dipendenti  ma  anche  agli
amministratori. 
    7. - La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per  la  Regione
siciliana, ha anch'essa sollevato, con ordinanza del 14 ottobre  2009
(reg. ord. n. 44 del 2010), questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 17, comma 30-ter,  periodi  secondo  e  terzo,  del  citato
decreto-legge n. 78 del 2009. 
    7.1. - Il remittente premette  che  la  procura  contabile  aveva
chiesto la condanna di un assistente di polizia penitenziaria  presso
la casa circondariale di Caltanissetta al pagamento  della  somma  di
euro 10.000,00, oltre  le  spese  di  giudizio,  a  titolo  di  danno
erariale subito dal Ministero della giustizia. In particolare, veniva
contestato al dipendente la lesione dell'immagine dell'ente  a  causa
della condotta tenuta dallo stesso e consistita nella commissione  di
reati, accertati con sentenza irrevocabile, di violenza sessuale, con
abuso di qualita' e di poteri, e di concussione ai  danni  di  alcuni
detenuti. In concreto la sussistenza  del  danno  sarebbe  dimostrata
dalla pubblicita' che la vicenda in esame  avrebbe  avuto  presso  la
stampa locale. 
    7.1.1. - Cio' premesso, il giudice a quo assume che la  questione
e'  rilevante,  in  quanto  la   norma   impugnata,   ammettendo   la
proposizione dell'azione di danno soltanto  in  presenza  di  delitti
contro la pubblica amministrazione, non consentirebbe un giudizio  di
merito sull'intera domanda. Inoltre,  la  nullita'  dell'azione  puo'
essere rilevata d'ufficio dal giudice; ma anche  qualora  si  volesse
argomentare  diversamente,  deve  ritenersi,  puntualizza  la   Corte
remittente, che il  pubblico  ministero,  sollevando  l'eccezione  di
legittimita'  costituzionale,  «ha  implicitamente  riconosciuto   ed
eccepito  la  nullita'  sopravvenuta  in  parte  qua   dell'atto   di
citazione». 
    7.1.2. - Prima  di  esporre  le  ragioni  a  sostegno  della  non
manifesta infondatezza della questione, il remittente precisa che  la
norma, per il suo chiaro contenuto precettivo, non e' suscettibile di
essere interpretata in modo conforme a Costituzione. 
    7.1.3. - Chiarito cio', si assume,  innanzitutto,  la  violazione
dell'art. 3 Cost., per irragionevolezza della scelta  legislativa  di
ammettere la risarcibilita' soltanto in presenza di comportamenti che
integrano gli estremi di delitti contro la pubblica amministrazione e
non anche di altri reati, quali, ad  esempio,  i  reati  di  violenza
sessuale, che possano  avere  anche  una  maggiore  idoneita'  lesiva
dell'immagine della  pubblica  amministrazione,  soprattutto  quando,
come nel caso oggetto del giudizio  a  quo,  essi  vengono  consumati
all'interno di un istituto penitenziario. 
    7.1.4.  -  Sotto  altro   aspetto,   si   rileva   come   sarebbe
irragionevole la scelta legislativa di ancorare  alla  tipologia  dei
reati  il  ridimensionamento   della   legittimazione   all'esercizio
dell'azione. 
    7.1.5. -  Inoltre,  la  irragionevolezza  della  norma  in  esame
risulterebbe dal fatto che essa e' inserita in un  testo  legislativo
che ha, quale principale finalita', quella di prevedere misure idonee
a fronteggiare l'attuale crisi economica. La disposizione  in  esame,
si  sottolinea,  comporterebbe,  invece,  addirittura  «un   maggiore
esborso, qualora l'ente danneggiato debba ricorrere alla costituzione
di parte civile nel processo penale o alla  coltivazione  dell'azione
risarcitoria direttamente nel giudizio civile per ottenere  la  piena
reintegrazione alla propria immagine lesa». 
    7.1.6. - La norma censurata comporterebbe, altresi',  un'evidente
disparita' di trattamento  tra  dipendenti  dell'ente  pubblico  che,
avendo commesso uno dei delitti contro la  pubblica  amministrazione,
sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e dipendenti  che,  pur
avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni ricoperte e
nell'esercizio delle stesse, «sono sottoposti,  per  il  risarcimento
del  danno  all'immagine,  alla  giurisdizione  ordinaria,   con   un
differente regime processuale e prescrizionale». 
    7.1.7. - La Corte remittente ritiene che la norma contrasti anche
con il principio di buon andamento dell'azione  amministrativa  (art.
97 Cost.), in quanto, da un lato, «indebolisce l'efficacia deterrente
del giudizio di  responsabilita';  dall'altro,  come  nella  presente
fattispecie ed in ipotesi similari, comporta il dispendio di maggiori
risorse a carico dell'erario per  l'attivazione  di  plurimi  giudizi
volti ad ottenere l'"integrale" risarcimento del danno  all'immagine,
pur essendo state poste in essere condotte da parte  di  un  pubblico
dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le  ipotesi
delittuose di cui al capo I del  titolo  II  del  libro  secondo  del
codice penale che altre fattispecie delittuose». 
    7.1.8. - Infine, si assume la violazione dell'art. 24 Cost., «dal
momento che la limitazione della legittimazione ad agire del pubblico
ministero, nella maggior  parte  dei  casi,  si  configura  come  una
minorata tutela  dell'erario  giacche'  l'iniziativa  processuale  e'
lasciata  alle  stesse  amministrazioni  danneggiate,  con  possibili
pratiche lassiste». 
    7.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il
quale, dopo avere svolto la premessa gia'  esposta,  ha  sottolineato
come le questioni  siano  inammissibili,  in  quanto  il  remittente,
formulando  «un  giudizio  di  "maggiore  pregnanza"  di  determinate
fattispecie  criminose  rispetto  ad  altre,  compie  in  realta'  un
apprezzamento  assolutamente  soggettivo  e   ovviamente   opinabile,
intendendo cosi' sostituire  le  proprie  valutazioni  a  quelle  del
legislatore». 
    In relazione, poi,  all'asserita  irragionevolezza  della  norma,
l'Avvocatura dello Stato fa  presente  come  sia  lo  stesso  giudice
remittente ad  affermare  che  «non  sarebbe  preclusa,  in  caso  di
presunto danno all'immagine  derivante  dalla  commissione  di  reati
diversi da quelli previsti dalla norma, la possibilita' di agire  per
il risarcimento innanzi ad un giudice diverso dal giudice contabile». 
    Per quanto attiene, invece, alla irragionevolezza  connessa  alla
collocazione sistematica della norma, si osserva come «a  prescindere
dalla correttezza di una  prassi  ormai  assolutamente  costante  dal
(solo) punto di vista della "buona tecnica legislativa", non si  vede
(ne' si dimostra in alcun modo) come la sedes prescelta possa in  se'
aver  inficiato  le  compiute  valutazioni  del  legislatore   e   la
ragionevolezza della norma». 
    Con riferimento all'asserita differenziazione ingiustificata  tra
le posizioni dei dipendenti  sottoposti  o  meno  alla  giurisdizione
contabile, si deduce come non sia «del tutto chiaro se la censura  si
riferisca  alla  differenza  esistente,  in   linea   generale,   tra
soggetti-dipendenti   pubblici   sottoposti    o    sottratti    alla
giurisdizione contabile (...), ovvero alla differenza di  trattamento
in ipotesi ravvisata nell'ambito dei soggetti tutti sottoposti a tale
giurisdizione con  riferimento  alla  risarcibilita'  di  determinati
danni». 
    Con riferimento alla  censura  riferita  all'art.  24  Cost.,  si
assume come essa sia inammissibile,  in  quanto  formulata  in  forma
eventuale. Nel merito, si  ribadiscono  le  argomentazioni  contenute
negli altri atti difensivi. 
    8. - La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per  la  Regione
Lombardia, ha anch'essa sollevato, con ordinanza del 29 dicembre 2009
(reg. ord. n. 125 del 2010), questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo. 
    8.1. - La procura contabile  aveva  chiesto  la  condanna  di  un
ispettore di polizia  di  Stato  al  risarcimento  del  danno  subito
dall'immagine dell'amministrazione di appartenenza.  In  particolare,
si era contestato al  convenuto  di  avere  preteso,  abusando  della
propria qualita' e dei suoi  poteri,  di  accedere  gratuitamente  in
locali aperti al pubblico. 
    Per tale vicenda era stato iniziato un procedimento penale per il
reato di concussione, che aveva portato alla condanna in primo  grado
e all'assoluzione  in  appello  perche'  «il  fatto  non  costituisce
reato». 
    8.1.1. - Secondo il giudice a quo la questione sarebbe rilevante,
in quanto la norma, applicabile ai giudizi in corso, in ragione della
sua natura processuale, impedirebbe la definizione nel  merito  della
controversia, dovendo la Corte declinare la propria giurisdizione. 
    8.1.2.  -  Con  riferimento  al  giudizio  sulla  non   manifesta
infondatezza, si assume,  innanzitutto,  la  violazione  dell'art.  2
Cost. che, letto in combinato disposto con  l'art.  2059  cod.  civ.,
assicurerebbe il risarcimento  del  danno  per  lesione  del  diritto
all'immagine  della  pubblica  amministrazione  a  prescindere  dalla
sussistenza di un fatto di reato. In questa  prospettiva,  sottolinea
il  giudice  a  quo,  la  norma   censurata   porrebbe   «un   limite
irragionevole (e, soprattutto, incomprensibile) alla piena protezione
di un primario valore costituzionale garantito anche per  una  figura
soggettiva pubblica». 
    8.1.3. - Sarebbe violato, altresi', l'art. 97 Cost., in quanto la
previsione legislativa censurata favorirebbe «l'irresponsabilita' dei
dipendenti pubblici, non piu' soggetti al giudizio di responsabilita'
innanzi alla  Corte  di  conti  in  caso  di  comportamenti  illeciti
causativi di danno all'immagine dell'ente di riferimento al di  fuori
delle ipotesi di reato». 
    8.1.4. - L'asserita violazione dell'art. 3 Cost. deriverebbe  dal
fatto che sarebbe  intrinsecamente  irragionevole  limitare  l'azione
risarcitoria in esame prescindendo da qualunque valutazione circa  le
caratteristiche e la specifica gravita' del comportamento illecito. 
    8.1.5. -  La  irragionevolezza  sarebbe,  inoltre,  ulteriormente
rafforzata dal fatto che la norma e' inserita in una corpus normativo
che dovrebbe avere  la  finalita'  di  introdurre  misure  idonee  al
recupero di risorse utili per il Paese. La norma  impugnata,  invece,
favorendo il «lassismo e l'irresponsabilita'  dei  (soli)  dipendenti
pubblici», si muoverebbe in una contraria direzione. 
    8.1.6. - L'art. 3 Cost. sarebbe violato anche per  la  disparita'
di trattamento che  la  norma  introduce,  da  un  lato,  tra  l'ente
pubblico e le altre figure soggettive, in quanto solo  questi  ultimi
godrebbero di una tutela  piena  del  proprio  diritto  all'immagine;
dall'altro, tra dipendenti pubblici e amministratori, atteso  che  la
norma censurata non comprenderebbe  nel  proprio  ambito  applicativo
anche tale ultima categoria di soggetti. 
    8.1.7. - La Corte remittente assume, inoltre, che  sarebbe  stato
violato, anche in relazione all'art. 25, l'art. 103,  secondo  comma,
Cost., che attribuisce in  via  generale  alla  Corte  dei  conti  la
giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica,  tra  le  quali
rientrerebbe anche quella in esame. 
    8.1.8. -  Sarebbe  violato  anche  l'art.  24  Cost.,  in  quanto
«l'irrazionale  e  macchinoso  "doppio  binario"»  inciderebbe  sulla
legittimazione ad agire del pubblico ministero  contabile,  «con  una
presumibile minore tutela dell'erario, in carenza di un organo dotato
di strumenti di indagine e poteri  istruttori  di  cui  gli  ordinari
uffici pubblici certo non possono disporre». 
    8.1.9. - Infine, si deduce la violazione dell'art. 77  Cost.,  in
quanto mancherebbero i presupposti di necessita' e di urgenza ai fini
dell'emanazione della norma  censurata;  presupposti  che  dovrebbero
esistere anche in  relazione  alle  norme,  quale  quella  censurata,
previste direttamente dalla legge di conversione del decreto-legge. 
    A tale proposito, il giudice a quo sottolinea  che  il  principio
affermato nella sentenza n. 391 del 1995 della Corte  costituzionale,
secondo cui i predetti presupposti non devono sussistere in relazione
alle norme introdotte in sede di conversione, sarebbe stato  superato
dalla successiva  giurisprudenza  costituzionale  (si  richiamano  le
sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), secondo  cui  anche  gli
emendamenti al decreto-legge in sede di conversione, il cui contenuto
sia  «dissonante»  con  quello  del  decreto,  devono  rispettare   i
requisiti della straordinaria necessita' ed urgenza. 
    8.2. - E' intervenuto anche in questo giudizio il Presidente  del
Consiglio dei ministri, con il  patrocinio  dell'Avvocatura  generale
dello Stato, ribadendo quanto  gia'  esposto  a  proposito  di  altre
ordinanze di rimessione, con riferimento alle censure prospettate  in
relazione agli artt. 2, 3, 24, 25, 97, 103 Cost. 
    Per quanto attiene all'asserita violazione dell'art. 77 Cost., si
assume che la stessa non e' fondata,  in  quanto  i  requisiti  della
necessita' ed urgenza devono essere presenti soltanto con riferimento
al  decreto-legge  e  non  anche  alla  legge  di   conversione.   Si
puntualizza, a tale proposito, che la sentenza n. 128 del 2008  della
Corte, richiamata nell'ordinanza a sostegno  della  fondatezza  della
doglianza, riguarderebbe una fattispecie in  cui  l'asserito  difetto
dei presupposti era riferito alla norma contenuta nel decreto-legge. 
    9. - L'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo,  e'  stato
censurato anche, con ordinanza del 10 dicembre 2009 (reg. ord. n. 145
del 2010), dalla Corte dei  conti,  sezione  giurisdizionale  per  la
Regione Toscana. 
    9.1. - Il giudice a quo espone che  la  procura  contabile  aveva
citato in giudizio taluni agenti della polizia di Stato  in  servizio
presso  la  stazione  ferroviaria  di   Firenze   perche'   venissero
condannati   al   risarcimento   del   danno   all'immagine    subito
dall'amministrazione, in  conseguenza  della  condanna  dei  predetti
agenti, con sentenza irrevocabile, per avere commesso, con  abuso  di
autorita', reati di violenza sessuale e  di  falsita'  ideologica  in
atti pubblici. 
    9.1.2. - La questione di costituzionalita' sarebbe rilevante,  in
quanto la norma impugnata consente  la  proposizione  dell'azione  di
risarcimento del danno all'immagine soltanto in presenza  di  delitti
contro la  pubblica  amministrazione.  Ne  conseguirebbe  che,  nella
specie, se la norma non venisse dichiarata incostituzionale, la Corte
dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione. 
    9.1.3. - Esposto cio', si  assume,  innanzitutto,  che  la  norma
censurata contrasterebbe con l'art.  3  Cost.,  in  quanto  essa,  in
maniera  irragionevole  ed   arbitraria,   ammetterebbe   la   tutela
risarcitoria del diritto all'immagine della pubblica  amministrazione
soltanto in presenza di talune condotte illecite. 
    9.1.4. - Sarebbe,  altresi',  violato  l'art.  24,  primo  comma,
Cost., in quanto la  norma  limiterebbe  il  diritto  della  pubblica
amministrazione di agire in giudizio per fare valere i propri diritti
ed interessi. 
    9.1.5. - Viene evocato anche l'art. 97 Cost., in  quanto  sarebbe
violato, da un lato, il principio di buon andamento in ragione  della
«perdita di fiducia che i cittadini  possono  nutrire  nei  confronti
delle  istituzioni,  dando  luogo  ad  una  visione  poco  affidabile
dell'amministrazione»; dall'altro, il principio di imparzialita' «per
gli evidenti effetti distorsivi che cio' comporta sull'organizzazione
della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta
potenzialita'  operativa  ed  efficienza  nella  cura  dell'interesse
pubblico». 
    9.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo  le
argomentazioni gia' esposte negli altri atti  difensivi  al  fine  di
dimostrare la infondatezza anche della questione in esame. 
    10. - Il medesimo comma 30-ter, periodi secondo e terzo, e' stato
censurato anche, con ordinanza del 17 marzo del 2010 (reg. n. 162 del
2010), dalla Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale  centrale
d'appello. 
    10.1. - La Corte remittente,  in  via  preliminare,  illustra  la
vicenda oggetto del giudizio nei seguenti termini. 
    La procura contabile aveva  evocato  in  giudizio  il  Presidente
dell'Anas, carica ricoperta  dal  Ministro  pro  tempore  dei  lavori
pubblici (dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992), perche' egli venisse
condannato, a titolo di responsabilita' amministrativa, al  pagamento
in favore dell'erario della somma 32 miliardi  di  lire.  Tale  danno
erariale si sarebbe prodotto a causa  dei  maggiori  costi  sostenuti
dall'amministrazione  per  l'abnorme  diffusione  del  sistema  delle
trattative private in luogo delle licitazioni. 
    Successivamente  veniva   notificato   un   atto   di   citazione
integrativo con il quale, oltre  a  rimodulare  l'importo  del  danno
erariale patrimoniale (da 32 a poco piu' di 20 miliardi di lire),  la
procura contestava, quale ulteriore voce non ricompresa nell'atto, il
danno all'immagine dell'amministrazione. 
    Con sentenza di primo grado del  17  ottobre  2007,  n.  1527  la
sezione giurisdizionale per il Lazio ha condannato  il  convenuto  al
risarcimento del danno patrimoniale per l'importo di euro  5.000.000.
Con la stessa sentenza e' stata, invece, dichiarata inammissibile  la
richiesta di risarcimento  del  danno  non  patrimoniale  perche'  la
relativa contestazione sarebbe stata introdotta per  la  prima  volta
nell'atto di citazione integrativa  realizzando  una  non  consentita
mutatio libelli. 
    La predetta sentenza e' stata appellata dalla procura. Il giudice
remittente, con sentenza del  5  febbraio  2010  n.  75,  ha  accolto
l'appello, ritenendo ammissibile la domanda di risarcimento per danno
all'immagine,  in  quanto  la  stessa  era  stata  preceduta  da  uno
specifico invito a  dedurre,  sicche'  «la  contestazione  del  danno
all'immagine doveva prefigurarsi non come una mutatio libelli, bensi'
come una nuova ed autonoma domanda». A seguito di tale  decisione  si
sarebbe dovuto disporre il rinvio  al  giudice  di  primo  grado  per
l'analisi nel merito. A questo punto il giudice a quo si e' posto  la
questione  relativa  alla  disamina  dell'eccezione  della   nullita'
dell'atto processuale introduttivo del giudizio di appello  sollevata
dall'appellato alla luce  proprio  di  quanto  previsto  dalla  norma
impugnata. Il Collegio ha ritenuto, a tale proposito, che tale  norma
fosse suscettibile di applicazione in sede di appello «in  quanto  la
sentenza  di  prime  cure  ha  pronunciato  l'inammissibilita'  della
citazione sul punto del danno all'immagine senza entrare nel merito».
Pertanto, la Corte invece di disporre il rinvio al giudice  di  primo
grado  in  relazione  al  danno  all'immagine,  ha   sollevato,   con
l'ordinanza sopra citata, questione  di  legittimita'  costituzionale
della norma in esame. 
    Per quanto attiene poi al procedimento penale, il giudice  a  quo
descrive  in  maniera  dettagliata   tutti   i   passaggi   di   tale
procedimento, rilevando come esso si sia concluso  con  una  sentenza
(n. 2257 del  2005),  emessa  dal  giudice  dell'udienza  preliminare
presso il Tribunale di Roma, di assoluzione  «perche'  il  fatto  non
sussiste». Ma cio', si puntualizza, non e' avvenuto «a seguito di  un
sostanziale riesame di merito, ovvero per vizi propri della  sentenza
di primo grado», ma «per la dichiarata  incompetenza  funzionale  del
collegio per i reati ministeriali (accertata  dalla  Corte  d'appello
applicando i principi resi da una sentenza della Corte costituzionale
nelle more intervenuta) e a seguito dell'approvazione legislativa  di
una nuova norma di garanzia, incidente anche  sul  valore  probatorio
delle dichiarazioni gia' correttamente rese». 
    10.1.2. - Cio' premesso, il giudice remittente sottolinea come la
questione proposta sia  rilevante,  in  quanto  l'applicazione  della
norma impugnata precluderebbe l'analisi nel merito della  domanda  di
risarcimento del danno all'immagine della pubblica amministrazione. 
    10.1.3. - Prima di esporre, nello specifico, le ragioni  poste  a
fondamento del giudizio di non manifesta  infondatezza,  il  predetto
giudice  rileva  come  la  norma  censurata  possa  «prefigurare  due
distinte opzioni interpretative, tra loro alternative».  Secondo  una
prima interpretazione la disposizione in esame avrebbe ridotto l'area
di configurabilita'  del  danno  all'immagine.  Secondo  una  diversa
interpretazione, invece, il legislatore avrebbe inteso  ripartire  la
cognizione dei comportamenti lesivi del  diritto  all'immagine  della
pubblica amministrazione tra giudice contabile e giudice ordinario. 
    Entrambe «le possibilita' interpretative», puntualizza il giudice
remittente, «non sembrano costituzionalmente conformi ed  orientate».
Infatti, in entrambe le evenienze verrebbero violati  i  principi  di
ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost.), nonche' il principio  di
buon  andamento   (art.   97   Cost.).   La   prima   interpretazione
contrasterebbe, inoltre, con gli artt. 24 e 25 Cost. 
    10.1.4. - L'ordinanza assume che la norma impugnata violerebbe il
principio di buon andamento e imparzialita' di cui all'art. 97 Cost.,
in quanto «l'immagine della pubblica  amministrazione  si  immedesima
con  il  buon  andamento  e  con  l'imparzialita'  costituzionalmente
protetti» e «rappresenta uno  strumento  per  la  percezione  esterna
della correttezza della gestione». 
    10.1.5. - Sarebbe violato anche il principio  di  ragionevolezza,
atteso  che   il   legislatore   avrebbe   limitato,   senza   alcuna
giustificazione, che non potrebbe essere  neanche  individuata  nella
gravita' delle condotte, il risarcimento del danno ai  soli  casi  in
cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione. 
    10.1.6. - La Corte remittente ritiene che sia stato violato anche
l'art. 25 Cost., in quanto, accedendo all'interpretazione del «doppio
binario», si  distoglierebbe  sia  il  dipendente,  sia  la  pubblica
amministrazione dal suo giudice naturale, che sarebbe  sempre,  nella
materia della responsabilita' amministrativa, la Corte dei conti. 
    10.1.7. - La norma censurata si porrebbe in  contrasto  pure  con
l'art. 24 Cost., atteso che, in presenza della  lesione  di  un  bene
garantito dall'art.  2  Cost.  anche  alle  persone  giuridiche,  non
sarebbe assicurata all'amministrazione pubblica «una tutela  completa
ed efficace». 
    10.1.8. - Secondo la Corte remittente sarebbe  violato,  inoltre,
il principio di uguaglianza, perche' si creerebbe una  disparita'  di
trattamento: a) tra la pubblica amministrazione e  le  altre  persone
giuridiche pubbliche; b) tra condotte caratterizzate dalla violazione
degli obblighi di servizio con idoneita'  lesiva  dell'immagine,  che
restano prive  di  sanzione,  e  condotte  disciplinate  dalla  norma
censurata, nonostante si tratti di situazioni sostanzialmente simili.
Infine, sempre in relazione al  parametro  costituzionale  in  esame,
richiedendo la disposizione censurata  l'esistenza  di  una  sentenza
penale di condanna passata in giudicato, si  verrebbe  a  creare  una
«forma inusuale di pregiudizialita' penale». 
    10.2. - Anche in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, con il  patrocinio  dell'Avvocatura  generale
dello Stato, ribadendo, con riferimento alle  censure  riferite  agli
artt. 3,  24,  25  e  97  Cost.,  le  argomentazioni  difensive  gia'
contenute nei precedenti interventi. 
    10.3. - Si e' costituito in giudizio il gia' Ministro dei  lavori
pubblici G.P., convenuto  nel  giudizio  a  quo,  rilevando  come  la
questione sollevata sia  priva  del  requisito  della  rilevanza,  in
quanto la Corte avrebbe dovuto limitarsi a disporre  la  restituzione
degli atti al giudice di primo grado,  spettando  a  quest'ultimo  il
potere di pronunciarsi sull'eccezione di nullita'.  Si  aggiunge  che
«la questione di costituzionalita' avrebbe potuto assumere  rilevanza
dinanzi  al  giudice  d'appello  soltanto  ove  quest'ultimo   avesse
ritenuto di convertire la quaerela nullitatis in eccezione  intesa  a
far valere il difetto di giurisdizione della  magistratura  contabile
sulla domanda oggetto dell'appello della  Procura  (per  inesistenza,
nelle condizioni date, del potere di azione esercitato). Ma cio'  non
e' avvenuto, avendo la Sezione centrale optato (...) per  un  diverso
percorso decisionale, fondato sull'accoglimento del motivo di gravame
dedotto dalla parte  pubblica  (con  il  quale  veniva  censurata  la
declaratoria  di  inammissibilita'   della   citazione   introduttiva
dell'azione risarcitoria per il danno non patrimoniale)». 
    11. - Con ordinanza del 12 novembre 2009 (reg.  ord.  n.  95  del
2010) la Corte dei conti,  sezione  giurisdizionale  per  la  Regione
Lombardia, ha  sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 17, comma 30-ter, del  medesimo  decreto-legge  n.  78  del
2009, limitatamente al quarto periodo di detto comma. 
    11.1. - La Corte remittente premette che uno dei convenuti  aveva
chiesto la declaratoria di nullita' di tutti gli  atti  istruttori  e
processuali   del   giudizio   di   responsabilita'   amministrativa,
«ritenendo che l'iniziativa della procura  sia  stata  intrapresa  in
assenza di una "specifica e concreta" notizia di danno, ovvero su  di
una verifica ispettiva del 2004 ed una relazione di accertamento  del
2006, ritenute generiche, prive  di  quantificazioni  economiche  del
danno e  senza  iscrizione  di  eventi  fattuali  a  nessun  soggetto
nominativamente individuato». Analoga  istanza  di  nullita'  sarebbe
stata formulata da un altro convenuto in ragione  della  «genericita'
ed inidoneita' funzionale: a) dell'atto di  costituzione  in  mora  8
novembre 2006 inoltrato dall'a.  delegato  della  casa  da  gioco  di
Campione d'Italia al Trevisan per danni erariali;  b)  dell'invito  a
dedurre inoltrato dalla  procura  contabile  al  Trevisan;  c)  della
citazione in giudizio della procura nei confronti del Trevisan». 
    Il giudice a quo sottolinea che l'accoglimento delle  istanze  di
nullita'  «comporta  la  caducazione  del  giudizio  di  merito   per
responsabilita' amministrativa-contabile, con conseguente ricaduta in
punto di rilevanza ai fini del decidere». 
    11.1.2.  -  Chiarito   cio',   il   giudice   remittente   assume
l'incostituzionalita' della  norma  in  esame,  in  base  alla  quale
qualunque  atto  istruttorio  o  processuale  posto  in   essere   in
violazione delle disposizioni di  cui  al  piu'  volte  citato  comma
30-ter dell'art. 17 del d.l. n. 78 del 2009,  «salvo  che  sia  stata
gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data  di  entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' nullo e
la relativa nullita' puo' essere fatta valere  in  ogni  momento,  da
chiunque  vi  abbia  interesse,  innanzi  alla   competente   sezione
giurisdizionale  della  Corte  dei  conti,  che  decide  nel  termine
perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». 
    11.1.3. - In primo luogo, secondo il remittente, l'illegittimita'
costituzionale  discenderebbe  dal  fatto  che  il  procedimento,   a
cognizione  sommaria,  disciplinato  dalla   norma   impugnata,   non
prevedrebbe ne' la notifica dell'istanza alle parti  costituite,  ne'
la  partecipazione   all'incidentale   procedimento   «innanzi   alla
competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, delle parti
in  giudizio,  ne'  di  quella  pubblica  attrice,  ne'  delle  parti
convenute»,  nonostante  il  contenuto  decisorio   dell'istanza   di
nullita' e la espressa  previsione  in  tal  senso  contenuta,  quale
regola generale, in tutte le norme processuali generali e speciali. 
    Tale omissione legislativa, si osserva, violerebbe, in assenza di
esigenze di celerita', il principio costituzionale del  diritto  alla
difesa e quello del contraddittorio ex  artt.  24,  primo  e  secondo
comma, e 111 Cost. 
    11.1.4. - Il giudice a quo rileva come, anche a  volere  ritenere
che   il   procedimento   decisorio   preveda   «implicitamente»   il
contraddittorio  tra  le  parti   costituite   «da   instaurare   con
provvedimento del Presidente della sezione giudicante  da  notificare
alle parti costituite e statuente una camera di consiglio ad hoc  e/o
il deposito di memorie», il termine perentorio di trenta  giorni  dal
deposito dell'istanza  per  decidere  sulla  stessa,  con  cognizione
sommaria,  ma  con  contenuto  sostanzialmente   decisorio,   sarebbe
costituzionalmente illegittimo, in quanto «irragionevolmente  breve».
Da cio' conseguirebbe la violazione degli artt. 3, 24,  103,  secondo
comma, e 111 Cost. per «eccessiva brevita' del termine a difesa»  (si
cita, tra l'altro, la sentenza n. 42 del 1981). 
    11.1.5. - Sotto altro aspetto, si deduce  che  non  sussisterebbe
alcuna  ragione  cautelare  di  urgenza  idonea  a  giustificare   la
previsione di un termine cosi' breve. 
    11.1.6.   -   Infine,   si   deduce   che   la   norma    sarebbe
costituzionalmente illegittima, in quanto «non prevede alcun  effetto
giuridico  derivante  dal  mancato  deposito  della  decisione  della
sezione nel "perentorio" termine o dal suo tardivo deposito: che cio'
comporti l'invalidazione dei successivi atti processuali o  che  tale
inerzia o ritardo non abbia conseguenze sostanziali e/o  processuali,
non  e'  dato  comprendere  e  cio'  si  ripercuote,  in   punto   di
legittimita' costituzionale, ancora una volta sul diritto alla difesa
delle parti (art. 24 Cost.)». 
    11.2. - Si e' costituito in giudizio il sig. M.L.D.T., convenuto,
unitamente ad altri nel giudizio a quo, chiedendo  che  la  questione
sollevata venga dichiarata non fondata. 
    11.3. - E' intervenuto in giudizio il  Presidente  del  Consiglio
dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate  vengano  dichiarate
inammissibili e infondate. 
    In particolare, con riferimento  alla  lamentata  violazione  del
diritto di difesa e del contraddittorio, si deduce come sia possibile
una interpretazione conforme a Costituzione, postulata  dallo  stesso
remittente. 
    Per quanto attiene poi alla doglianza relativa alla brevita'  del
termine,  si  osserva  come  l'apposizione  di  un  termine  per   lo
svolgimento di un'attivita' processuale  costituisca  valutazione  di
merito rimessa alla discrezionalita' del legislatore, non sindacabile
dalla Corte costituzionale, se non nel  caso,  non  ricorrente  nella
controversia in esame,  di  valutazione  assolutamente  arbitraria  e
irragionevole (si richiama la sentenza n. 427 del 1999). 
    In relazione alla censura con cui il giudice a quo assume che non
sussisterebbero ragioni cautelari e di urgenza tali  da  giustificare
la previsione di un regime diverso rispetto alle altre  eccezioni  di
rito, si deduce, in primo luogo, come tale  valutazione  sia  rimessa
alla discrezionalita' del legislatore. In secondo luogo sussisterebbe
l'opportunita' di una immediata decisione sulla eccezione di nullita'
sia nel caso di un  suo  rigetto,  per  rimuovere  immediatamente  un
possibile ostacolo alla definizione del giudizio,  sia  nel  caso  di
accoglimento, al fine  di  procedere  alla  rinnovazione  degli  atti
dichiarati nulli. 
    Infine si deduce come quella  impugnata  non  sia  l'unica  norma
processuale  che  prevede  l'imposizione  di  un   termine   per   il
giudicante. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per  le  Regioni
Umbria (reg. ord. n. 331 del 2009), Calabria (reg.  ord.  n.  24  del
2010), Campania (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010),  Siciliana
(reg. ord. n. 44 del 2010), Toscana (reg.  ord.  n.  145  del  2010),
Lombardia  (reg.  ord.  n.  125  del  2010),  nonche'  sezione  prima
giurisdizionale centrale d'appello (reg. ord. n. 162 del  2010),  con
distinte  ordinanze,   ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo
e quarto, del decreto-legge 1°  luglio  2009,  n.  78  (Provvedimenti
anticrisi,   nonche'   proroga   di   termini),    convertito,    con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009,  n.  102,  come  modificato
dall'articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del  decreto-legge  3
agosto  2009,  n.  103  (Disposizioni  correttive  del  decreto-legge
anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3
ottobre 2009, n. 141, per violazione, nel complesso,  degli  articoli
2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, 111 e 113 della Costituzione. 
    1.1. - La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione
Lombardia con  altra  ordinanza  (reg.  ord.  n.  95  del  2010),  ha
censurato, specificamente, soltanto il quarto  periodo  del  predetto
comma 30-ter. 
    2.  -  Considerata  la  sussistenza  di  spiccati   elementi   di
connessione oggettiva tra i dieci giudizi sopra indicati  −  due  dei
quali discussi in udienza pubblica (reg. ord. n.  95  e  n.  162  del
2010) e gli altri otto esaminati in camera di consiglio (reg. ord. n.
331 del 2009, numeri 24, 25, 26, 27, 44, 125 e 145 del  2010)  −  gli
stessi devono essere riuniti per una trattazione  unitaria  e  decisi
con unica sentenza. 
    3. - Le disposizioni censurate prevedono, ai  periodi  secondo  e
terzo del suindicato comma 30-ter, che  le  procure  regionali  della
Corte dei conti esercitino l'azione per  il  risarcimento  del  danno
all'immagine nei soli casi e  modi  previsti  dall'articolo  7  della
legge 27 marzo 2001, n.  97  (Norme  sul  rapporto  tra  procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale
ultimo fine, si precisa che il decorso del termine  di  prescrizione,
di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n.  20
(Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei
conti), e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. 
    Il richiamato art. 7 della legge n. 97 del 2001, a sua volta,  ai
fini  della   delimitazione   dell'ambito   applicativo   dell'azione
risarcitoria, fa riferimento alle sentenze irrevocabili  di  condanna
pronunciate nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di enti
pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione  pubblica  per  i
delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal  capo  I  del
titolo II del libro II del codice  penale,  vale  a  dire  quelli  di
peculato (artt. 314 e 316), malversazione a danno dello  Stato  (art.
316-bis), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art.
316-ter), concussione (art. 317), corruzione per  un  atto  d'ufficio
(art. 318), corruzione per un  atto  contrario  ai  doveri  d'ufficio
(art. 319), corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter),  corruzione
di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320), istigazione
alla corruzione  (art.  322),  peculato,  concussione,  corruzione  e
istigazione alla corruzione di membri degli  organi  delle  Comunita'
europee e di funzionari delle Comunita' europee  e  di  Stati  esteri
(art.   322-bis),   abuso   d'ufficio   (art.   323),   utilizzazione
d'invenzioni o scoperte conosciute per ragioni di ufficio (art. 325),
rivelazione ed  utilizzazione  di  segreti  di  ufficio  (art.  326),
rifiuto di atti d'ufficio. Omissione (art. 328), rifiuto o ritardo di
obbedienza commesso da  un  militare  o  da  un  agente  della  forza
pubblica (art. 329),  interruzione  di  un  servizio  pubblico  o  di
pubblica necessita' (art. 331), sottrazione o danneggiamento di  cose
sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o
dall'autorita'  amministrativa  (art.  334),  violazione  colposa  di
doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto
nel corso di un procedimento penale o  dall'autorita'  amministrativa
(art. 335). 
    3.1. - Il medesimo comma 30-ter, al quarto periodo - che, sebbene
censurato anche dalla sezione giurisdizionale per la Regione Campania
(reg. ord. n. 27 del 2010), nonche' dalla sezione giurisdizionale per
la Regione Umbria (reg. ord. n. 331  del  2009),  e'  la  sola  norma
oggetto di doglianza da parte della sezione  giurisdizionale  per  la
Regione Lombardia, con l'ordinanza n. 95 del 2010  -  stabilisce  che
«qualunque  atto  istruttorio  o  processuale  posto  in  essere   in
violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia
stata gia' pronunciata sentenza anche non  definitiva  alla  data  di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e'
nullo e la  relativa  nullita'  puo'  essere  fatta  valere  in  ogni
momento, da chiunque vi  abbia  interesse,  innanzi  alla  competente
sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine
perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». 
    4. - Preliminarmente, deve essere dichiarata la  inammissibilita'
della costituzione in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B.,  G.G.,
R.R. (reg. ord. n. 331 del 2009), che, pur assumendo di essere  parti
nel processo a quo, si sono costituiti  oltre  il  termine  stabilito
dall'art. 25 della legge 11 marzo  1953,  n.  87,  computato  secondo
quanto previsto dall'art. 3 delle norme  integrative  per  i  giudizi
davanti alla Corte costituzionale, essendo tale termine, per costante
giurisprudenza, perentorio (ex plurimis, sentenza n. 234 del 2007). 
    5.  -  Ancora  in  via  preliminare,   deve   essere   dichiarata
inammissibile la questione sollevata dalla Corte  di  conti,  sezione
giurisdizionale per la Regione Lombardia (reg. ord. n. 95 del  2010),
per carente descrizione della fattispecie, che determina l'insanabile
astrattezza della questione stessa e, dunque, la sua inammissibilita'
nel presente giudizio di costituzionalita' (ex  multis,  sentenza  n.
179 del 2009 e ordinanza n. 5 del 2010). 
    In punto di  fatto,  dall'ordinanza  di  remissione  si  rilevano
soltanto  una  serie  di  nomi  di  persone  indicate  come  soggetti
convenuti in un giudizio di responsabilita', il nome di uno di  essi,
D.T.M.L., che ha presentato una istanza diretta alla declaratoria  di
nullita' di atti istruttori e processuali, la  presentazione  di  una
analoga istanza  avanzata  dalla  difesa  del  «convenuto  Trevisan»,
nonche' l'indicazione di un «atto di costituzione in  mora  8-11-2008
inoltrato (testualmente, n.d.r.) dall'a. delegato della casa da gioco
di Campione d'Italia  al  Trevisan  per  danni  erariali»  e  di  una
«citazione in giudizio della Procura  nei  confronti  del  Trevisan».
Nulla di piu' e' dato evincere per  quanto  concerne  la  descrizione
della  fattispecie,  in  particolare,  con  riguardo  alle  posizioni
funzionali dei convenuti, alle  loro  qualifiche,  alle  vicende  per
effetto delle quali si sarebbero prodotti danni  all'immagine  di  un
ente pubblico e, soprattutto, al contenuto degli addebiti  contestati
ai singoli convenuti, con specifico  riferimento  alla  posizione  di
ciascuno di essi. 
    In  tale  situazione,  deve  ritenersi  del  tutto  carente,  per
genericita', la descrizione della fattispecie da parte del giudice  a
quo nella sua ordinanza. 
    Di qui l'inammissibilita' della questione cosi' come proposta. 
    5.1. -  Con  riguardo,  invece,  ai  giudizi  introdotti  con  le
ordinanze  n.  331  del  2009  e  n.  162  del   2010,   le   sezioni
giurisdizionali della  Corte  dei  conti,  la  prima  operante  nella
Regione Umbria e la seconda in sede centrale  d'appello,  prospettano
due questioni, senza porle in rapporto tra  loro  di  subordinazione:
una, relativa alla limitazione del danno all'immagine della  pubblica
amministrazione  soltanto   nelle   ipotesi   di   fatti   di   reato
specificamente indicati; l'altra, relativa  all'introduzione  di  due
diverse forme di tutela innanzi a sedi giurisdizionali  differenti  e
cioe' alla Corte dei conti per le fattispecie costituenti anche reato
e all'autorita' giudiziaria ordinaria in tutti gli altri casi. 
    Cosi' operando, i giudici a quibus hanno omesso di chiarire quale
sia l'interpretazione della norma censurata da  essi  fatta  propria.
Siffatta  omissione,  oltre  a  conferire  carattere  sostanzialmente
ancipite alla loro prospettazione,  rende  perplessa  la  motivazione
sulla  rilevanza  e  determina  l'inammissibilita'  della   questione
sollevata. 
    Anche tali questioni, sulla base di una  costante  giurisprudenza
di questa Corte, devono  essere  dichiarate  inammissibili,  restando
assorbita l'eccezione di inammissibilita' per difetto  di  rilevanza,
sollevata dalla parte privata nel  giudizio  incardinato  sulla  base
dell'ordinanza n. 162 del 2010. 
    5.2.  -  Del  pari  inammissibile,  infine,  deve  ritenersi   la
questione indirizzata avverso il  quarto  periodo  del  comma  30-ter
dell'art. 17 dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti  per
la Regione Campania (reg. ord. n. 27 del 2010). 
    Risulta, infatti,  carente  -  sul  punto  -  qualsiasi  autonoma
motivazione, tanto sulla rilevanza  nei  giudizi  a  quibus  di  tale
specifica questione, quanto sulla sua non manifesta infondatezza. 
    6. - Nel merito, pertanto, devono  essere  esaminate  le  censure
rivolte nei confronti di quella parte  della  disposizione  impugnata
che pone limiti al risarcimento del danno  per  lesione  all'immagine
della  pubblica  amministrazione,  secondo  le  prospettazioni  delle
ordinanze di rimessione. 
    Al riguardo, in via preliminare, e' necessario individuare, anche
al fine di una corretta delimitazione del thema decidendum,  l'esatta
portata della normativa impugnata. 
    Il   legislatore   ha   ammesso   la   proposizione   dell'azione
risarcitoria per danni all'immagine dell'ente pubblico da parte della
procura operante presso il giudice contabile soltanto in presenza  di
un fatto  di  reato  ascrivibile  alla  categoria  dei  «delitti  dei
pubblici ufficiali contro  la  pubblica  amministrazione»;  cio'  per
effetto del richiamo, contenuto nella  norma  censurata,  all'art.  7
della legge n. 97 del 2001, che fa, appunto, espresso riferimento  ai
delitti previsti dal capo I del titolo II del  libro  II  del  codice
penale. 
    Non vi e' dubbio  che  la  formulazione  della  disposizione  non
consente di ritenere che, in  presenza  di  fattispecie  distinte  da
quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata, la domanda di
risarcimento del danno per lesione dell'immagine dell'amministrazione
possa essere proposta innanzi ad un  organo  giurisdizionale  diverso
dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per  responsabilita'
amministrativa ai sensi dell'art. 103 Cost. Deve,  quindi,  ritenersi
che il legislatore non abbia inteso prevedere una  limitazione  della
giurisdizione  contabile  a  favore   di   altra   giurisdizione,   e
segnatamente di quella ordinaria, bensi' circoscrivere oggettivamente
i casi in cui e' possibile,  sul  piano  sostanziale  e  processuale,
chiedere  il  risarcimento  del  danno  in  presenza  della   lesione
dell'immagine dell'amministrazione  imputabile  a  un  dipendente  di
questa. In altri termini, non e'  condivisibile  una  interpretazione
della normativa censurata nel senso che il legislatore  abbia  voluto
prevedere  una  responsabilita'  nei  confronti  dell'amministrazione
diversamente modulata a seconda dell'autorita' giudiziaria competente
a pronunciarsi in ordine alla domanda  risarcitoria.  La  norma  deve
essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di  fuori
delle ipotesi tassativamente previste di  responsabilita'  per  danni
all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza, non e' configurabile
siffatto tipo di tutela risarcitoria. 
    Del resto, costituisce dato pacifico, come riconosciuto anche  da
questa Corte con  la  sentenza  n.  371  del  1998,  sulla  quale  si
ritornera' nel prosieguo, che la  limitazione  della  responsabilita'
amministrativa, sul piano soggettivo, al dolo o alla colpa grave, non
implica che il  dipendente  pubblico,  qualora  la  sua  condotta  si
caratterizzi per la presenza di  un  minore  grado  di  colpa,  possa
essere evocato in  giudizio  innanzi  ad  una  autorita'  giudiziaria
diversa dal giudice contabile. 
    7. - Cosi' definita la portata della disposizione  impugnata,  si
puo' passare ad  analizzare  le  singole  doglianze  prospettate  dai
giudici a  quibus.  In  questa  analisi  si  procedera'  mediante  un
accorpamento delle diverse questioni, avendo  riguardo  ai  parametri
costituzionali evocati. 
    8. - In  tale  indagine,  ha  carattere  prioritario  la  censura
relativa  all'art.  77  Cost.  In  particolare,  con  la   richiamata
ordinanza n. 125 del 2010, la sezione giurisdizionale della Corte dei
conti per la Regione Lombardia lamenta la mancanza dei presupposti di
necessita'  e  di  urgenza,  ai  fini  dell'emanazione  della   norma
contestata, che -  a  suo  dire  -  dovrebbero  sussistere  anche  in
relazione alle norme, quale quella in esame, introdotte  soltanto  in
sede di conversione in legge del decreto-legge n. 78 del 2009. 
    La questione non e' fondata. 
    Questa Corte, in passato, ha affermato che, con riferimento  alla
adozione di nuove norme da parte del Parlamento nel corso  dell'esame
di un disegno di legge di conversione di  un  decreto-legge,  non  e'
pertinente  il  richiamo  all'art.  77  Cost.  Cio'  in  quanto   «la
valutazione  preliminare   dei   presupposti   della   necessita'   e
dell'urgenza  investe  (...),  secondo  il  disposto  costituzionale,
soltanto  la  fase  della  decretazione  di  urgenza  esercitata  dal
Governo, ne' puo' estendersi alle norme che le  Camere,  in  sede  di
conversione  del  decreto-legge,  possano   avere   introdotto   come
disciplina "aggiunta"  a  quella  dello  stesso  decreto:  disciplina
imputabile esclusivamente al Parlamento  e  che  -  a  differenza  di
quella espressa con la  decretazione  d'urgenza  del  Governo  -  non
dispone di una forza provvisoria, ma viene  ad  assumere  la  propria
efficacia solo al momento  dell'entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione» (sentenza n. 391 del 1995). 
    Successivamente, pero', questa stessa Corte, con la  sentenza  n.
171 del 2007, ha mutato orientamento sul  punto,  precisando  −  dopo
aver ribadito che la legge di conversione non ha efficacia sanante di
eventuali vizi del decreto-legge − che «le disposizioni  della  legge
di conversione in quanto tali» -  nei  limiti,  cioe',  in  cui  «non
incidono  in  modo  sostanziale   sul   contenuto   normativo   delle
disposizioni del decreto», come nel caso (allora)  in  esame  -  «non
possono  essere  valutate,  sotto  il  profilo   della   legittimita'
costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso». La Corte
ha aggiunto che «a conferma di cio', si puo' notare che la  legge  di
conversione e' caratterizzata nel suo percorso  parlamentare  da  una
situazione tutta particolare,  al  punto  che  la  presentazione  del
decreto per la conversione comporta che le Camere  vengano  convocate
ancorche' sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.) e il  suo  percorso
di formazione ha una disciplina diversa da quella che  regola  l'iter
dei disegni di legge proposti dal Governo». 
    Seguendo il suddetto piu' recente orientamento, va  ulteriormente
precisato che la valutazione in termini di necessita'  e  di  urgenza
deve essere indirettamente  effettuata  per  quelle  norme,  aggiunte
dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto
estranee rispetto al contenuto della decretazione  d'urgenza;  mentre
tale valutazione non  e'  richiesta  quando  la  norma  aggiunta  sia
eterogenea rispetto a tale contenuto. 
    Orbene, nella specie, per le ragioni che meglio risulteranno  nel
prosieguo della motivazione, la norma  contenuta  nel  comma  30-ter,
aggiunto all'art. 17 del decreto-legge n. 78 del 2009, non  si  trova
in una condizione di totale eterogeneita' rispetto al  contenuto  del
decreto-legge  in  esame;  sicche'  rispetto  ad   essa   rileva   la
indispensabile sussistenza dei requisiti di necessita' e di urgenza. 
    I giudici remittenti, a questo riguardo, osservano che  la  norma
censurata sarebbe priva di siffatti requisiti. 
    A giudizio di questa Corte, invece, deve in contrario osservarsi,
innanzi tutto, che la valutazione  in  ordine  alla  sussistenza,  in
concreto, dei requisiti in parola e' rimessa al  Parlamento  all'atto
della approvazione dell'emendamento  ora  oggetto  di  censure.  Tale
valutazione non  deve  tradursi  in  una  motivazione  espressa,  che
sarebbe incompatibile con  le  caratteristiche  del  procedimento  di
formazione legislativa. Ne', a questo riguardo, puo' assumere rilievo
il contenuto del preambolo allo stesso decreto-legge che, proveniente
dal Governo, concerne le sole disposizioni  originarie  del  medesimo
provvedimento. 
    In  realta',  la   suindicata   valutazione   e'   rimessa   alla
discrezionalita' delle Camere  e  puo'  essere  sindacata  innanzi  a
questa  Corte   soltanto   se   essa   sia   affetta   da   manifesta
irragionevolezza o arbitrarieta', ovvero per  mancanza  evidente  dei
presupposti (sentenza n. 116 del  2006).  Evenienze  queste  che  non
possono ritenersi sussistenti nella specie, in  quanto  non  e'  dato
evincere la carenza,  nella  censurata  disposizione  introdotta  dal
Parlamento in sede di conversione del decreto-legge n. 78  del  2009,
dei necessari presupposti di necessita' ed urgenza. Ne', sotto  altro
aspetto, puo' ritenersi che la norma stessa sia del tutto  dissonante
rispetto al contenuto della decretazione di  urgenza  emessa  con  il
citato decreto-legge nel quadro generale di «provvedimenti anticrisi,
nonche' proroga dei termini». E  cio'  con  specifico  riguardo  alla
esigenza di limitare ambiti, ritenuti  dal  legislatore  troppo  ampi
(come, d'altronde, dimostrano il numero delle ordinanze di remissione
e  -  soprattutto   -   la   tipologia   delle   contestazioni),   di
responsabilita' dei pubblici dipendenti cui sia imputabile la lesione
del  diritto  all'immagine  delle   amministrazioni   di   rispettiva
appartenenza. 
    A  questo  proposito,  puo'  ritenersi   palese   l'intento   del
legislatore  di  intervenire  in  questa  materia  sulla  base  della
considerazione secondo cui l'ampliamento dei casi di  responsabilita'
di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo,
e' suscettibile di  determinare  un  rallentamento  nell'efficacia  e
tempestivita' dell'azione amministrativa  dei  pubblici  poteri,  per
effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare
in  coloro  ai  quali,  in  definitiva,  e'   demandato   l'esercizio
dell'attivita' amministrativa.  D'altronde,  a  tale  precipuo  scopo
risulta  preordinato  lo  stesso  potere  discrezionale  del  giudice
contabile (c.d. "potere riduttivo") di  graduare  la  condanna  sulla
base  della  gravita'  della  colpa,  cosi'  determinando  il  debito
risarcitorio del convenuto (sentenze n. 184 e n. 183  del  2007).  Ed
allo  stesso  scopo  e'  preordinata  anche  la   limitazione   della
responsabilita'  amministrativa  ai  casi  di  dolo  o  colpa   grave
(sentenze n. 453 e n. 371 del 1998). 
    Sotto altro aspetto,  deve  pure  osservarsi  che,  nella  stessa
ottica finalistica, il legislatore  -  come  emerge  chiaramente  dal
tenore delle rispettive previsioni normative - ha  introdotto,  anche
in questo caso ex novo nel testo del decreto-legge n.  78  del  2009,
ulteriori disposizioni contenute nei commi 30-bis e  30-quater.  Esse
perseguono lo scopo, da un lato, di attenuare il regime dei controlli
della Corte dei conti e, dall'altro lato, di  limitare  ulteriormente
l'area  della  gravita'  della  colpa  del  dipendente   incorso   in
responsabilita',  proprio  all'evidente  scopo   di   consentire   un
esercizio dell'attivita'  di  amministrazione  della  cosa  pubblica,
oltre che piu' efficace ed efficiente, il piu'  possibile  scevro  da
appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi,  per
chi e' chiamato, appunto, a porla in essere. 
    In definitiva, dunque,  la  stessa  ampiezza  della  disposizione
della rubrica del decreto-legge in questione, nonche' il  complessivo
quadro legislativo che deriva  dalle  originarie  disposizioni  della
decretazione di urgenza e  da  quelle,  aggiuntive,  contenute  nella
relativa legge di conversione,  consentono  di  ricondurre  anche  la
norma  ora  in  esame,  limitativa   della   particolare   forma   di
responsabilita' per i danni da lesione dell'immagine  della  pubblica
amministrazione, all'alveo dei meccanismi,  previsti  con  il  citato
decreto-legge, aventi lo scopo di introdurre nell'ordinamento  misure
dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il Paese. 
    9. - In piu' ordinanze di rimessione sono  state  formulate,  sia
pure con argomentazioni non  sempre  coincidenti  tra  loro,  censure
volte a denunciare l'asserita violazione dell'art. 3 Cost., in alcuni
casi richiamato unitamente all'art. 97 Cost. 
    Un primo gruppo di ordinanze ha prospettato  la  irragionevolezza
della norma, sul piano oggettivo, per avere il  legislatore  limitato
il risarcimento del danno ai soli casi in cui sia stato  commesso  un
delitto contro la pubblica amministrazione e non anche in presenza di
condotte non delittuose altrettanto gravi (reg. ord. n. 24, n. 27, n.
44 e n. 125 del 2010) ovvero in presenza di reati diversi  da  quelli
espressamente indicati (reg. ord. n. 26, n. 27 e n. 44 del 2010). 
    La questione non e' fondata. 
    Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra, infatti, nella
discrezionalita' del  legislatore,  con  il  solo  limite  della  non
manifesta irragionevolezza e arbitrarieta' della  scelta,  conformare
le  fattispecie  di  responsabilita'  amministrativa,  valutando   le
esigenze cui si ritiene di dover fare fronte. Senza  volere  indagare
in questa sede quale sia la effettiva  natura  della  responsabilita'
derivante dalla lesione del diritto all'immagine di un ente pubblico,
e' indubbio  che  la  responsabilita'  amministrativa,  in  generale,
presenti una peculiare connotazione, rispetto  alle  altre  forme  di
responsabilita'   previste   dall'ordinamento,   che   deriva   dalla
accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli  risarcitori
(sentenze n. 453 e n.  371  del  1998).  In  questa  prospettiva,  il
legislatore ha, tra l'altro, il  potere  di  delimitare  l'ambito  di
rilevanza   delle   condotte   perseguibili,    stabilendo,    «nella
combinazione di elementi restitutori e di  deterrenza»,  quanto  «del
rischio dell'attivita' debba restare a carico dell'apparato e  quanto
a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale
da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva
della responsabilita' ragione di  stimolo,  e  non  di  disincentivo»
(citata sentenza n. 371 del 1998). 
    Nel caso in esame, il legislatore  ha  ulteriormente  delimitato,
sul  piano  oggettivo,  gli  ambiti  di  rilevanza  del  giudizio  di
responsabilita', ammettendo la risarcibilita' del danno  per  lesione
dell'immagine dell'amministrazione soltanto in presenza di  un  fatto
che integri gli estremi di una particolare categoria di  delitti.  La
scelta di non estendere l'azione risarcitoria anche  in  presenza  di
condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un  reato  diverso
da  quelli  espressamente  previsti,  puo'  essere  considerata   non
manifestamente irragionevole. Il legislatore  ha  ritenuto,  infatti,
nell'esercizio  della  predetta  discrezionalita',  che  soltanto  in
presenza  di  condotte  illecite,  che  integrino  gli   estremi   di
specifiche fattispecie delittuose, volte  a  tutelare,  tra  l'altro,
proprio il buon andamento,  l'imparzialita'  e  lo  stesso  prestigio
dell'amministrazione, possa essere proposta l'azione di  risarcimento
del danno per lesione  dell'immagine  dell'ente  pubblico.  In  altri
termini, la circostanza che il legislatore abbia  inteso  individuare
esclusivamente quei reati che contemplano la pubblica amministrazione
quale  soggetto  passivo  concorre  a  rendere   non   manifestamente
irragionevole la scelta legislativa in esame. 
    In definitiva, pertanto,  la  particolare  struttura  e  funzione
della responsabilita'  amministrativa,  unitamente  alla  valutazione
della specifica natura del bene giuridico protetto dalle norme penali
richiamate  dalla  disposizione  impugnata,  rende  non   palesemente
arbitraria la  scelta  con  cui  e'  stato  delimitato  il  campo  di
applicazione  dell'azione  risarcitoria  esercitatile  dalla  procura
operante presso le sezioni della Corte dei conti. 
    10. - Le medesime ordinanze di rimessione  prospettano,  inoltre,
la violazione  dell'art.  3  Cost.,  sul  piano  soggettivo,  per  la
disparita' di trattamento che la norma censurata  determinerebbe  tra
dipendenti e amministratori dell'ente pubblico, questi ultimi esclusi
dall'ambito applicativo della norma  per  effetto  del  richiamo,  da
parte della disposizione impugnata, all'art. 7 della legge n. 97  del
2001,  il  quale  ammette  il  risarcimento  del  danno  all'immagine
dell'amministrazione per i soli dipendenti di questa  (reg.  ord.  n.
25, n. 26, n. 27 e n. 125 del  2010).  Altro  profilo  di  violazione
dell'art. 3 Cost. per asserita disparita' di trattamento  e'  dedotto
con riferimento alle posizioni dei dipendenti, da un  lato,  e  delle
persone giuridiche, dall'altro (reg. ord. n. 24 del 2010), o  tra  la
pubblica  amministrazione  e  altri  soggetti  dell'ordinamento,  «in
quanto il deterioramento dell'immagine della prima non e'  sanzionato
se non in casi limite»  rappresentati  «dalla  commissione  di  gravi
delitti, mentre quello dei secondi e' ben tutelato in tutti i casi di
commissione di illecito di non rilievo penale» (reg. ord. n. 25 e  n.
26 del 2010; in analogo senso reg. ord. n. 125 del 2010). 
    Le questioni prospettate sono in parte inammissibili e  in  parte
non fondate. 
    E', innanzi tutto, inammissibile  quella  relativa  alla  dedotta
disparita'  di  trattamento  tra   dipendenti   dell'ente   pubblico,
contemplati espressamente dalla norma (art. 7 della legge n.  97  del
2001) cui fa rinvio la disposizione impugnata, e  gli  amministratori
dell'ente  stesso  cui,  invece,  le  due  disposizioni   non   fanno
riferimento. Cio' in quanto, prescindendo  dalla  condivisibilita'  o
meno dell'interpretazione proposta da alcuni dei remittenti (comunque
rimessa  ai  giudici  competenti)  che  esclude  gli   amministratori
pubblici dalla sfera di applicazione della norma in esame, in nessuna
delle ordinanze di remissione, che propongono la questione, i giudici
a quibus si sono posti il problema del tipo  di  responsabilita'  per
danni  arrecati  dagli  amministratori   dell'ente   per   violazione
dell'immagine di  quest'ultimo  e,  conseguentemente,  dell'autorita'
giudiziaria eventualmente  competente  a  conoscere  della  correlata
vicenda contenziosa. Essi, infatti,  avrebbero  dovuto  esplorare  la
percorribilita' di soluzioni costituzionalmente orientate,  prima  di
sollevare  la  questione  di  costituzionalita'   della   norma   ora
impugnata. 
    Quanto  poi  alle  restanti  censure   relative   alla   presunta
disparita' di trattamento tra la situazione giuridica del dipendente,
da un lato, e quelle delle persone giuridiche  private  e  pubbliche,
dall'altro,  deve  rilevarsene   la   non   fondatezza,   attesa   la
eterogeneita' delle situazioni poste a confronto. 
    11. - Ancora  con  riferimento  all'art.  3  Cost.,  deve  essere
esaminata la censura con cui alcuni remittenti deducono, da un  lato,
la irragionevolezza derivante  dall'inserimento  di  una  norma,  che
comporta un maggiore esborso economico, in un testo  legislativo  che
persegue, quale  principale  finalita',  quella  di  adottare  misure
idonee a fronteggiare l'attuale crisi economica (reg. ord. n. 24,  44
e 125 del 2010), nonche', dall'altro,  la  mancata  valutazione,  nel
corso della «brevissima discussione» svolta in sede  di  conversione,
della portata e delle conseguenze che sarebbero  derivate  dalla  sua
applicazione; ne' sarebbero emerse esigenze di natura  finanziaria  o
di interesse pubblico  idonee  a  giustificare  la  introduzione  nel
sistema della norma censurata (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010). 
    Tali questioni non sono fondate. 
    A prescindere da  valutazioni,  sulle  quali  si  ritornera'  tra
breve,  circa  la  correttezza  dell'assunto  secondo  cui  la  norma
censurata  comporterebbe  una  maggiore   spesa   per   la   pubblica
amministrazione, deve ritenersi, in relazione alla  prima  questione,
come non possa considerarsi manifestamente irragionevole il  precetto
normativo in esame, almeno avendo riguardo alla  peculiarieta'  della
vicenda oggetto del presente giudizio. 
    Con  riferimento  poi  alla  seconda  doglianza,  e'  sufficiente
rilevare come non occorra che gli  atti  legislativi  contengano  una
motivazione, ovvero che questa comunque  risulti  dal  loro  iter  di
approvazione, circa le esigenze che e' necessario assicurare, essendo
sufficiente  che  la  norma  stessa  non  sia   viziata   da   palese
irragionevolezza o arbitrarieta'. 
    12. - Infine, e' destituita di fondamento la  ulteriore  censura,
prospettata anch'essa con riferimento all'art. 3 Cost.,  con  cui  si
lamenta che la  disposizione  in  esame  comporterebbe  una  evidente
disparita' di trattamento  tra  dipendenti  dell'ente  pubblico  che,
avendo commesso uno dei delitti contro la  pubblica  amministrazione,
sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e dipendenti  che,  pur
avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni ricoperte e
nell'esercizio delle stesse, «sono sottoposti,  per  il  risarcimento
del  danno  all'immagine,  alla  giurisdizione  ordinaria,   con   un
differente regime processuale e prescrizionale» (reg. ord. n. 44  del
2010). 
    A tale riguardo, e'  sufficiente  richiamare  quanto  gia'  sopra
precisato  (punto  6)  in  ordine  alla  definizione  del  campo   di
applicazione della norma e, in particolare, ai  limiti  con  i  quali
tale  tipologia  di  responsabilita'   e'   stata   configurata   dal
legislatore e alla  esclusione  di  forme  di  concorrenza  di  altre
giurisdizioni  in  relazione  a   fattispecie   diverse   da   quelle
contemplate dalla norma stessa. 
    13. - Sotto altro aspetto taluni giudici remittenti  assumono  la
violazione dell'art. 2 Cost., in un caso evocato unitamente  all'art.
24 Cost. (reg. ord. n. 24 del 2010), in quanto tale norma, da leggere
in combinato disposto con l'art. 2059 del codice civile (reg. ord. n.
125 del 2010), imporrebbe una tutela piena, e non limitata, come  nel
caso in esame, dei diritti  della  personalita',  tra  i  quali  deve
essere ricompreso quello all'immagine della pubblica  amministrazione
(reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 125 del 2010). 
    La questione non e' fondata. 
    La tutela dei diritti della persona ha  conosciuto  negli  ultimi
anni una  complessa  evoluzione,  con  particolare  riferimento  alla
portata e all'ampiezza del risarcimento del  danno  non  patrimoniale
derivante dalla loro lesione. 
    Come e' noto, nelle prime interpretazioni che sono state  fornite
dell'art. 2059 cod. civ. - nella parte in cui prevede tale  forma  di
risarcimento soltanto nei casi previsti dalla legge - si riteneva che
la legge richiamata fosse esclusivamente  quella  penale.  In  questa
prospettiva, diretta a valorizzare il profilo sanzionatorio del danno
non patrimoniale - inteso come danno morale subiettivo  (sentenza  n.
184 del 1986) - era, pertanto, necessario che la  condotta  posta  in
essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito. 
    La successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 233 del
2003) e anche  della  Corte  di  cassazione  (Cass.,  Sezioni  unite,
sentenza 11 novembre 2008, n. 26972) - dopo avere spostato il  centro
dell'analisi sul danneggiato, e dunque  sui  profili  restitutori,  e
dopo avere identificato l'esatta natura del  danno  non  patrimoniale
come  avulsa  da  qualunque  forma  di  rigidita'  dommatica   legata
all'impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni -  ha  allargato
le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che
esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti
gli altri requisiti  richiesti  ai  fini  del  perfezionamento  della
fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti  dal
legislatore,   quando   viene   leso   un   diritto   della   persona
costituzionalmente tutelato. In definitiva, l'attuale  sistema  della
responsabilita' civile  per  danni  alla  persona,  fondandosi  sulla
risarcibilita' del danno patrimoniale ex art. 2043 cod.  civ.  e  non
patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., e', pertanto, essenzialmente  un
sistema bipolare. La Corte di cassazione, riconducendo ad organicita'
tale sistema, ha, inoltre,  elaborato  taluni  criteri,  legati  alla
gravita'  della  lesione,  idonei  a  selezionare  l'area  dei  danni
effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972  del  2008).  Di
significativo rilievo, in particolare, sono le considerazioni che  le
Sezioni unite hanno espresso in ordine al fatto: che la lesione  deve
riguardare un interesse  di  rilievo  costituzionale;  l'offesa  deve
essere grave, nel senso  che  deve  superare  una  soglia  minima  di
tollerabilita'; il danno deve essere risarcito quando non sia futile,
vale a dire riconducibile a mero disagio o fastidio. 
    Inoltre, per quanto attiene specificamente  alla  responsabilita'
per violazione dell'immagine dell'ente pubblico, deve  rilevarsi,  in
linea con quanto affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n.
26792 del 2008, che il relativo danno, in ragione della natura  della
situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua
fonte di disciplina  nell'art.  2059  cod.  civ.  D'altra  parte,  il
riferimento, contenuto nella giurisprudenza della  Corte  dei  conti,
alla patrimonialita' del  danno  stesso  -  in  ragione  della  spesa
necessaria per il ripristino dell'immagine dell'ente pubblico -  deve
essere inteso  come  attinente  alla  quantificazione  monetaria  del
pregiudizio subito e non alla individuazione della  natura  giuridica
di esso. 
    Ne' puo' ritenersi che l'inquadramento della responsabilita'  per
la lesione del diritto all'immagine  dell'ente  pubblico  nell'ambito
della responsabilita'  amministrativa,  devoluta  alla  giurisdizione
contabile della Corte  dei  conti,  possa  condurre  ad  una  diversa
qualificazione della peculiare forma di responsabilita'  disciplinata
dalla norma ora censurata. 
    Nondimeno, deve rilevarsi che la  responsabilita'  amministrativa
presenta, per le ragioni gia' esposte, una struttura ed una  funzione
diverse da quelle che connotano la comune responsabilita' civile. Non
si puo', pertanto, lamentare, come fanno taluni giudici a quibus,  la
violazione    dell'art.    2    Cost.,    evocando     l'elaborazione
giurisprudenziale  che  ha   avuto   riguardo   a   tale   forma   di
responsabilita' per violazione di diritti costituzionalmente protetti
della persona umana. 
    Identificato, infatti,  il  danno  derivante  dalla  lesione  del
diritto  all'immagine  della  p.a.  nel   pregiudizio   recato   alla
rappresentazione che  essa  ha  di  se'  in  conformita'  al  modello
delineato  dall'art.  97  Cost.,  e'  sostanzialmente  questa   norma
costituzionale ad offrire fondamento alla rilevanza di tale diritto. 
    Ne' varrebbe richiamare, data la specialita' della relativa norma
e la ratio che ne ha giustificato l'introduzione nel sistema,  quanto
stabilito dall'art. 69 del decreto legislativo 27  ottobre  2009,  n.
150 (Attuazione della legge 4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni),  il  quale
riconosce la possibilita', ricorrendo  i  presupposti  specificamente
ivi contemplati, di condannare  il  dipendente  al  risarcimento  dei
danni all'immagine subiti  dall'amministrazione  di  appartenenza  in
conseguenza di sue assenze ingiustificate dal lavoro. 
    Quanto esposto non significa che non  sia  possibile  riconoscere
l'esistenza   di   diritti   "propri"   degli   enti    pubblici    e
conseguentemente ammettere forme peculiari di risarcimento del  danno
non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano  violati.
Ma  tale  riconoscimento  deve  necessariamente  tenere  conto  della
peculiarita' del soggetto tutelato  e  della  conseguente  diversita'
dell'oggetto di tutela, rappresentato dall'esigenza di assicurare  il
prestigio, la credibilita' e il corretto funzionamento  degli  uffici
della pubblica amministrazione (sentenza n. 172 del 2005). In  questa
prospettiva,   non   e'   manifestamente   irragionevole   ipotizzare
differenziazioni  di  tutele,  che  si  possono  attuare  a   livello
legislativo,  anche  mediante  forme  di   protezione   dell'immagine
dell'amministrazione pubblica a fronte di  condotte  dei  dipendenti,
specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate
alla persona fisica. 
    Sulla base delle suindicate considerazioni,  la  norma  censurata
non puo' ritenersi in contrasto con l'art.  2  Cost.,  in  quanto  la
peculiarita' del diritto all'immagine della pubblica amministrazione,
unitamente all'esigenza di costruire un  sistema  di  responsabilita'
amministrativa in grado  di  coniugare  le  diverse  finalita'  prima
richiamate, puo' giustificare una altrettanto particolare modulazione
delle rispettive forme di tutela. 
    14.  -  Secondo  taluni  giudici  remittenti,  sarebbe   violato,
altresi', l'art. 24 Cost., in quanto la  previsione  contenuta  nella
disposizione censurata si risolverebbe in una limitazione del diritto
della pubblica amministrazione di agire  in  giudizio  a  tutela  dei
propri diritti ed interessi (reg. ord. n. 44 e n. 145 del 2010). Tale
parametro costituzionale viene evocato,  in  alcune  ordinanze  (reg.
ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), unitamente all'art.  113  Cost.,
che non ammette «alcuna limitazione alla  tutela  giurisdizionale  di
diritti   ed   interessi   legittimi   in   materia    di    funzione
amministrativa». Secondo, poi, l'ordinanza n. 125 del 2010, l'art. 24
Cost. sarebbe violato, in quanto «l'irrazionale e macchinoso  "doppio
binario"» (giudice contabile, ricorrendo i presupposti previsti dalla
norma censurata, e giudice ordinario negli  altri  casi)  inciderebbe
sulla legittimazione  ad  agire  del  pubblico  ministero,  «con  una
presumibile minore tutela dell'erario, in carenza di un organo dotato
di strumenti di indagine e poteri  istruttori  di  cui  gli  ordinari
uffici pubblici certo non possono disporre». 
    La questione non e' fondata. 
    La giurisprudenza costituzionale e' costante nel ritenere che  la
garanzia apprestata dall'art. 24 Cost. «opera attribuendo  la  tutela
processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui
queste risultano riconosciute dal legislatore;  di  modo  che  quella
garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve, e si
modella   sui   concreti   lineamenti   che   il    diritto    riceve
dall'ordinamento» (ex multis, sentenze n. 453 e  n.  327  del  1998).
Pertanto, una volta ritenuto che sia esente dai prospettati  vizi  di
costituzionalita' la configurazione  ricevuta,  nel  caso  in  esame,
dalla  specifica  situazione  giuridica  qui  in  rilievo,   non   e'
ravvisabile  alcun  vulnus  alle  conseguenti  modalita'  di   tutela
processuale. 
    Per analoghe ragioni non e' fondata la censura riferita  all'art.
113 Cost. 
    15. - La lesione del quarto comma dell'art.  81  Cost.  ad  opera
della norma censurata e' prospettata da taluni giudici a  quibus,  in
quanto non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria «della
minore entrata  imposta  agli  enti  pubblici  a  causa  del  mancato
recupero dei danni provocati alle loro finanze  di  natura  derivata»
(in particolare, reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010). 
    Anche tale questione non e' fondata. 
    La norma costituzionale evocata, prevedendo  che  la  «legge  che
importi nuove o maggiori  spese  deve  indicare  i  mezzi  per  farvi
fronte», e', nella specie, inconferente, in quanto  l'art.  81  Cost.
«attiene ai limiti  al  cui  rispetto  e'  vincolato  il  legislatore
ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne  le  scelte
che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina  della
responsabilita' amministrativa» (sentenze numeri 371 e 327 del 1998). 
    In ogni caso non puo' ritenersi che una astratta limitazione  del
risarcimento  del  danno  spettante  alla  pubblica  amministrazione,
determinando una possibile minore entrata, comporti «nuove o maggiori
spese». In altri termini, non e' possibile  porre  una  equiparazione
fra «nuova o maggiore spesa» ed  il  mancato  risarcimento  di  danni
cagionati ad una pubblica amministrazione (sentenza n. 46 del  2008).
Del resto, non potendosi procedere alla quantificazione delle  minori
entrate, essendo tale diminuzione eventuale  e  comunque  connessa  a
variabili concrete non determinabili a priori,  non  sarebbe  neanche
possibile, come sottolineato  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato
nelle sue difese, prevedere la necessaria copertura finanziaria. 
    16. - Alcune ordinanze di  remissione  evocano,  sia  pure  sotto
diversi angoli prospettici, talora  in  connessione  con  l'art.  54,
l'art. 97 Cost. per lamentarne  la  violazione.  In  particolare,  si
osserva  che,  sebbene  il  buon  andamento  e  l'imparzialita'   non
costituiscano   il   «fondamento    costituzionale    della    tutela
dell'immagine  pubblica»,  la  «stretta  relazione   tra   l'immagine
pubblica e l'agire corretto» e la circostanza che essi  costituiscono
«criteri cui deve essere improntata l'azione amministrativa affinche'
il prestigio pubblico non venga leso», comportano  che  «una  ridotta
tutela della prima inevitabilmente indebolisce il diritto sostanziale
dell'amministrazione ad agire, attraverso  i  propri  funzionari,  in
modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente» (reg. ord.  n.  24
del 2010). In altre ordinanze si assume che la norma impugnata  violi
l'evocato  parametro  costituzionale   in   quanto:   a)   «determina
un'alterazione della  funzionalita'  degli  enti  pubblici  sotto  il
delicato profilo della reputazione e della  conseguente  fiducia  dei
cittadini nei confronti delle istituzioni» (reg. ord. n. 25 e  n.  26
del 2010); b) «contraddice» il principio  di  imparzialita'  «che  si
risolve essenzialmente nel rispetto della  giustizia  sostanziale»  e
per  «  gli   evidenti   effetti   distorsivi   che   cio'   comporta
sull'organizzazione della pubblica amministrazione sotto  il  duplice
profilo della ridotta potenzialita'  operativa  ed  efficienza  nella
cura dell'interesse  pubblico»  (reg.  ord.  n.  145  del  2010);  c)
favorisce «l'irresponsabilita'  dei  dipendenti  pubblici,  non  piu'
soggetti al giudizio di responsabilita' innanzi alla Corte dei  conti
in caso di comportamenti illeciti  causativi  di  danno  all'immagine
dell'ente di riferimento al di fuori delle ipotesi  di  reato»  (reg.
ord. n. 125 del  2010);  d)  da  un  lato,  «indebolisce  l'efficacia
deterrente del giudizio di responsabilita';  dall'altro,  come  nella
presente fattispecie ed in ipotesi similari, comporta il dispendio di
maggiori risorse a carico dell'erario per  l'attivazione  di  plurimi
giudizi  volti  ad  ottenere  l'"integrale"  risarcimento  del  danno
all'immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte  di
un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia
le ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II del libro II del
codice penale che altre fattispecie delittuose» (reg. ord. n. 44  del
2010). 
    Anche tali questioni non sono fondate. 
    L'art. 97 Cost. impone la costruzione, sul piano legislativo,  di
un modello di pubblica amministrazione che  ispiri  costantemente  la
sua azione al rispetto dei principi generali di efficacia, efficienza
e imparzialita'. Si tratta di regole che  conformano,  all'"interno",
le modalita' di svolgimento dell'attivita' amministrativa. 
    E' indubbio come sussista una stretta connessione tra  la  tutela
dell'immagine  della  pubblica  amministrazione  e  il  rispetto  del
suddetto  precetto  costituzionale.  Puo'  ritenersi,  infatti,   che
l'autorita'  pubblica  sia  titolare  di   un   diritto   "personale"
rappresentato dall'immagine che i consociati abbiano delle  modalita'
di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell'imparzialita'.
Tale relazione tendenzialmente esistente  tra  le  regole  "interne",
improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione "esterna"
di esse, giustifica il riconoscimento, in  capo  all'amministrazione,
di una tutela risarcitoria. 
    Il legislatore, nell'esercizio non  manifestamente  irragionevole
della  sua  discrezionalita',  ha  ritenuto  che  tale   tutela   sia
adeguatamente assicurata mediante il riconoscimento del  risarcimento
del danno soltanto in presenza di condotte che integrino gli  estremi
di fatti di reato che tendono proprio a  tutelare,  tra  l'altro,  il
buon andamento e l'imparzialita' dell'azione amministrativa. In altri
termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela  risarcitoria
nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte  che,
incidendo   negativamente   sulle   stesse   regole,   di   rilevanza
costituzionale, di funzionamento dell'attivita' amministrativa,  sono
suscettibili di recare un vulnus  all'immagine  dell'amministrazione,
intesa, come  gia'  sottolineato,  quale  percezione  esterna  che  i
consociati hanno del modello di azione pubblica sopra descritto. 
    Sotto altro profilo, neppure puo' ritenersi che  una  modulazione
del  giudizio  di  responsabilita',  che  tenga  conto  dei   diversi
interessi in gioco, possa  in  qualche  modo  incidere  negativamente
sulle regole di efficienza,  efficacia  e  imparzialita'  dell'azione
amministrativa. 
    17. - In alcune ordinanze si assume anche la violazione dell'art.
103,  secondo  comma,  Cost.,  in  quanto  non   sarebbe   consentito
«escludere apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con
riferimento  ad  ipotesi  specifiche  di  responsabilita'  rientranti
tradizionalmente e genericamente  nella  materia  della  contabilita'
pubblica» (reg. ord. n. 25, n. 26 e  n.  27  del  2010).  Si  assume,
inoltre, la violazione  del  primo  comma  dell'art.  25  Cost.,  non
essendo possibile distogliere la controversia  dal  giudice  naturale
«successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia  nel  senso
di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni
forma di giurisdizione» (reg. ord. n. 25 del 2010; reg. ord. n. 24  e
n. 125 del 2010, ove si evocano, contestualmente, gli artt. 125 e 103
Cost.). 
    La questione non e' fondata. 
    Il secondo comma dell'art. 103 Cost. prevede  che  la  Corte  dei
conti ha giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica e nelle
altre specificate dalla legge. 
    La giurisprudenza costituzionale e' costante nel ritenere che «la
puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione  alle  diverse
fattispecie  di   responsabilita'   amministrativa»,   non   operando
automaticamente in base al disposto costituzionale, e'  rimessa  alla
discrezionalita' del legislatore ordinario (da ultimo sentenza n.  46
del 2008). 
    Nel caso in esame va osservato - come si e' gia' chiarito  −  che
il legislatore non ha neanche  inteso  attribuire  la  cognizione  di
talune fattispecie di responsabilita' amministrativa ad  una  diversa
autorita' giudiziaria, essendosi limitato a conformare, su  un  piano
sostanziale,  la  disciplina  di   un   particolare   profilo   della
responsabilita' amministrativa dei pubblici dipendenti  (sentenza  n.
371 del 1998). 
    Per quanto attiene, poi,  all'asserita  violazione  dell'art.  25
Cost., e' sufficiente rilevare come non sia la Corte  dei  conti  «il
giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela
da danni pubblici» (sentenza n. 641 del 1987).  A  cio'  si  aggiunga
che, nel caso in esame, il legislatore ha ridefinito i contorni,  sul
piano sostanziale ed oggettivo, della responsabilita' amministrativa,
escludendo la  possibilita'  di  proporre  l'azione  risarcitoria  in
mancanza  degli  elementi  indicati  dalla  norma  censurata,   senza
incidere in alcun modo sulle modalita' di individuazione del  giudice
competente.